Eugenio Riccomini: Nell’arte, sorriso e gentilezza

| 10 Ottobre 2012 | Comments (0)

 

 

Quando mi hanno detto, qualche giorno fa, di dire due parole sul tema della gentilezza nell’arte, che è la cosa di cui mi occupo più spesso, ho avuto all’inizio un dubbio perché io appartengo ad una generazione cui la gentilezza è stata insegnata ed imposta. Alcuni di voi appartengono a questa generazione, che si alzava in piedi all’ingresso dell’insegnante o nei bus quando c’era da cedere il posto ad una signora. Quel tipo di gentilezza era un costume che faceva parte di ciò che oggi è scomparso dalla nostra civiltà, ossia quella utilissima ipocrisia che si chiama buona educazione. Così come non è ipocrita l’ira o la sbruffoneria lo è invece la buona educazione perchè è imposta, perchè non viene dall’anima. Però ho notato che nel contempo, e soprattutto se la si pratica sin da bambini, diventa quasi una seconda natura, assumendo dunque i tratti di una gentilezza vera, di ciò che Don Nicolini definiva gentilezza d’animo o bontà.

Questo lo si vede frequentemente in certi periodi della storia dell’arte. Per esempio ci sono numerosi rilievi colorati in calcare egizio che raffigurano uno degli uomini più potenti della società egiziana, il faraone Akhenaton, nome assunto ad indicare il suo tentativo di abolizione del politeismo diffusissimo (e assieme ad esso del potere dei monaci che reggevano le ricchezze dei monasteri) per sostituirlo con l’adorazione di un dio solo, Aton, rappresentato dal disco solare. In questi rilievi Akhenaton che non era un guerriero (tanto che i suoi eserciti persero regolarmente tutte le battaglie, e alla fine fu sostituito al potere da un generale) è raffigurato in maniera piuttosto singolare per l’arte antica: il faraone gioca in casa sua con le sue bambine piccole. Si vede anche la moglie, bellissima, che veniva da lontano ed aveva il più bel nome che a mio avviso una moglie possa portare: Nefertiti, che vuol dire “la bella è giunta”.

