Idee nuove, oltre il volontariato classico

| 25 Ottobre 2011 | Comments (0)

Un’inchiesta di etnografia del pensiero coordinata da Valerio Romitelli sul Sokos, associazione di volontari per l’assistenza medica ad immigrati ed emarginati*

 

Una introduzione metodologica

Secondo le dottrine dell’empowerment ovunque imperanti, chiunque, per quanto misero ed emarginato, se opportunamente aiutato, può farcela a divenire manager di se stesso e quindi a migliorare la propria condizione.  Ne consegue che sarebbe la singola persona il principale destinatario cui dovrebbero rivolgersi le politiche sociali. La crisi in corso e i suoi perduranti effetti destabilizzanti mettono però sempre più in evidenza tutti gli inconvenienti di simili dottrine ostentatamente ottimistiche. La loro fiducia – tipicamente a stelle e strisce – nella presunta onnipotenza delle capacità imprenditoriali di chiunque, anziché essere – come si pretende – la soluzione di ogni problema sociale, ne è piuttosto la causa. Tanto più si nega, infatti, l’importanza delle crescenti differenze a livello prettamente impersonale, come quelle tra ricchi e poveri, o tra governati e governati, tanto più scienze e politiche sociali sono giustificate a disinteressarsi  delle loro conseguenze. Con l’unico risultato di aggravarle.

La critica delle dottrine dell’empowerment è oggi dunque una premessa obbligatoria per tutte le scienze sociali che vogliano contribuire ad un  miglioramento delle politiche sociali. Questo è in ogni caso uno dei presupposti decisivi del metodo dell’etnografia del pensiero. Le sue ricerche si rivolgono, infatti, a conoscere la realtà sociale di luoghi di lavoro e di erogazione di servizi fondamentali a partire dalle parole e dal  pensiero di chi fa esperienza diretta di tali luoghi, pur senza avervi alcun potere decisionale. I governati dunque interpellati, luogo per luogo, come popolazione fatta, sì di persone, ma con problemi e/o possibili soluzioni fondamentalmente impersonali.

Quattro sono tra le maggiori convinzioni scientifiche che spingono il gruppo di ricerca di etnografia del pensiero in questa direzione. Una è che la stragrande maggioranza della gente a livello mondiale non ha, né potrà mai avere potere decisionale laddove fatica o soffre per lavorare o fruire di servizi fondamentali. Un’altra è che tale fatica e sofferenza costituiscono le condizioni per un’intelligenza della realtà sociale altrimenti impossibile. La terza è che questo immenso patrimonio d’intelligenza resta una risorsa sprecata. La quarta è che solo conoscendola e facendola conoscere luogo per luogo  le scienze sociali possono contribuire ad un miglioramento delle politiche sociali.

Anzitutto, dunque, andare tra popolazioni di governati per raccoglierne parole e pensiero sui luoghi della loro realtà sociale; da ciò ricavare poi prescrizioni da far presente ai governanti, perché questi possano gestire il loro potere in modo meno distante dai governati: questi in conclusione i compiti per cui si è formata e che si dà sempre l’etnografia del pensiero.

Tutta questa relativamente lunga premessa serve ad inquadrare la singolare peculiarità della ricerca condotta dal Grep con la collaborazione degli studenti del corso Metodologie delle Scienze Sociali tenuto nel 2010 da Valerio Romitelli presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bologna. Tale ricerca si è svolta tra i volontari del Sokos, un’associazione che tramite un ambulatorio presso una sede Ausl di Bologna offre assistenza gratuita, sia agli immigrati senza permesso di soggiorno, sia alle persone senza dimora, nonché a chiunque non riesca o non possa utilizzare i servizi sanitari pubblici.

L’etnografia del pensiero aveva già condotto alcune indagini sulla realtà complessa del volontariato, ma anche in questo caso si riproponeva un problema di metodo maggiore. Sarebbe a dire come inquadrare problematicamente la popolazione del Sokos, dal momento che trattandosi di volontari, i suoi associati non possono essere considerati né governanti, né governati.

A ciò si potrebbe certo obiettare che offrendo un servizio, pur senza contropartita, essi comunque lo governano, e così esercitano un potere, oltre che un sapere. Ma resta, d’altra parte, che proprio in quanto volontari essi non hanno alcuno di quei vincoli che solitamente caratterizzano ogni potere di governo, sia esso pubblico o privato, cioè aziendale. Nulla infatti obbliga gli associati del Sokos ad assicurarne coerenza universalistica e continuità, come ad esempio accade o dovrebbe accadere ai funzionari delle istituzioni pubbliche. Né d’altra parte sono tenuti a difendere la loro associazione dalla concorrenza, come accade in un’impresa a scopo di lucro. In più è chiaro che l’attività del Sokos si svolge proprio in condizioni decise da altri, anzitutto dai poteri che governano l’immigrazione o le possibilità di alloggio gratuito.

Scopo di questa associazione volontaria, come di altre più o meno simili, si può dunque dire, sta nell’offrire un aiuto per migliorare le politiche sociali esistenti, quali sono dettate dai determinati governi pubblici e privati.

Si potrebbe anche intendere questo aiuto come meramente tecnico, da professionisti, in questo specifico caso, da medici interessati solo alla cura del singolo paziente. Ma oramai non c’è tecnica o professionismo, meno che mai quelli medici, che possano pretendersi strumento del tutto neutrale. Ogni esperto sa che qualsiasi competenza dipende dal modo e dal senso in cui la si esercita. Nel caso della medicina è quanto mai chiaro che la cura del singolo cambia in rapporto alla salubrità o meno della realtà sociale in cui si trova. Conclusione inevitabile è allora che ogni tipo di cura della salute ha direttamente a che fare con le politiche sanitarie, così come queste ultime hanno a che fare con la politica in quanto tale.

Ecco allora il grande problema che abbiamo rilevato porsi agli associati del Sokos – e che a maggior ragione si è posto alla nostra ricerca, volta com’è a cercare prescrizioni per migliorare le politiche sociali esistenti. Questo gran problema è rappresentato dal fatto che la politica sociale e quindi anche sanitaria nei confronti degli stranieri in Italia non è affatto positiva, orientata all’accoglimento benevolo, ma piuttosto alla discriminazione, alla criminalizzazione, all’esclusione, all’espulsione.

Così incontriamo un altro grande problema del nostro tempo[1]. Sarebbe la situazione paradossale tipica del nostro paese, ma anche altrove,  per cui l’amore per il prossimo diventa fatto sempre più privato, mentre l’odio sta diventando il sentimento pubblico per eccellenza. In effetti, se da un lato assistiamo a fenomeni come la straordinaria diffusione della filantropia, l’esaltazione della pietà, della carità, la proliferazione di organismi di volontariato, non lucrativi, non governativi…, dall’altro, ci si trova di fronte a politiche governative tutte incentrate sulla sicurezza e aventi come primo obiettivo di alimentare sempre più sentimenti di paura ed odio. Paura e odio soprattutto nei confronti di immigrati privi di capitali, che, esattamente come questi ultimi, sono spinti a muoversi unicamente per  cercare opportunità su scala globale.

