Massimo Canella: Invito alla lettura 7. Simone Morandini, Cambiare rotta. Il futuro nell’Antropocene
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Invito alla lettura 7. Simone Morandini: “Cambiare rotta. Il futuro nell’Antropocene”. Edizioni Dehoniane, Bologna, 2020
“Perché dovrebbe importarmene delle generazioni future? Che cosa hanno fatto, loro, per me?” Enrico Giovannini giudica con qualche buona ragione “folgorante” questa battura di Groucho Marx, che ha scelto come incipit del suo tascabile Laterza “L’utopia sostenibile”. In realtà è raro che un pensiero simile emerga con chiarezza alla coscienza. E’ naturale che nel declino della vita uno ritenga di aver già dato, e se non lo ha fatto di aver poche probabilità di farlo in futuro. E’ naturale che si pensi anzi tutto a ciò di cui si dispone, e a una certa età si dispone del proprio presente e dei propri ricordi, “il nostro contenuto spirituale” secondo Droysen, mentre il futuro si presenta più che altro come una dimensione di cui occorre contenere l’avanzata. E’ anche eccessivo pretendere che la sollecitudine per il futuro di chi è oggetto dei nostri affetti si estenda spontaneamente, nella persona media, a quella per il futuro dell’umanità o della patria. Tuttavia, data la prevalenza delle generazioni mature nella composizione demografica della nostra società, anche loro, secondo Simone Morandini, dovranno essere chiamate “a porre al centro la dimensione intergenerazionale. Perché la fondamentale, sgradevole, impressione che emerge dalla lettura di questo tempo è quella di un progressivo ribaltamento del paradigma genitoriale evocato dal filosofo Hans Jonas […]il genitore compariva come colui che naturalmente si prendeva cura del figlio, investendo gratuitamente tempo ed energie per il suo futuro […] Oggi invece la prospettiva sembra rovesciata: politica ed economia guardano alle generazioni più anziane (numericamente prevalenti) per rendere attraente il loro presente: una prospettiva miope, che già ora toglie spazio ai giovani, senza dispiegare futuri sostenibili” (S, Morandini, “Cambiare rotta. Il futuro nell’Antropocene”, Bologna 2020, pp. 49-50). Bisogna pertanto indirizzare l’agire anche “a soggetti per i quali – come aveva giustamente intuito Jonas – non vale il gioco della reciprocità e occorre piuttosto un altruismo meditato, legato in solidarietà con le realtà e le persone che sono oggetto della cura, anche se distanti” (p. 73). Questo vale anzi tutto, è quasi inutile dirlo, per le tematiche del clima e dell’ambiente, che tanto e tanto giustamente allarmano le giovani generazioni.
Il lavoro di Morandini si articola in quattro parti: 1) la riflessione sulle caratteristiche di una nuova era geologica, che il premio Nobel per la chimica del 1995, Paul Crutzen, ha proposto con successo di designare come Antropocene, in cui “la presenza umana è ormai il principale fattore che determina le dinamiche biologiche e geologiche del pianeta” (p. 28); 2) i lineamenti di un’etica della sostenibilità; 3) la rassegna di sensibilità e contributi espressi sul tema nei diversi ambiti religiosi, nelle rispettive ottiche etico-teologiche; 4) le idee concrete su come “cambiare rotta”.
Difficile effettuare una sintesi stringata di ciò che già si presenta come una sintesi stringata, rispettosa per giunta di livelli di complessità notevoli: si può solo accennare ad alcuni passaggi. Per indicare le diverse interpretazioni del processo che ci ha portato sulla soglia di una crisi ambientale irreversibile vengono coniati alcuni “brutti neologismi” (p. 46), alternativi a quello proposto da Crutzen: l’Androcene appropriato all’eco-femminismo, secondo il quale “la crisi ambientale nascerebbe dalla società patriarcale che intreccia l’asimmetria culturale tra maschio e femmina con il dominio dell’uomo sulla natura”(p. 42); il Cristianocene pensato da chi vede il fondamento della volontà straripante di dominio dell’uomo sulla natura in un antropocentrismo esclusivo teologicamente fondato; l’Occidentocene, se “senza sovrastimare indebitamente fattori religiosi” si vede nella modernità occidentale, esportata poi nelle altre parti del mondo, la sorgente della crisi ecologica; il Capitalocene, se si evidenzia la responsabilità della “sottolineatura unilaterale del profitto quale unico scopo dell’agire economico”; il Tecnocene, se, consci del non diverso impatto ambientale della crescita economica nei paesi non capitalistici, si pone l’attenzione sulla crucialità del passaggio alle fonti fossili di energia. Tali letture dell’Antropocene potranno apparire preziose “nella misura in cui sapranno articolare la co-responsabilità differenziata (drammaticamente differenziata!) che investe l’intera famiglia umana. Poiché davvero il nostro rapporto con la tecnica va ripensato; davvero l’economia deve superare paradigmi inadeguati, iniqui e distratti nei confronti dei beni ambientali; davvero va profondamente ripensato l’orizzonte culturale del nostro agire socio-economico, così come il rapporto fra i generi. La sfida è però quella di articolare tali esigenze nel segno della complessità, senza cedere alla tentazione di semplificare questioni costitutivamente polidimensionali: E’ la prospettiva che ‘Laudato Si’’ chiama ecologia integrale, centrale per questo tempo” (p. 47).
