Vito Mancuso: Quale è il senso della vita ben oltre la malattia

| 29 Febbraio 2016 | Comments (0)

 

Diffondiamo da La  Repubblica 29 febbraio 2016

Una tavoletta cuneiforme dell’antica Babilonia racconta di un padre che ricevendo tra le braccia il figlio per dargli il nome, dopo averne osservato il corpo lo chiama Mînaarni, cioè: «Qual è il mio peccato?». L’aspetto di quel neonato è facilmente immaginabile. Oggi qui non parliamo di malattie comuni, del fatto cioè che se prendo freddo mi viene il raffreddore. A tema qui oggi vi sono le malattie rare, ovvero quelle disposizioni illogiche della natura da cui provengono malattie spesso inguaribili senza nessuna motivazione nel comportamento precedente. Sto parlando in particolare delle malattie genetiche, che rappresentano l’80% delle malattie rare e che sorgono nel periodo che va dal concepimento alla nascita. Quello che le malattie genetiche portano alla luce è la falsità delle visioni tradizionali e l’indicazione della prospettiva evolutiva quale unica sostenibile rappresentazione della vita. Esse ci liberano definitivamente dalla metafisica e dal corrispondente teismo, e insieme, se attentamente considerate, ci salvano dal nichilismo e dalla disperazione.

Questa è la tesi che intendo sostenere e che ora argomento mostrando dapprima le idee che vengono abbattute dalla riflessione sulle malattie rare e poi il messaggio da loro trasmesso. Ho ricordato quel padre di 4000 anni fa per sottolineare come da sempre la mente abbia cercato di indagare il motivo del comportamento illogico della natura che da madre generosa si trasforma in crudele matrigna. «Perché nascono così?»: è questa la domanda cui le religioni e le filosofie hanno cercato di rispondere. Le risposte si possono ricondurre a quattro: perché Dio castiga; perché Dio intende rivelare qualcosa; perché esiste una libertà della natura (di cui però Dio si serve per il suo piano); perché Dio non esiste e la vita è affidata al cieco caso.

La prima prospettiva è stata la più diffusa nel passato e penso lo sia ancora oggi, se non in Occidente, di certo a livello mondiale. Secondo essa Dio governa ogni cosa con onnipotenza, quindi non può accadere nulla contro il suo volere. Dio inoltre governa con giustizia, quindi da lui non può arrivare nulla di ingiusto. Ne viene che se c’è una malattia, prima c’è stata una colpa: la colpa è la causa, la malattia l’effetto. Dall’antica Roma fino alla prima metà del Novecento (e qui siamo alla seconda risposta) i malati più visibilmente colpiti a livello genetico venivano chiamati mostri. Cicerone spiega perché: «Sono chiamati mostri poiché mostrano». La natura segue un corso regolare, ma talora gli uccelli volano in modo diverso, la terra trema, il cielo si oscura o vi appaiono oggetti più luminosi del solito. La nascita di corpi anomali rientra in questi segnali particolari. Mentre le prime due risposte riconducono le malattie direttamente a Dio, la terza le riconduce a una causa diversa (la natura, gli uomini, il diavolo), aggiungendo però che Dio, che di per sé potrebbe impedirle, le permette per trarre da esse un bene maggiore. È quanto insegna il Catechismo attuale della Chiesa cattolica citando san Tommaso d’Aquino:«Dio permette che ci siano i mali per trarre da essi un bene più grande».

Qual è questo bene più grande? Le varie risposte sono riassumibili in una sola: la salvezza. Queste malattie, che Dio di per sé non vuole ma che sapientemente utilizza, rappresentano così una specie di pedagogia del dolore innocente (per riprendere il titolo di un libro di don Carlo Gnocchi del 1953). L’insostenibilità logica ed etica delle risposte tradizionali ha finito per generare la ribellione di molti, portando a porre il caso e talora persino l’assurdo quale sigla complessiva del tutto. In questa prospettiva la presenza del male in natura risulta così priva di giustificazioni plausibili da condurre al nichilismo, cioè alla considerazione della vita nel suo insieme come priva di ragione e di speranza. Nell’uomo cioè si può anche dare un desiderio di bene e di giustizia, ma non c’è nessun principio o senso complessivo cui legarlo, perché il male e la morte comunque vincono manifestando il nulla da cui veniamo e verso cui andiamo. Chi fa sua questa visione del mondo o vive nell’angoscia permanente o cerca di non pensare in alcun modo al negativo rifugiandosi in evasioni e consolazioni di ogni tipo.

Le malattie genetiche manifestano nel modo più chiaro l’aporia del pensiero occidentale, sia credente sia no, per lo più incapace di integrare il dolore in una sostenibile visione del mondo che dia conto di tutti gli aspetti della vita, di quelli sensati e di quelli insensati, di quelli logici e di quelli assurdi. Le malattie genetiche infatti hanno a che fare con il senso della vita di ognuno, secondo il principio formulato da pensatori di forte spessore quali Kierkegaard, Florenskij, Wittgenstein. Alla verità ci si avvicina solo pensando l’intero, cioè regola + eccezioni. Non è vero che le eccezioni confermano la regola, né è vero che distruggono ogni regola. È vero piuttosto che la regola è data da tutto ciò che avviene: casi normali + eccezioni, fisiologia + patologia. Il che significa che la regola si muove, diviene, evolve. Per questo l’unica prospettiva in grado di offrire qualche raggio di luce è la visione evolutiva del mondo.