Così, una notevole propensione ad attività sociali, “dal basso”, ispirate a nobili sentimenti, come accoglienza amichevole e pacifica di nuove popolazioni disagiate, si trovano a coesistere con strategie governative che, “dall’alto”, inducono alla discriminazione, alla criminalizzazione, all’espulsione.

Come pensare dunque di potere invertire questa sterile e inquietante polarizzazione oggi vigente tra, da un lato, la filantropia volontaria e personalizzata e, dall’altro, le politiche che pubblicamente fanno dell’ostilità impersonale, tra comunità, un cavallo di battaglia vincente?

Questo dunque il nodo problematico su cui abbiamo interpellato i volontari del Sokos, proprio in quanto direttamente coinvolti  da esso.

I. Il Sokos e la nostra ricerca

I. 1

Ma anzitutto spieghiamo meglio di che associazione si tratta e come abbiamo condotto la nostra ricerca su di essa.

Come già accennato, Sokos è un’associazione composta prevalentemente da medici che offre gratuitamente visite di medicina di base e specialistiche, tra cui ginecologia, dermatologia, fisiatria, psicologia, neurologia, psichiatria, nefrologia, ortopedia, chirurgia vascolare a immigrati senza permesso di soggiorno, a persone senza dimora e a chiunque non riesca o non possa utilizzare i servizi sanitari pubblici. Come riportato nel sito dell’associazione, i suoi volontari hanno assistito fino 2009 più di 14.000 persone. Particolare attenzione è dedicata alla prevenzione delle malattie e alle cura delle donne straniere cui viene offerto un servizio ginecologico gratuito ed efficiente (che può avvalersi anche di un ecografo acquisito grazie ad un contributo della Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna).

Degna di nota è l’origine di Sokos e quanto ancora le sue conseguenze siano presenti tra le riflessioni dei suoi associati.

La sua nascita a Bologna nel 1993 fu infatti dovuta ad un gruppo di persone precedentemente impegnate presso l’Ambulatorio «Irnerio Biavati», presidio storico della città, avviato dall’associazione Confraternita della Misericordia più di trent’anni fa e che ogni giorno, festività comprese, continua ad offrire assistenza a quanti non trovano risposta nei servizi pubblici. Alcuni del Sokos vi lavoravano anche da cinque anni quando, come riportato chiaramente in un’intervista, “uscirono e costituirono il Sokos”. «La diatriba con il Biavati – ci ha detto un intervistato protagonista di quel momento – insorse durante lo svolgimento di un progetto che consisteva nell’intercettare queste persone (prostitute) dando loro condom, offrendo assistenza di ginecologi. Il dissidio verteva su due questioni. La prima era di voler associare ai medici un teologo. La seconda era di farle concorrere alle spese. Non è più volontariato. Non eravamo d’accordo…. Ci furono degli scontri quando noi uscimmo e costituimmo il Sokos. Il fatto di porre sul mercato nuovi enti costringeva a dividere le spese per la gestione delle persone. Ma Il fatto di aver guadagnato una mente libera ci aiutava ad avere un rapporto più facile. Ci trovavamo ad avere scontri aspri quando l’Usl ci convocava. Ora però, la Sokos è nuova e ha una completa libertà, mentre il Biavati è storica e ha grosse limitazioni».

Un dissidio e una scissione, dunque, abbastanza chiari quelli da cui ha presso le mosse Sokos. Ma come vedremo, i rapporti tra associazioni anche contigue pare essere un tema controverso nelle riflessioni dei volontari intervistati. Emblematiche sono a questo proposito le parole di un altro intervistato: «A Bologna ci sono altre associazioni che svolgono con noi questa attività, come il Biavati, ma è un discorso che non è ancora venuto fuori da parte dei volontari… Io non ho ancora valutato se una sinergia tra i vari gruppi di lavoro possa essere organizzata o no. Ognuno ama la propria creatura ed è difficile collaborare e mettersi d’accordo».

Come vedremo più oltre, al punto V, alcuni volontari da noi interpellati si sono espressi in senso ben diverso da quello delle parole or ora riportate.  Il che non fa che confermare tutte le difficoltà del problema segnalato all’inizio, quello della capacità di non limitarsi ad offrire un aiuto medico puramente specialistico, ma di riuscire ad incidere sull’orientamento delle politiche sociali.

Tentativi in tal senso non sono certo mancati nella storia del Sokos. Lo testimonia la realizzazione del “Tesserino di Temporaneo Soccorso”, prima esperienza nazionale di assistenza sanitaria temporanea a persone in condizioni di emarginazione. Ma lo testimonia soprattutto l’impegno profuso da questa associazione nella primavera del 2009 in occasione dell’approvazione del famigerato “pacchetto sicurezza” – di cui tratteremo in seguito – contro il quale è stato organizzato un “Noi non segnaliamo day” .

I. 2

Quanto alla nostra ricerca, le interviste si sono svolte durante la seconda parte del corso di Metodologia delle Scienze Sociali, in cui gli studenti, preparati nelle prime trenta ore di lezione, cominciano a sperimentare un’attività di ricerca sul campo, col supporto del Grep. Durante il corso ci sono stati interventi di presentazione del Sokos e di alcuni esperti della realtà degli immigrati a Bologna e dei loro diritti[2]. Gli studenti sono stati organizzati in sei gruppi di 3 o 4  ciascuno. In questo modo, tra il 20 e il 29 aprile 2010, si sono realizzate una ventina di interviste, di circa un’ora e mezza ciascuna, quasi tutte presso l’ambulatorio del Sokos.

Il campionamento, dati i tempi ristretti in cui è dovuto avvenire, è stato “casuale” e ha portato ad un gruppo di intervistati composto prevalentemente da donne: ben quattordici rispetto ai sei uomini, il cui totale rappresenta circa un terzo della popolazione che rende possibile Sokos.

Riguardo all’età lo spettro, assai vasto, va dai 25 ai 63 anni. Se ne deduce facilmente un’età media di poco inferiore ai 40 anni. Ma di quarantenni nel nostro campione non vi è neppure l’ombra. È importante notare la presenza di due blocchi concentrati in fasce d’età molto distanti. Abbiamo infatti 14 intervistati di età compresa fra i 25 e 32 anni circa. Altri sei, tra i 58 e i 63 anni. Attualmente l’associazione conta circa 40 medici, dieci operatori addetti all’accoglienza, un farmacista e sei collaboratori. Dunque i medici rappresentano oltre due terzi degli associati. Ma, nel nostro campione, i medici sono meno della metà. Di contro abbiamo praticamente tutti gli addetti all’accoglienza. Difatto risultano 9 addette all’accoglienza e alla segreteria, tutte donne e tutte nella fascia d’età dei giovani (25-32 anni). Degli altri due intervistati non medici, entrambi nella fascia dei “meno giovani”, una si occupa di amministrazione e contabilità e l’altro è il “tuttofare” dell’associazione, o come si è autodefinito “lo sguattero”. Il resto degli intervistati è costituito da nove medici, di cui però un ventiseienne ancora studente. Tre di loro si occupano delle visite di base, ma ben cinque sono anche specialisti. Altro parametro dallo spettro molto vasto è quello che in altri luoghi si chiamerebbe “anzianità di servizio”. Si va da volontari arrivati da appena due mesi allo zoccolo duro dei fondatori, concentrati ovviamente nella fascia d’età più alta.