Simone Morandini insegna “Teologia della creazione” all’Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino ospitato dai Frati Minori di S. Francesco della Vigna a Venezia, nonché alla Facoltà Teologica del Triveneto; coordina un gruppo di lavoro della Conferenza Episcopale Italiana; pubblica presso il Centro editoriale dehoniano di Bologna. E’ quindi espressione di un mondo ecclesiale che agli occhi dei “distanti”, nella storia e per principio, è parso teso a sminuire l’importanza delle cose transitorie a fronte della fede e dei comportamenti individuali, anche se nel confronto con una modernità a lungo rifiutata ha finito con lo sviluppare sistemi di pensiero e pratiche politiche importanti rispetto ai problemi sociali. Eppure questa volta, con più evidenza con l’attuale Pontefice, il mondo cattolico, e le altre confessioni cristiane, non han dovuto risolvere contraddizioni importanti nell’appoggiare e anche implementare richieste molto incisive relative ai temi ambientali. Un’intuizione semplice che può aiutare a spiegarlo viene dalla consultazione della citata “Utopia sostenibile” dell’attuale ministro Enrico Giovannini, che ha anche scritto la prefazione del volume qui recensito.
A metà degli anni 2000 la Conferenza degli Statistici della Commissione Economica Europea dell’Onu (UNECE) ha lanciato un progetto congiunto con Eurostat e OCSE per la misura dello sviluppo sostenibile, con un esito a detta di Giovannini “abbastanza consolidato in sede internazionale”. L’immagine grafica che ne rappresenta l’esemplificazione estrema, proposta da Giovannini nel 2013 nel corso di un incontro organizzato dal governo del Bhutan, vede gli insiemi dei bisogni umani, dei capitali economico naturale umano e sociale, delle componenti del modello di sviluppo etc. inquadrati da una cornice dei “limiti planetari”, dei limiti cioè che l’interazione delle forze non deve superare per non compromettere la sopravvivenza della vita nel pianeta o deteriorarne eccessivamente le condizioni. I limiti planetari non sono legati alla dialettica e ai conflitti delle forze economiche, degli stati, delle ideologie e delle classi sociali; “stanno”, sono il non-Io fichtiano che nega la nostra onnipotenza; ricordano a chi crede la nostra creaturalità, a tutti la nostra fragilità; la loro comprensione si presterebbe a essere predicata -con facilità da un’organizzazione radicata quasi ovunque a tutti i contendenti – stati, organizzazioni, persone, perché ne comprendano l’obiettività e l’urgenza degli interessi ad agire che li accomunano.
L’approccio suggerito dall’enciclica “Laudato Sì” di Bergoglio, che per Morandini è il punto di riferimento, più che di tipo dottrinale è di tipo esperienziale: “il soggetto coinvolto […] viene chiamato a responsabilità, a lasciarsi interpellare dalla contraddizione percepita, per farsene carico in tutto il suo spessore e rispondervi con un agire ponderato” (pp. 101-102).
“Per questa riflessione non interessano quelle posizioni che – vuoi per una unilaterale focalizzazione sull’umano, vuoi per un approccio liberista, insofferente ai vincoli per il soggetto – rifiutano una considerazione morale delle realtà ambientali” (p. 59). Morandini accenna alle posizioni per lui interessanti: quelle riconducibili a una “etica della vita”, che prendendo le mosse dal medico, musicista e filosofo protestante Albert Schweitzer professano che siamo “vita che vuol vivere in mezzo ad altra vita che vuol vivere”, inducendo a porre le questioni non banali degli animalisti; quelle riconducibili a una “etica della terra”, cioè dell’equilibrio dell’ecosistema, per cui secondo Aldo Leopold dovremmo saper “pensare come una montagna”; quella già citata, e molto considerata, della “etica della responsabilità” del pensatore ebreo Hans Jonas, che individua la necessità di superare il principio di reciprocità in nome di un nuovo imperativo morale che ci faccia assumere la responsabilità delle generazioni future e delle altre specie viventi. Vien proposto, come in “Laudato Si’”, di “articolare il vissuto emozionale, rimodulando la paura e connotandola in senso morale” (p. 71), giocando sull’indignazione, sulla vergogna, sul senso estetico, sul senso di giustizia, sulla solidarietà intra-specifica; incontrando così “il linguaggio dell’etica civile, teso a ritessere un’analoga rete relazionale per la città umana, superando la logica della contrapposizione e del rifiuto dell’alterità” (p. 73). Chi sapesse vivere con costruttiva fiducia questa speranza potrebbe effettivamente ripetere con Goethe: “La ragione ricomincia a parlare / e la speranza a fiorire” (Faust, versi 1198-1199).