Questo mi ha fatto venire in mente che, nonostante a scuola nessuno ce lo dica, la grande arte da cui discende la nostra fino al Rinascimento, fino a Canova e fino a certi periodi picassiani è quella greca, che ha parentele strettissime con quella egizia. I primi ex voto che i greci affollavano sulle piazze e nei viottoli antistanti i loro luoghi di culti, attorno all’Acropoli, al Partenone, ad Olimpia, sono giovani nudi in piedi, e giovanette con il peplo, e formano una folla attraverso la quale si passava come attraverso un gruppo di persone, anche perchè il marmo colorato degli originali rendeva queste figure molto umane, oltre al fatto di essere a grandezza naturale. Le figure sono immobili e impassibili, perchè all’inizio i greci pensavano che gli dei non fossero attraversati da sentimenti, ma colmi di una grande serenità, e del resto quando raffiguriamo il padreterno non lo facciamo mai sorridente: talora sorride Gesù, sorride la Madonna ma mai il Padreterno, poiché egli è nipote di Zeus, il grande dio antico. La cosa strana è che mano a mano che la civiltà greca creava quella stessa cosa che noi conosciamo oggi con lo stesso nome ma con grande diversità nella pratica, ossia la democrazia (che noi da una ventina d’anni abbiamo dimenticato e chissà se mai la recupereremo), le statue che omaggiavano le divinità cominciavano a sorridere, come le statue dei faraoni egizi. Basti pensare alle quattro statue di Ramses II ad Abu Simbel, con le mani sulle ginocchia, che guardano verso il punto in cui il sole nasce. Quando il sole spunta dall’orizzonte la prima cosa che tocca sono le labbra sorridenti del re. A similitudine degli egizi, i greci cominciarono uno studio anatomicamente complicatissimo per cercare di rendere il sorriso dell’essere umano. Fra le korai del Museo dell’Acropoli ce n’è una in cui si vede il sorriso di una fanciulla riprodotto fedelmente dallo scultore, nei movimenti delle gote e delle labbra. Il sorriso è, come tutti i sorrisi, asimmetrico: il che significa che si tratta di un sorriso autentico, vero, in grado di esprimere coi mezza dell’arte una felicità interna, una luminosità dell’animo. Questa consuetudine dura per parecchio tempo e piano piano si attenua quando alla prevalenza greca si sostituisce quella romana. Gli imperatori romani non sorridono. Mai abbiamo visto un busto sorridente di Caracalla, o di Marco Aurelio che pure fu il grande imperatore filosofo: l’atteggiamento è al più pensoso, sorridente mai. Tutti gli imperatori, anche quelli di Oriente, non sorridono: basti pensare al mosaico di Giustiniano a Ravenna, per non parlare del ritratto della durissima moglie. Tanto meno nell’Alto Medioevo qualcuno avrebbe avuto motivo di sorridere. E’ un periodo lungo di fame, peste, invasioni barbariche, distruzione. Bologna quasi scompare, Roma è ridotta a 15mila abitanti, Costantinopoli decade di giorno in giorno mentre sale la stella islamica, ma lì il sorriso non si può dipingere perchè è proibito, come per gli ebrei, dalla legge (tranne nelle bellissime miniature dipinte su fogli di carta, dove il sorriso ricompare). Il sorriso ritorna solo con la sete che la cultura umanistica, già in nuce nel Trecento e poi nel Quattrocento e Cinquecento in maniera sempre più forte, ha di reimpossessarsi della grandezza, della serenità e bellezza antica, greca o romana che sia. E infatti le figure di Botticelli sorridono, assieme a molte figure del nostro Quattrocento, come le Madonne di Desiderio da Settimiano che cullano quell’ombra quasi impalpabile, di marmo trasparente, che è il bimbo che cullano tra le braccia, rivolgendosi a lui con un sorriso. Questa è la gentilezza che compare nell’arte, nei momenti in cui l’arte tocca vertici altissimi in campo artistico ma pure umanistico, letterario, musicale. Il sorriso permane per tutto il Settecento: pensate ai sorrisi di Fragonard, di Buchet… Persino i grandi filosofi sono raffigurati mentre sorridono della propria intelligenza, autocompiacendosene: Voltaire, ad esempio, che si faceva ritrarre da Maurice Quentin De la Tour sorridente, come se stesse contemplando allo specchio la propria arguzia. E lo stesso De La Tour, ritrattista di quella Madame Pompadour che aveva ben motivo di sorridere della sua ascesa a corte, si dipinge con quel sorriso di chi è conscio della propria intelligenza, ossia della propria umanità o di quel barlume di divino che c’è in ognuno di noi.

D’altra parte il Settecento è il secolo della gentilezza: pensate solo ai balli in voga, di estrema grazia, raffinatissimi, l’opposto dell’odierna discoteca… Il sorriso perdura fino a quando gli italiani de tengono il primo posto di artisti in Europa. L’ultimo che non abbia avuto paragoni, impossibile da eguagliare, era un uomo che raffigurava veneri sorridenti, Canova. Dopo la sua morte il Romanticismo che non ha sorrisi ma urla, pianti, strepiti, proteste. E infine il socialismo e tutto ciò che è storia nota, fino ai moderni dittatori. Personalmente on ho mai visto una fotografia di Hitler sorridente, Mussolini non sorrideva ma rideva, virilmente, quando mieteva il grano e si faceva fotografare; Stalin sorrideva, ma sotto i baffi…

 

Eugenio Riccomini, storico e critico d’arte, allievo di Roberto Longhi, per più di vent’anni ha lavorato nell’amministrazione statale a Venezia, a Bologna, a Ferrara e a Parma, curando importanti restauri come quello della facciata di San Petronio a Bologna e delle due cupole del Correggio a Parma. In seguito si è dedicato all’insegnamento universitario occupando la cattedra di Storia dell’Arte prima a Messina e poi a Milano. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni in gran parte derivate dalla sua attività di tutela del nostro patrimonio artistico

Il testo è stato pubblicato in Inchiesta 175, gennaio-marzo 2012 , all’interno degli atti del convegno Sulla gentilezza promosso dall’Auser della Regione Emilia Romagna di cui è presidente Franco Di Giangirolamo

 

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Category: Arte e Poesia

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