Tranne un’intervistata sudamericana, il nostro gruppo è composto di soli italiani. Una buona parte, otto, provenienti dalla stessa Emilia Romagna, tra cui tre di Bologna. Per il resto hanno una provenienza abbastanza equamente distribuita nella penisola. Di Cremona, Cuneo, Treviso e Trento i quattro settentrionali. Potenza, Reggio Calabria, Pescara per i quattro meridionali. Altri tre tra Urbino e Senigallia. Vivono tutti comunque stabilmente a Bologna da anni.[3]

 

 

I. 3

Nessun colloquio si è concluso senza chiedere “cosa pensa di questa intervista?”. Le risposte a questa domanda hanno evidenziato l’interesse che la nostra ricerca ha suscitato tra gli intervistati. La prima interpellata, ad esempio, piuttosto che esprimere un proprio parere ha detto: «Sono contenta perché così Sokos si fa conoscere di più…ci fossero più interviste così!…». Un medico, dalla lunga esperienza, nonostante la notevole durata del colloquio che ci ha concesso, si è dichiarato persino “disponibile per un replay”: «Domande esaurienti, ne avete fatte tante, corrette e precise. Spero di essere stato esauriente nel rispondere, vi do la mia disponibilità per un replay se ne avete bisogno». Osservazioni che si associano a quelle di chi ha visto il nostro lavoro come un “lavoro ben fatto”. Molti altri volontari hanno tenuto anche a definirlo “interessante”. E anche sui risultati finali si è dimostrata attesa: «Beh, interessante… Mi piace molto il vostro progetto, anzi spero che il più estensivamente possibile potremo leggere il frutto di questa ricerca». D’altra parte, molti volontari hanno motivato il loro apprezzamento per l’intervista in quanto occasione di riflessione sul proprio operato: «Molto interessante… – ci ha detto un’intervistata –  nel senso che fa riflettere anche l’intervistato,… perché non è che tutti i giorni sto qui a pensarci, nel mio quotidiano,… questa intervista tira fuori un po’ tutto, è molto completa. Il (mio) pensiero è molto confuso… L’intervista aiuta». Dello stesso tono sono parole di un altro da noi interpellato: «Penso che sia stata un’ esperienza utile… poi lo dirò dal prodotto finale… però insomma l’ho fatto molto volentieri. È stata un’occasione in più per pensare, per prendere consapevolezza di quello che faccio qui».

II.  È una legge, che possiamo fare?

Venendo al tema per noi cruciale di cosa pensino i volontari Sokos delle politiche governative e sanitarie sull’immigrazione, di primo acchito, si può rispondere: sicuramente il peggio. Il “pacchetto sicurezza” che è un punto fondamentale di queste politiche è stato oggetto dei più convinti dileggi.

Ad esempio, qualcuno dei nostri intervistati interpellato a questo proposito ha semplicemente reagito ripetendo lo slogan delle manifestazioni contro tale “pacchetto”: «il medico non è una spia!». Un’altra intervistata, appena ci ha sentito parlare di tale insieme normativo, è sbottata in: «Grande violazione dei diritti umani! Non bisogna classificare gli stranieri di serie A e serie B… niente di peggio che associare la cura alla paura». Un altro giudizio particolarmente drastico da noi raccolto a questo proposito è:  «Penso che sia un incentivo alla non integrazione, quindi all’esclusione di tutti gli immigrati, una “caccia alle streghe”». C’è però anche chi ha tenuto a sottolineare le conseguenze perverse di questa legge dello Stato: «È il discorso della salute pubblica […] a non venire salvaguardato. Così possono convivere con noi persone malate che potrebbero altrimenti minare […] lo sforzo che si fa in primis perché tutti siano curati[…]. La salute di queste persone è una minaccia anche per noi: questo è il discorso!». Ancora più netto l’avviso di un medico: «Alla Sokos  non resta altro che protestare! Bisogna contrastarla punto per punto».

Di tono analogo sono state le risposte di quasi tutti gli intervistati. Ma da simili condanne non sembrano derivare altrettante considerazioni sul come renderle operanti. Così, a proposito di questa legge, tra i nostri intervistati abbiamo rilevato una sorta di malcelato fatalismo, come se non fosse possibile immaginare nulla che possa cambiare le cose. Alla domanda «cosa ne pensi del ‘pacchetto sicurezza’?», sono frequentissime le risposte ironiche, se non sarcastiche, volte ad indicare un venire meno delle parole, un’afasia quasi obbligatoria. Ad esempio, il presidente del Sokos parla di «idiozia pura e ignoranza solenne… un reato alla persona. È non conoscere e negare i diritti internazionali, un prodotto di menti bacate che non hanno finito la terza elementare. Solo in Italia possono uscire queste cose». La condanna, malgrado la sua radicalità, finisce però per dissolvere il suo oggetto polemico: «(Il “pacchetto sicurezza”) è senza commento, è come parlare delle nuvole. Parliamo di niente». Altra risposta da noi raccolta a questo riguardo è stata: «È meglio che non pensi al “pacchetto sicurezza”… io non pensavo neanche potesse passare qualcosa di simile in Italia, e invece…». Similmente un’altra intervistata ammette di non pensarne «nulla», subito però affrettandosi a precisare «nulla che non implichi la bestemmia e il turpiloquio», per concludere categoricamente che «non ha senso». L’intervistato col ruolo del “tuttofare”, sulle prime, reagisce rispondendo «non mi fate questa domanda» e, poi, aggiunge umoristicamente «mi avete già fatto venire i fumi, mi fate andare in andropausa galoppante!». Tra gli altri intervistati c’è stato poi chi, dopo avere sorriso, ha tenuto a sottolineare «penso che intanto sia falso chiamarlo “pacchetto sicurezza”», subito puntualizzando «penso di non dovere andare oltre per spiegare come la penso», anche se in seguito è giunto a stigmatizzare in tono grave come «inconcepibile il concetto stesso di reato di immigrazione». Un’altra ancora è sbottata: «è uno schifo!», ma solo dopo aver esitato, non poco, schermendosi con termini come «oddio… non penso di potere esprimere un pensiero politico mio personale generico».

Si comprendono bene allora i profondi dubbi circolanti tra i volontari Sokos a questo proposito. Tali dubbi sono manifestati ad esempio in una domanda come: «È una legge,  che possiamo fare?». Se è questo che si chiede una delle fondatrici di questa associazione,  anche la più giovane da noi intervistata non esterna certo minor incertezza: «Non saprei quale potrebbe essere un’alternativa possibile. Anche chi vota Prodi o Veltroni potrebbe essere allineato con il “pacchetto sicurezza” … e non è che all’estero vada meglio che in Italia».  Non sono mancate neanche le frasi di sconforto: «la china è quella di un controllo sempre più repressivo che mira ad invisibilizzare gli immigrati». Così si è espressa l’“amministratrice” dell’associazione, mentre un medico, con una lunga carriera da specialista alle spalle, è ricorso a toni più consolatori: «le cose si stanno normalizzando, – aggiungendo – anche perché si sa che le leggi in Italia vengono interpretate».