Perché ci sono le malattie? Perché la vita è un processo che scaturisce dal basso, un delicato equilibrio tra sistemi fisici, chimici, biologici. Nessuna delle parti che compongono un essere vivente è vivente: non lo sono gli atomi, né le molecole, né le macromolecole delle proteine, degli zuccheri, dei lipidi, degli acidi nucleici. Però dall’aggregazione delle componenti fondamentali la vita emerge. I credenti vedranno questa scaturigine come frutto di una natura orientata verso la vita e l’intelligenza, secondo la modalità più adeguata di intendere la creazione che la pensa come creatio continua. I non credenti giudicheranno in altro modo: chi rimandando a una fortunata combinazione, chi ipotizzando una pluralità di universi all’interno della quale era quasi normale che nel nostro si sviluppasse la vita, chi altro ancora. In ogni caso per chiunque voglia prendere atto della conoscenza contemporanea, non è possibile prescindere dalla prospettiva evolutiva e processuale.

È in questa prospettiva che vanno comprese le malattie. Esse ci dicono che l’uomo è natura, fragile natura come ogni altra parte del cosmo, esposto alle ferite del caso. Esse però ci dicono anche altro: che l’uomo è più della semplice natura, è volontà di guarire, e, se non è possibile, comunque di curare. L’umanità sa prendersi cura e in questo si dà la luce più intensa che da essa possa scaturire. In conclusione che dire a chi si trova a convivere con una malattia rara, o in prima persona o sulla carne dei propri cari? Alcuni interpretano questa situazione come un castigo e una penitenza. Altri come un privilegio, perché la pensano come l’occasione di una rivelazione divina o di una ravvicinata partecipazione alla passione redentrice di Cristo. Altri l’interpretano come una disgrazia assoluta, la più abissale delle ingiustizie, una nera tragedia senza speranza. Io penso che la prospettiva più saggia consista nel viverla in unione con la costruzione del mondo, pensando la natura come un immenso laboratorio e ogni esistenza come un esperimento, e sapendo che perché un esperimento possa riuscire, altri sono destinati a fallire. Ma è solo grazie a questi fallimenti, che quel successo è possibile. Di fronte a questa situazione gli esseri umani sanno reagire, creando senso laddove il senso naturale ha fallito. Curano anche laddove la guarigione risulta impossibile e producono solidarietà e gratuità. Superano così la prospettiva che guarda alla vita solo all’insegna dell’utilitarismo e dell’edonismo. Siamo al cospetto del bene, l’evento più nobile cui la vita possa partecipare.

 

 

 

 

 

 

Category: Culture e Religioni, Welfare e Salute

About Vito Mancuso: Vito Mancuso. Nato nel 1962 a Carate Brianza da genitori siciliani, è dottore in teologia sistematica. Dopo il liceo classico statale a Desio (Milano), ha iniziato lo studio della teologia nel Seminario arcivescovile di Milano dove al termine del quinquennio ha conseguito il Baccellierato, primo grado accademico in teologia, ed è stato ordinato sacerdote dal cardinale Carlo Maria Martini all’età di 23 anni e sei mesi. A distanza di un anno ha chiesto di essere dispensato dalla vita sacerdotale e di dedicarsi solo allo studio della teologia. Dietro indicazione del cardinal Martini ha vissuto due anni a Napoli presso il teologo Bruno Forte (attuale arcivescovo di Chieti e Presidente della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede della Cei), sotto la cui direzione ha conseguito il secondo grado accademico, la Licenza, presso la Facoltà Teologica “San Tommaso d’Aquino”. Vito Mancuso è un teologo italiano. E' stato docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano dal 2004 al 2011. I suoi scritti hanno suscitato notevole attenzione da parte del pubblico, in particolare L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina, 2007),Io e Dio Una guida dei perplessi (Garzanti, 2011), Il principio passione La forza che ci spinge ad amare (Garzanti 2013), tre bestseller da oltre centomila copie con traduzioni in altre lingue e una poderosa rassegna stampa, radiofonica e televisiva. Il suo pensiero è oggetto di discussioni e polemiche per le posizioni non sempre allineate con le gerarchie ecclesiastiche, sia in campo etico sia in campo strettamente dogmatico. Dal 2009 è editorialista del quotidiano “la Repubblica”. I suoi ultimi libri: "La vita segreta di Gesù" (Garzanti Editore, aprile 2014) e "Io amo: Piccola filosofia dell'amore( Grazanti Editore 2014). Da marzo 2013 è docente di "Storia delle dottrine Teologiche" presso l'Università degli Studi di Padova.

Leave a Reply




If you want a picture to show with your comment, go get a Gravatar.