Interessanti le considerazioni sulla ricerca di una sintonia dialogica e interreligiosa, orientata al perseguimento del bene comune e non, come più spesso è avvenuto, al confronto di convinzioni in sé irriducibili. “Per molte fedi, in effetti, la stessa terra è importante per l’esperienza di Dio, per alcune tradizioni in quanto suo dono, per altre in quanto sua manifestazione. Nella terra, poi, l’esperienza religiosa scopre anche il radicamento dell’esistenza umana (la Pacha Mama – Madre Terra in lingua quechua – delle culture latinoamericane)” (p. 107). Elisa Battistella ha confrontato con “Laudato Si’” quattro testi di diverse tradizioni, resi noti nel 2015: 1) la Lettera rabbinica del Centro Shalom di Wyncote (Pennsylvania), firmata da 415 rabbini statunitensi, che trova riferimenti sia nella tradizione biblica sia nella mistica cabalistica (la “shekinah”, divina presenza che “abita dentro al mondo come al di là di esso”); 2) l’Islamic Declaration on Global Climate Change elaborata a Istanbul in occasione dell’Islamic Climate Change Symposium, in cui fra l’altro si contrappone l’opera di Allah (“Niente di ciò che ha creato è senza valore: ogni cosa è creata in verità e secondo diritto”, sura 44,38 del Corano) alla “corruzione apparsa sulla terra e nel mare a causa di ciò che hanno commesso le mani degli uomini” (sura 30,41); 3) una Hindu Declaration on Climate Change sottoscritta da oltre sessanta personalità e associazioni, prodotta in verità in ambito accademico e interreligioso angloamericano, che vuole allargare la concezione del dharma dell’induismo nel senso che “dobbiamo considerare gli effetti della nostra azione non solo su noi stessi e sugli umani attorno a noi, ma su tutti gli esseri”; 4) una Dichiarazione del Global Buddhist Clinate Change Collective, che auspica “la realizzazione del Buddha della coesistenza dipendente (dependent co-arising), che interconnette tutte le cose dell’universo”. Nel mondo cristiano, oltre ai noti Albert Schweitzer e Pierre Theilard de Chardin, vengono citati i contributi del luterano Joseph Sittler, dell’evangelico Paul Abrecht, dell’ortodosso Paul Varghese, oltre all’istituzione nel 1989, da parte del patriarca ecumenico di Costantinopoli Dimitrios I, di una Giornata di preghiera per il creato. Le tradizioni religiose rafforzerebbero, nel loro insieme, l’atteggiamento delle persone nei confronti del cambiamento climatico con il gusto per la sobrietà e “una percezione del tempo ampia, capace di distendersi fra il passato della vita ricevuta e il futuro della speranza” (p. 126).
L’opera naturalmente contiene altri dati e approfondimenti, anche sul pensiero ufficiale della Chiesa, e molte indicazioni operative. Assieme al succitato volume di Enrico Giovannini è stata presentata on line il 24 maggio 2021 dal Gruppo Giovani Venezia di Amnesty International, che ha voluto mettere in risalto il rapporto fra la preoccupazione ecologica e la propria missione di difesa sistematica dei “diritti umani”. A porre in evidenza la riconducibilità delle azioni ecologiste a principi o prescrizioni contenute in fonti del diritto internazionale è stato Matteo Mascia, responsabile come Simone Morandini di un gruppo di lavoro della Fondazione Lanza, incardinata nella Diocesi di Padova – già allievo del Centro per i Diritti Umani dell’ateneo patavino fondato nel 1997 da Antonio Papisca, interlocutore importante per le organizzazioni non governative. Si tratta di corsi di studio introdotti in quegli anni nelle nostre università, orientati a un obiettivo pratico.
Ci sono anzi tutto il diritto internazionale e lo studio delle relazioni internazionali; ci sono le riflessioni di scienza politica e filosofia del diritto inevitabilmente prodromiche al loro studio, con la diversità non necessariamente contradditoria fra giusnaturalismo o anche approccio teologico e positivismo giuridico; c’è l’ampia multidisciplinarietà necessaria per definire i contorni dei diritti, comprenderne i livelli concreti di applicazione ed apprestare le azioni per sostenerli. C’è, soprattutto, un afflato etico: ci si avvale di ricostruzioni storiche e analisi socioeconomiche anche complesse, ma la ratio non consiste tanto nella conoscenza teorica, quanto nel porre la coscienza individuale e collettiva, rispetto alle situazioni proposte, davanti alla necessità di scegliere e di operare.
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