Come dunque caratterizzare il pensiero della maggioranza dei nostri intervistati sul “pacchetto sicurezza”? Certo da essi è talmente esecrato, messo a distanza, da venire screditato anche nei suoi effetti reali. Come si trattasse di un incubo con limitate conseguenze perturbanti sulla vita da svegli.  Sta di fatto che nell’ambulatorio comunale del Sokos questo insieme di leggi non vige.

Almeno direttamente.

III. Una norma manifesto

Per affrontare questo ingarbugliato nodo, comunque qui cruciale, dobbiamo proporre un nostro taglio interpretativo.

Del “pacchetto sicurezza” è stato già detto trattarsi di una “norma manifesto”, che colpisce la speranza di vivere meglio e accresce la vulnerabilità e ricattabilità degli stranieri, generando ulteriore irregolarità[4]. E ciò in quanto «in parte inapplicabile, in parte inutilmente vessatorio», ma «molto efficace nel creare paura tra gli stranieri». Il problema di fondo è che questo “pacchetto” ha come solo ed unico obiettivo quello di apporre sullo straniero senza carte in regola un marchio di criminalità sotto le sembianze di una legge. E ciò anche se tale legge non può neanche funzionare davvero come tale. Stante, infatti, la difficoltà di stabilire concretamente dove stia la criminalità del non avere documenti, il “pacchetto sicurezza” si limita a comminare ai cosiddetti clandestini un’ammenda amministrativa, simile a quella inflitta ad un’auto in divieto di sosta. Si tratta dunque certo di un “manifesto”, si può ben dire, chiaramente leghista, che istiga al massimo odio, quello che si riserva a ladri ed assassini, verso popolazioni colte “in divieto di sosta” nel nostro paese.

Ma è discutibile che la conseguenza principale di questo “manifesto” sia quella di «creare paura tra gli stranieri». Per loro, infatti, le eventualità della reclusione e del rimpatrio forzato esistevano già prima del “pacchetto sicurezza”. Certo, sapere di essere considerati addirittura criminali e di rischiare pure delle multe pecuniarie per il solo fatto di essere qua e non altrove non può che destabilizzare chiunque. Ma destabilizzazioni ancora peggiori sono quelle che ricadono sulle stesse istituzioni italiane, notoriamente poco amate dalla stessa Lega. Anzitutto il danno di accogliere tra le proprie leggi, o presunte tali, una che forza ogni principio e distinzione di diritto (anzitutto la separazione tra diritto penale e amministrativo) pur di istigare all’odio verso gli stranieri. Ma nel “pacchetto sicurezza” ci sono anche parecchie altre conseguenze particolarmente destabilizzanti per il nostro paese. Tra di esse ci interessano qui, particolarmente, quelle concernenti i  pubblici ufficiali, come i medici. Questi in effetti, stante uno scenario criminale, hanno l’ovvio dovere di passarne informazione a organi di pubblica sicurezza. Insomma sono tenuti a fare la spia.  Un vincolo questo che, applicato nella cura degli stranieri, non può che avere implicazioni sanitarie insostenibili. Come diceva il nostro intervistato più sopra: «È il discorso della salute pubblica […] a non venire salvaguardato». Ecco allora che il Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, dopo solo quattro mesi rispetto all’entrata in vigore del “pacchetto sicurezza”, il 27 novembre 2009 ha promulgato una Circolare (n. 780/A 7)[5] che contraddice, sia pur parzialmente, lo stesso “pacchetto sicurezza” del 5 luglio 2009. In tale circolare si afferma infatti «il divieto di segnalare alle autorità lo straniero irregolarmente presente nel territorio dello Stato che chiede accesso alle prestazioni sanitarie». Addirittura concludendo con una “preghiera”: «Si prega di voler assumere ogni opportuna iniziativa[…] al fine di risolvere eventuali dubbi interpretativi» che favorissero l’applicazione del “pacchetto sicurezza” su questo punto.

Così le politiche sanitarie già in atto nei confronti degli stranieri hanno potuto continuare a svolgersi aggirando, tamponando i guasti prodotti “pacchetto sicurezza”. Ma questa norma giuridicamente incongrua e scarsamente efficace resta comunque sempre perfettamente funzionante come “manifesto” di una politica di criminalizzazione degli stranieri. E ciò non può non interferire con le stesse politiche sanitarie. Quali possano essere queste interferenze create dalla politica che ha portato al “pacchetto sicurezza” è ben esemplificato dal vile attentato rievocato dal Presidente del Sokos nel corso dell’intervista rilasciataci: «Ci sfregiarono il portone della sede dell’epoca, quattro anni fa… lasciarono volantini della Lega in piena campagna elettorale… ci scontrammo.. c’era un grande fermento… eravamo il covo di Al Qaeda, eravamo nell’occhio del ciclone… ci fu questa aggressione… io corsi alla Digos, feci denuncia contro ignoti. Eravamo minacciati dai coinquilini che vedevano queste facce nere, queste lingue diverse… e poi conoscete la campagna politica di questo movimento (la Lega Nord)… noi ci siamo battuti… abbiamo fatto una giornata di mobilitazione a Bologna, abbiamo chiamato altre associazioni…». Si tratta di un episodio precedente all’approvazione del “pacchetto sicurezza”, ma, come confermano tanti altri eventi simili nel frattempo intervenuti, tale norma non fa che elevare a legge il pregiudizio secondo il quale chi aiuta e cura dei “clandestini” sta aiutando e curando dei criminali. Dal che si comprende come i servizi medici per gli stranieri sul piano nazionale rischino sempre più di sottostare alla discrezionalità di chi li può fornire. E così si comprende anche come le cure offerte da volontari come quelli Sokos, siano divenute, al contempo, più indispensabili che mai, ma esse stesse quasi clandestine per l’opinione pubblica. Significativamente il presidente Sokos arriva a paragonare la propria condizione a quella dei suoi utenti: «L’80% delle loro caratteristiche è comune… comune a loro e a me…. nell’ambito della professione che mi dà da vivere, l’80% della mia clientela privata è berlusconiana o leghista… non parlo mai dell’associazione in ambito professionale…». L’accoglimento e la strutturazione in una sede Ausl di questa associazione ha infatti certo comportato infinite migliorie tecniche, ma non le capacità di contribuire a proprio modo alle politiche sanitarie.

Più sopra abbiamo segnalato una certa contraddizione tra la ripulsa del “pacchetto sicurezza”, condivisa dalla stragrande maggioranza dei nostri intervistati, e le loro difficoltà a trarne delle conseguenze pratiche. Ebbene pensiamo che queste difficoltà siano del tutto giustificate dall’inattesa novità rappresentata tanto da questa “norma manifesto” quanto dalla sua rettifica tramite la Circolare ( n. 780/A 7) del 27 novembre 2009: novità che, legittimando più che mai l’opinione dei “clandestini” come criminali, pongono inattese difficoltà a volontari come quelli del Sokos che si dedicano proprio a  tali figure.

Per avvicinarci ai modi in cui tali difficoltà sono pensate all’interno di questa associazione ci è parso significativo comparare due interviste.

IV. Due interviste a confronto

IV. 1

Da un lato, quella al medico-chirurgo, di 58 anni, moglie africana, volontario in Africa, fondatore di questa associazione che presiede da 15 anni, dall’altro, l’intervista ad una  volontaria di 32 anni e che fa accoglienza al Sokos solo da cinque mesi.

Il primo, dopo averci confessato «il mio pensiero me lo tengo per me… quando vado per strada, teniamo gli occhi aperti…», si è dichiarato ancora più pessimista per l’avvenire: «Non si migliora, peggiorerà sempre. L’Europa sta diventando una roccaforte». La mancanza di cultura risulta la causa prevalente: «È caduto il muro di Berlino, ma si stanno formando tanti muri tra nord e sud… non più ideologici, ma economici, legati alla mancanza di cultura». Peggio del peggio appare l’Italia: «È un paese che non tollero, non c’è rispetto… non sopportiamo i regolamenti… Cerchiamo sempre di scappare…». Già particolarmente netto nel condannare il “pacchetto sicurezza” (come qui già riportato) il presidente del Sokos non vede neanche molte opportunità per far conoscere ed apprezzare le attività del Sokos: «è difficile far ragionare la gente… la gente pensa quello che c’è in tv… Chi fa l’opinione è la tv… ma chi approfondisce ?… Chi si prende la briga di conoscere ? Perché lo dovrebbe fare? La gente non si chiede più il perché delle cose…».

Così durante questa intervista non è mancata una dichiarazione di nostalgia: la nostalgia per un tempo in cui, secondo il presidente del Sokos, questa associazione era paragonabile ad una trincea…: «eravamo in pochi e lavoravamo molto di più». Ma maggiori erano anche le occasioni di dialogo: «La cosa che più mi manca sono i racconti, le storie personali… Ora, il tempo di starli ad ascoltare non c’è più». E ciò soprattutto «perché vengono da me in modo selezionato». Il Sokos viene quindi paragonato, con rivendicata e fiera umiltà, ad una goccia in un mare. Alla domanda  «ritiene di contribuire ad una politica sociale?», il nostro interpellato, dopo essersi schernito («sono domande difficilissime…») ed aver riletto un suo documento in cui il  sociale viene paragonato ad un insieme di cellule biologicamente interdipendenti, ha preferito parlare del Sokos come «funzione sociale di servizio, che non risolve niente di importante, che non crea niente di nuovo, che fa quello che può inserendosi nella società e come tale vi svolge un ruolo».

Su tutto sembra prevalere la fierezza per la continuità dell’associazione, nonostante i cambiamenti. «È cambiato tutto: persone, situazione politica, sociale, in Bologna, utenza… e siamo ancora qua. Un qualcosa di dinamico che si adatta a ciò che viene richiesto. Siamo riusciti ad adattarci ai cambiamenti, adattarli al bisogno». Il segreto? «Abbiamo in comune un disegno, un progetto di stare con gli altri». Ma con la puntualizzazione: «non sono molto ecumenico… sono abbastanza individualista e questo mi ha aiutato a tenere insieme questo gruppo».

La credenza nel diritto, nell’imperativo della giustizia, nell’eguaglianza tra individui: questo ci viene indicato come ciò che si impone, accomunandoli, ai volontari del Sokos; un’associazione, questa da lui stesso fondata, rispetto alla quale  il nostro intervistato ha dichiarato di sentirsi addirittura come una mamma con suo figlio, in un’identificazione pressoché completa: «Sokos è mia… la storia del Sokos è la mia storia». Lungi però dal cedere a toni idilliaci, egli ci ha parlato anche di tormenti, frustrazioni, di sentimenti contrastanti: «a volte ci sentiamo buoni, a volte figli di buona donna… non siamo angeli, non è una scelta di bontà: o ci sei o non ci sei… Ascoltare le sfighe degli altri a volte è pesante. È come una spugna. A fine giornata vieni fuori come un cane bastonato». Ma appunto è l’obbligo morale definito anche terribile (perché non te ne liberi) a costringere il volontario: «lo fai perché sei obbligato dentro». Come contropartita c’è il rapporto vero, anche fisico, tra persone, una alla volta, in cui ci si mette in causa e si dà reciprocamente. Poiché «la cosa più importante che vogliono – i nostri utenti –  è il riconoscimento. Il comune bisogno di farsi riconoscere, essere trattati da persone che poi è comune col nostro bisogno… ma noi l’abbiamo gratuito».

IV. 2

Veniamo ora all’altra intervista che abbiamo trovato proficuo comparare con la precedente. La volontaria, che ha 32 anni e fa accoglienza al Sokos solo da cinque mesi, ci ha detto di aver aderito a questa associazione  dopo i fatti di Rosarno, perché: «mi hanno fatto sentire complice di un sistema, che credo assurdo… nel silenzio di tutti, con indignazione fasulla». L’esperienza al Sokos, ci ha detto, ha davvero risposto alla sua esigenza di «stare assieme agli immigrati, di averli intorno». L’associazione risulta come un luogo unico, collettivo,  ma che esalta le diversità individuali: «ognuno qui porta la sua individualità, io credo sia il bello di questa associazione: ognuno porta il suo individuale». Un “qui”, dunque, un luogo, un “dentro” che rivela tutta l’assurdità del “fuori”: «fuori … c’è una sorta di apartheid se guardate bene… Non li vediamo in università. Non li vediamo nei locali la sera, se non per venderci ciaffetti, o nei posti di lavoro, dove al massimo puliscono i bagni… È facile dire “ah poverini!” o anche solo “ciao, ciao”. È facile dirsi antirazzista, di sinistra. Mentre qua – dice –  c’è un’altra dimensione… Qui c’è la possibilità di stare davvero in contatto (con gli immigrati). Qui dentro hanno modo di essere trattati come verrebbe trattato un italiano. Qui si sentono liberi, tranquilli… è bellissimo. Qui non hanno paura di essere denunciati, a volte vengono qui anche a farsi solo due chiacchiere… C’è un aiuto concreto e reale». Si è detta altresì convinta che «curare i clandestini è comunque già una presa di posizione politica. Questo in sé è già una presa di posizione netta». Così giunge fino a parlare de “il pensiero del Sokos”. Un luogo singolare, dunque, con un pensiero suo proprio.

Al contempo, però, la stessa intervistata ci ha lungamente parlato della fatica di rimanere costanti con tale pensiero. «Alle volte –  ci ha confessato –  mi viene da dire non ci vado più», ma aggiungendo subito un «però»:« però qui si fa una cosa bellissima. Si ha a che fare con le persone e le si fa stare bene…». Sulle “contraddizioni forti” che lei stessa condivide con l’associazione ha insistito più volte.  A conclusione dell’intervista da lei particolarmente apprezzata non ha esitato a dirci: «Il mio pensiero è molto confuso, so che può apparire incoerente. Da una parte c’è la bellezza, dall’altra l’incompletezza! Però penso che quando si ha a che fare con l’umanità emarginata credo sia inevitabile un po’ di incoerenza. È davvero difficile avere a che fare con la marginalità. Io tendo qua dentro a scusare tutti, tutte le contraddizioni».

Cercando di approfondire le ragioni di queste contraddizioni nella sua intervista si trovano più volte enunciati come: «(nel Sokos) ci sarebbero tantissime possibilità che andrebbero sviluppate. Potrebbero essere, ma poi non si fa». L’obiettivo cui puntare sarebbe «suscitare un interesse e provocare una presa di coscienza… far presa nel pensiero di qualcuno, far riflettere le persone». Su cosa? Una politica volta all’universalità dei diritti: questo è ciò su cui Sokos potrebbe contribuire più di quanto non faccia. A tal proposito l’intervistata ha un’esclamazione quanto mai netta: «meno tamponamento, più politica!». In effetti col termine tamponamento più volte utilizzato da questa volontaria è stato indicato uno dei maggiori rischi che corre la politica del Sokos restando entro i suoi limiti attuali. Quello di «diventare una cosa paternalistica,… superficiale, che non arriverà mai a comprendere fino in fondo alcune esigenze dello straniero, la loro realtà». Più in concreto: «tutti se lo chiedono, anche i soci del Sokos, e pensano che la Regione, Bologna, essendoci il Sokos, si è lavata le mani di un gran problema come l’assistenza sanitaria, invece di assegnare la cura di queste persone a medici retribuiti». Su questa linea l’intervistata è arrivata fino ad alludere ad una complicità delle istituzioni locali con quelle centrali responsabili del “pacchetto sicurezza”.

Si tratta qui forse di uno sfogo di pancia, quali quelli a cui la nostra intervistata ammette di cedere, di tanto in tanto, su argomenti simili? A ben vedere c’è molto di più. Si tratta infatti di un’osservazione assai penetrante, che rivela una delle dialettiche perverse del caos politico esistente nel nostro paese in materia di immigrazione. In effetti, stanti i bilanci risicati delle amministrazioni locali, è chiaro che ogni occasione di risparmio viene da esse colta al volo. Così la criminalizzazione dei clandestini comunque sancita dal “pacchetto sicurezza” giustifica più che mai che la loro cura sia dirottata in buona parte al volontariato gratuito. In tal caso però per un risparmio di bilancio si finisce per consentire al fare e al disfare di un Ministero che pur di istigare l’odio verso gli stranieri non esita a contraddirsi[6]. Così si comprende bene a quale circuito allude la nostra intervistata quando dice che ad avere rapporti troppo stretti con le istituzioni si crea un circuito che non ti lascia scampo. Seguendo il filo di questo ragionamento si potrebbe persino giungere alla conclusione che gli stessi volontari del Sokos con la loro attività di “tamponamento” rischiano a loro volta di essere complici di tale cerchio vizioso. La nostra intervistata non giunge mai a tale conclusione. Tuttavia non solo fa riferimento a questo «circuito che non ti lascia scampo, se tu migliori i rapporti con le istituzioni», ma arriva a giudicare i rapporti del Sokos con le istituzioni «fin troppo buoni», auspicando addirittura che «dovrebbero peggiorare». Solo così, sostiene, questa associazione «potrebbe fare vera pressione, fare qualcosa per cambiare le cose, non tacitamente». Ma in altri momenti dell’intervista osserva che: «forse per quieto vivere non si fa più di così». Ammettendo in seguito: «A volte chiedevo a Sokos di prendere delle posizioni politiche, ma di pancia, non ho riflettuto sugli equilibri istituzionali. Tutti qui un po’ lo fanno». Parole queste cui è seguita una considerazione di tono che potremmo definire realistico: «Intanto devi garantire che fin tanto che le cose non miglioreranno, noi dobbiamo comunque far qualcosa per le persone». Ed ecco il tema dell’incoerenza che ritorna insistente: «È difficile quindi essere coerenti, sapere cos’è giusto e cosa è sbagliato… Altre persone (del Sokos) forse non la pensano come me». Un dubbio finale, questo, che fa pensare alla carenza di dibattito interno emersa nella risposta alla domanda: come pensi si potrebbe migliorare? «Trovando più momenti in cui confrontarsi tutti insieme, creare più spirito di gruppo».

Comparando ora i contenuti di questa intervista con quelli dell’altra non si può non tenere conto della differenza di età, biografica e di servizio, dei due volontari, il primo, fondatore e presidente del Sokos da 15 anni, nonché medico di 58 anni, e la seconda invece di 35 anni e volontaria solo da 5 mesi dedita all’accoglienza. Resta comunque che per entrambi la loro esperienza di volontari risulta densa di tormenti, contraddizioni e con l’avvenire cupo.

Dal punto di vista delle politiche sociali che hanno orientato la nostra ricerca possiamo comunque notare alcune differenze di rilievo che caratterizzano queste due interviste. Il primo intervistato vede nel diritto il campo di intervento permanente del Sokos, qualsiasi siano le politiche esistenti; la seconda intervistata, sempre in nome dei diritti, auspica una politica diversa da quelle esistenti e immagina che lo stesso Sokos potrebbe contribuirvi. Ora, se l’affermazione di una strategia costante risponde all’esigenza di affrontare i diversi problemi interni di questa associazione, il desiderio di “più politica” ci pare giustificato soprattutto nei confronti della inedita e recente situazione – quella creatasi con la legittimazione delle politiche xenofobe operata tramite sia il “pacchetto sicurezza”, sia la Circolare ( n. 780/A 7) del 27 novembre 2009 che moderandone i termini li ha resi più realizzabili.

Ma quali sono i diversi problemi con cui il Sokos si trova a dover fare i conti? E in che senso potrebbe contribuire a politiche sociali diverse da quelle attualmente vigenti?

Ecco qui di seguito alcune risposte rilevate a questo proposito dalle nostre interviste.

V. Un ruolo politico?

Problemi di incomprensione generazionale sono apparsi in più interviste, ma anche altri problemi sono stati segnalati. «Molti soci vengono a fare il proprio turno mensile e poco altro, questo è molto limitante», ad esempio ci ha detto una volontaria, medico di base, aggiungendo: «se si riuscisse a focalizzare le energie di gruppo si riuscirebbe a fare molto di più». Una sua collega, anch’essa medico specialista, ci ha fatto notare come «le persone che aderiscono vengono tutti da mondi diversi, bisogna mediare e venirsi incontro nell’affrontare le cose», ammettendo anche che «ci sono stati problemi di organizzazione, si formano diverse fazioni divergenti». Conclusione: «Ci vorrebbe un po’ più di unità nelle cose». Un volontario medico ci ha anche parlato di un problema nell’approccio con i pazienti il quale sarebbe dovuto al fatto che «è un’associazione piccola […]» : «apriamo tre volte alla settimana», e quindi «ogni volta il medico è diverso». Per lui l’associazione non dovrebbe mai limitarsi a svolgere quella che chiama «una funzione vicariante del medico di base per i migranti irregolari che non ne hanno diritto». Così giunge persino ad ammettere, alla stregua dell’intervistata precedente, che difetti simili a volte lo «portano a credere che il Sokos dovrebbe chiudere…» Anche se poi in tutt’altro senso ci spiega: «qui è come fare il medico di base, vedi le cose da un’altra prospettiva rispetto ad un medico di un reparto ospedaliero… non ci sono gerarchie, poi si lavora bene o male in collaborazione continua… è un arricchimento continuo». Opinione questa condivisa da un suo coetaneo specialista, che riguardo allo stare al Sokos, afferma: «in più dal punto di vista medico mi sento di essere più dottore qui dentro che in ospedale».

Insomma si può dire che i problemi interni al normale funzionamento del Sokos appaiono ai loro stessi soci tanto numerosi e profondi da portare a volte al limite di uno scoraggiamento definitivo, come del resto si è già visto anche da interviste precedenti. Questa franchezza disincantata dei nostri intervistati, sicuramente favorita anche dall’individualismo rivendicato dallo stesso Presidente fa tanto più apparire convincenti l’arricchimento continuo, la bellezza che alcuni di loro ci hanno detto implicata da questa esperienza. Un’esperienza che al contempo, si dice, fa sentire medici i medici e dà alla maggioranza dei volontari la convinzione di aver comunque preso una posizione politica diversa da quelle dominanti in materia di stranieri senza permesso di soggiorno.

Molto nette in proposito sono state le parole di un giovane medico (quello stesso che abbiamo già visto rifiutare di svolgere solo una funzione medica vicaria per clandestini): «Penso che abbiamo un ruolo politico: già venendo in Sokos  ti sei schierato in politica, in questo periodo». Ma si noti l’interessante paradosso della frase: da un lato, pare dica che sia il periodo (la sua peculiarità, diciamo noi, per semplificare, politicamente xenofoba) ciò che rende politica l’attività del Sokos. E tuttavia, dall’altro, ne viene decisamente affermato il ruolo politico. Un ruolo politico che lo stesso volontario ha tenuto anche a specificare come un cercare di far sapere di determinate realtà, di smitizzare certi luoghi comuni. Al Sokos viene quindi rivendicata una particolare rilevanza nel contesto cittadino del volontariato: «Bologna è stata la più grande piattaforma per le associazioni. Sokos nel suo piccolo è riuscita a far da collante tra queste associazioni». In questa intervista ha quindi acquisito un’importanza del tutto significativa la dimensione della collaborazione tra le associazioni contigue al Sokos. “Fiori di Strada”, “Casa delle Donne”, “Piazza Grande” e “Avvocati di Strada” ci sono state citate, aggiungendo: «C’è bisogno l’uno dall’altro e c’è una collaborazione reciproca». Un quadro insomma del tutto contrario all’opinione già qui riportata secondo la quale: «Ognuno ama la propria creatura ed è difficile collaborare e mettersi d’accordo», come ci è stato detto dall’intervistato di cui abbiamo fatto cenno al punto I. 1. Altri intervistati ci hanno del resto confermato che la collaborazione con altre associazioni per loro rappresenti un vero e proprio riscontro per la stessa attività del Sokos. Altri ancora ci hanno ricordato con soddisfazione di loro esperienze nelle scuole proprio per spiegare le modalità e le finalità del loro volontariato. Lavorare sui giovani, educarli, combattere l’ignoranza che vene riversata su di loro ci sono stati citati come i diversi obiettivi da perseguire nell’auspicio di ulteriori cooperazioni con le scuole medie-superiori. Dai rapporti con l’università un’intervistata si è poi dichiarata speranzosa possa venire la possibilità di sviluppare idee nuove che vadano oltre il volontariato classico.

Ecco dunque un campo variegato di attività dove l’esperienza del Sokos potrebbe divenire più politica in proprio. In effetti, accanto a chi desidera una maggiore politicizzazione di questa esperienza, ricordiamo, c’è anche chi lo esclude decisamente («l’attività del Sokos non va ricondotta a un discorso politico !») e chi sottolinea molto realisticamente: «è già difficile mandare avanti l’ambulatorio con tutti i nostri impegni, figurarsi altre attività!». E non si dimentichino anche le parole, già commentate al punto I. 1. di chi diceva di non avere ancora «valutato se una sinergia tra i vari gruppi di lavoro ( cioè con altre associazioni contigue al Sokos) possa essere organizzata o no».

Resta in ogni caso che tra le volontarie e i volontari più anziani c’è anche chi lamenta che «bisogna far conoscere il Sokos, ci siamo dal ’93 ma ancora qualche problemino da questo punto di vista della conoscenza e della diffusione c’è». Il che viene indirettamente confermato dal fatto che quasi tutti gli attuali membri sono entrati a farne parte con il passaparola e che molti, prima di farne parte, ne ignorassero le attività e l’esistenza.

 

VI. Creare “un noi”

 

Per avviarci alle conclusioni, distinguiamo quel che hanno detto i nostri intervistati riguardo al grado e al tipo di partecipazione degli altri associati.

C’è chi è amareggiato perché «molti vengono solo per il loro turno mensile… solo per stare bene con loro stessi», chi rivendica più «spirito di gruppo», chi ritiene necessaria più connessione tra le attività interne, di accoglienza e cura, e chi auspica «più politica» rivolta all’esterno.

E c’è invece chi vede pericolosissimo spingere per un più intenso, ampio e costante impegno nel Sokos da parte di tutti quelli che con diversi modi e disponibilità personali vi contribuiscono. A pretendere una sorta di militanza, un’intervistata ha paventato che nel Sokos «resterebbero solo le persone che non hanno altro interesse», scoraggiando tutti quei volontari che, pur dando una disponibilità ridotta, offrono contributi decisivi per tutta l’associazione e la cura dei suoi utenti. Così si comprende come il timore della divisone tra fazioni, segnalata in qualche intervista, sia ben reale e consigli di cercare più unità sulle cose, come ci ha detto un’intervistata.

Il che significa forse che il fare cura e accoglienza avvicina, mentre il parlare e il pensare ad altro, ad altre possibilità, a nuove collaborazioni, a nuove prospettive generali, allontana?

Se così fosse anche Sokos, confermerebbe l’ipotesi generale avanzata all’inizio secondo la quale il volontariato sociale può esistere solo come filantropia da persona a persona che si sottrae, senza interagirvi, ad una dimensione pubblica e politica sempre più sotto l’ombra dei cattivi sentimenti.  Ma non è questa la conclusione più convincente cui porta la nostra inchiesta.

A cercare un’altra possibile soluzione siamo incoraggiati non solo da quella intervistata che si attende dall’università lo stimolo per nuove idee, ma anche da tutti quei volontari che ci hanno detto di essere interessati ai risultati della nostra ricerca. In effetti, se è vero che confermare è il contrario dello scoprire, possiamo davvero dire che la ricerca sul Sokos ci ha dato più desiderio di ulteriori conoscenze che conferme su quanto già supponevamo sapere.

Sia comunque chiaro che è lungi da questo rapporto (come da tutti quelli che vengono proposti a nome del Grep) l’intento di volere dare un qualche ben che minimo giudizio o valutazione di questa esperienza. Non abbiamo nessuna difficoltà a concordare con l’intervistata che ci ha detto: «Chi non c’entra (nel Sokos) non può dare un giudizio obiettivo. Una realtà di volontariato così complessa come il Sokos, una cosa così delicata, dall’esterno non si è in grado di giudicarla».

Quel che qui proponiamo è solo un nostro pensiero da ricercatori a proposito di ciò che abbiamo rilevato come il pensiero molteplice e diversificato dei volontari da noi intervistati.

Ora ci sono due enunciati che ci aiutano a presentare questo nostro pensiero. Si tratta di due desideri espressi, l’uno, da un medico tra quelli di più lunga esperienza, l’altra, da una giovane dedita all’accoglienza e alla segreteria.

L’interessante di questi due enunciati è che entrambi rimettono in discussione la frontiera tra il “dentro” e il “fuori” dell’esperienza Sokos. Il medico esperto ci ha infatti detto: «mi piacerebbe che la gente capisse l’impegno che i volontari Sokos ci mettono nell’attività». Mentre la giovane dedita all’accoglienza: «A me piacerebbe che le persone che guardano gli stranieri con sospetto, conoscessero di più la mia esperienza con queste persone che sono dei grandissimi lavoratori, sono molto disponibili e aperti al dialogo».

In queste ultime parole soprattutto possiamo leggere un’interessante opposizione tra uno “sguardo sospettoso” e una “conoscenza” che riguarda un’ “esperienza” singolare, nella quale si configura un nuovo soggetto. La nostra intervistata non usa questo termine “soggetto”, ma pensiamo di non forzare troppo il suo dire usandolo per commentare questa citazione. In essa i volontari Sokos e i loro utenti vengono infatti pensati, non come due diverse dimensioni collettive (come solitamente accade  quando si parla di medici e pazienti, di italiani e stranieri), ma come una stessa dimensione collettiva, unita da una stessa esperienza singolare, e distinta dall’altra dimensione collettiva, costituita appunto dalle persone che guardano gli stranieri con sospetto. Ma questa opposizione, lungi dal venir posta in modo rigido e alternativo, conflittuale, viene presentata come limite di cui si desidera (“mi piacerebbe”) il superamento, in nome di una nuova “conoscenza”,  che anche le persone sospettose potrebbero condividere. Così si tocca un punto nevralgico del nostro tempo.

Se ovunque si sente parlare sempre di “noi” e “loro”, intendendo così sempre noi italiani e loro stranieri, crediamo che, d’altra parte, esistano già parecchie realtà per lo più sconosciute, pionieristiche, in cui c’è un nuovo “noi” che si sta disseminando in Italia. Un “noi” in cui il soggetto è fatto di un mix oramai indistinguibile tra italiani e stranieri, dal quale, per ragioni non solo demografiche, dipenderà con ogni probabilità molta parte dell’avvenire del nostro paese. Il Sokos esteriormente può sembrare tutto il contrario. Può sembrare infatti che la sua realtà sociale abbia per protagonisti essenzialmente degli italiani così filantropi, da mettere la loro buona volontà e le loro competenze al servizio dei più “disperati”. Nei loro utenti, stando alle opinioni correnti, si sarebbe portati a non vedere altro che una massa indistinta di “non intergrati”, al limite della criminalità, senza documenti e né radici, che ha perduto il proprio paese senza averne trovato uno nuovo. E invece le parole dei volontari da noi intervistati ci offrono ben altro da pensare. E cioè che gli  stranieri permettono a questi volontari di fare esperienze altrimenti impossibili. Sokos è quindi da pensare come luogo di una nuova soggettività in formazione: di un “noi” che si sta costituendo nell’esperienza di un rapporto tra italiani e stranieri, tra prestatori e fruitori di un servizio, grazie alla collaborazione di entrambe le parti.

Crediamo altresì che realtà simili, in cui questo nuovo “noi” esiste e si sperimenta, meritino una conoscenza scientifica ad hoc. Una conoscenza che non si limiti ad applicare schemi sociologici o antropologici già acquisiti, ma che ne strutturi dei nuovi per valorizzare al massimo tali esperienze. Insomma, nostro intendimento sarebbe di far sì che l’ “arricchimento”, la “bellezza” di cui  hanno parlato i nostri intervistati non restasse solo un loro “patrimonio personale”. Da parte nostra, ci siamo assolutamente convinti delle grandi conseguenze, ad un tempo scientifiche e politiche, che si potrebbero trarre da tutto quanto volontari come quelli del Sokos apprendono, riflettono ed elaborano nel curare e accogliere gli stranieri senza documenti. Associazioni simili pullulano per fortuna in Italia, ma, a prescindere dai reciproci contatti operativi o dalle analisi quantitative, troviamo che in una simile realtà sociale ci sia ancora un vastissimo giacimento di conoscenze da raccogliere e rendere trasmissibili.

 

*L’inchiesta è stata realizzata da Valerio Romitelli con la collaborazione di Claudia Congia, Sebastiano Miele, Riccardo Vettarino e Ilaria Zanzani.

 

 


[1] Vedi a questo proposito l’Introduzione di Fuori della società della conoscenza, Ricerche di etnografia del pensiero, Infinto ed., 2009.

[2]Antonella De Blasio, ricercatrice di Sociologia del Diritto, presso l’Università di Bologna e un volontario degli Avvocati di strada di Bologna .

[3]Di grande aiuto per la nostra ricerca è stata quella precedentemente condotta da Francesca Cacciatore dal titolo Corpi irregolari. Percorsi migratori tra esperienze di malattie e politiche sanitarie, presentata come tesi per la laurea specialistica in “Antropologia sociale dei saperi medici” presso il Corso di Laurea Specialistica Antropologia culturale ed Etnologia (relatore il prof. Ivo Quaranta) nell’A.A. 2008/09.

[4]Pacchetto sicurezza, un anno dopo, in Micromega, in http://temi.repubblica.it//micomega-online/pacchetto-sicurezza-un-anno-dopo/

 

 

[5] www.immigrazione.biz/circolare.php?id=364

 

[6]Si allude qui ovviamente alla Circolare ( n. 780/A 7)[6] del 27 novembre 2009 che “prega” di non applicare fino  in fondo le implicazioni  dello stesso “pacchetto sicurezza” del 5 luglio 2009

 

 

Category: Welfare e Salute

About Valerio Romitelli: Valerio Romitelli (1948) insegna Metodologia delle Scienze Sociali e Storia dei Movimenti e dei Partiti Politici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Dirige il Gruppo di Ricerche di Etnografia del Pensiero (Grep) presso il Dipartimento di Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche dell’Università di Bologna. Tra i suoi libri: Gli dei che stavamo per essere (Gedit, 2004), Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche (Carocci, 2005), Fuori dalla società della conoscenza (Infinito, 2009).

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