Dimitris Argiropoulos: Bologna, la storia di Emmanuelle e della prima accoglienza inesistente

| 4 Gennaio 2014 | Comments (0)

 

 

 


La sera del 2 gennaio in via Landi dov’era stato appena sgomberato un campo rom. Una giovane di 21 anni ha dato alla luce un feto di sei mesi, nato morto. Il cordone ombelicale è stato reciso dal compagno, che poi avrebbe abbandonato il fagotto per oltre un’ora e mezza, sotto la pioggia. La Lega tuona: “Faremo un esposto, roba da terzo mondo” Su questo evento pubblichiamo la cronaca scritta da bologna.repubblica.it del 3 gennaio 2014, le foto sul degrado del campo rom di Via Landi e l’articolo scritto da Dimitris Argiropoulos pubblicato da bologna il Manifesto in rete del 4 gennaio

 


1. Partorisce feto morto in campo rom. Il padre lo abbandona sotto la pioggia

La Repubblica bologna.it 3 gennaio 2014

 

Giallo a Bologna, dove ieri sera, 2 gennaio 2014, intorno alle 21.00, la centrale del 118 ha segnalato ai Carabinieri del Comando Provinciale di essere intervenuta in via Landi, dove, benchè già sia stato sgomberato in passato un insediamento abusivo, si trovano ancora alcune baracche utilizzate come ricovero da nomadi e senza dimora, poichè era stata segnalata una donna che aveva appena partorito. Il feto pesava meno di mezzo chilo e, presumibilmente, è di circa sei mesi.

I sanitari hanno trovato una romena 21enne che aveva appena partorito un feto poi risultato di circa 6 mesi. La donna soffriva di una emorragia poichè aveva trattenuto la placenta. Il feto era morto. Il cordone ombelicale sarebbe stato reciso dal suo compagno, un altro romeno 22enne, questa almeno la sua versione.

I militari stanno sentendo tutte le persone presenti, per ricostruire la dinamica del fatto ed accertare se ci siano responsabilità per la morte del feto o si tratti di un aborto spontaneo in circostanze precarie.

Il marito e connazionale della donna è iscritto nel registro degli indagati per le ipotesi di omicidio colposo e omissione di soccorso. Il pm di turno Augusto Borghini ha disposto l’autopsia sul cadavere, affidata al medico legale Sveva Borin. Occorrerà però accertare l’esatta età gestazionale del feto, se è nato morto, se ci sono stati, appunto, ritardi nell’avvisare i soccorsi e se il taglio del cordone ombelicale, fatto dal marito, 22 anni, per sua stessa ammissione, abbia salvato la donna, ricoverata al Maggiore.

IL FETO ABBANDONATO – Secondo i primi accertamenti, dopo aver tagliato il cordone ombelicale del feto, il padre lo ha avvolto in un asciugamano e lo ha abbandonato in terra al freddo e sotto la pioggia per almeno un’ora e mezza, quindi si è allontanato. A chiamare il 118 dal campo nomadi di via Landi a Bologna è stata infatti un’altra donna e il marito ha poi raggiunto solo più tardi la moglie in ospedale, dove nel frattempo erano arrivati i carabinieri, che poi lo hanno sentito.  La giovane è ricoverata nel reparto di Ginecologia del Maggiore e le sue condizioni non sono gravi. Si ritiene che la donna, al sesto mese, dopo aver accusato forti dolori potrebbe aver avuto un aborto spontaneo. I due sono nullafacenti e senza fissa dimora. Proseguono le indagini della Compagnia di Borgo Panigale.

LA LEGA – “Ci sono minori che vivono in mezzo all’immondizia e la Giunta, in troppi casi, continua a negare questa verità. Per questo motivo presenterò un esposto alla Procura della Repubblica, forse unico modo per obbligare questo Comune ad intervenire”. Lo annuncia Lucia Borgonzoni, consigliere della Lega Nord in Comune a Bologna, intervenendo con una nota sul caso del feto trovato in un campo nomadi.

“Bologna – scrive – in nome di uno strano e dannoso ‘finto buonismo politico’, assomiglia sempre più a un paese del terzo mondo”

 

2. Il degrado del campo rom di Via Landi

La Repubblica bologna.it 3 gennaio 2014


 

 

 

 

 

3. Dimitris Argiropoulos: Bologna, la storia di Emmanuelle e della prima accoglienza inesistente

Bologna Il Manifesto 4 gennaio 2014

 

Bologna, 2 gennaio 2014, Emmanuelle è morto. È morto in una cella frigorifero dismessa, dove la sua famiglia e soprattutto sua madre con lui in grembo, ha trovato riparo. 2013 anni fa, Emmanuelle a Betlemme, in direzione ostinata e contraria, ha potuto nascere. Sì, certo, in una stalla, ma è nato. Betlemme con poche risorse, con quello che si aveva, ha potuto essere un contesto ospitale e vivo. La Betlemme è diventata Bios, Vita, e ancora Biopolitica, superamento delle cristallizzazioni e dei destini immodificabili. Betlemme non ha permesso la delazione e soprattutto non ha permesso la beffa. Ha superato le difficoltà con l’indispensabile semplicità del bene.

Bologna non ha una rete di strutture che risponde alle esigenze di una prima accoglienza in grado di dare risposte, umane e possibili a persone orbitano le sue periferie per emergenze e necessità e che chiedono protezione e rifugio per sopravvivere. Una città che si dichiara moderna e giusta, crocevia di strade e autostrade, che si fregia di una stazione ferroviaria di alta velocità e di un ingrandito aeroporto internazionale, che la collegano con il resto del paese e del mondo, ma che non sa protegge le donne e gli uomini che vi confluiscono, cittadini del mondo.

L’attuale amministrazione non solo non ha nelle sue priorità, un obbiettivo di questa portata, ma agisce verso gli accampati migranti, profughi e rom con le logiche degli sgomberi e dell’assistenzialismo. Bologna non ha un progetto. Cerca di fare ordine incrementando il male. Gli sgomberi, violenti e repressivi, e la silente nonché intenzionale indifferenza incardinano il male, contaminando i rapporti politici e sociali, fra chi chiede e richiede rifugio e chi è in grado di rispondere. Da una parte si sforza di mostrare l’oggettiva impossibilità di intervenire e dall’altra cerca di ridurre quel poco ma possibile agire solidale, annientandolo nella beffa.

L’intervento pubblico diventa così “passeggiate rom-antiche”, narcisismo etnocentrico e auto commiserazione “quanti ne dobbiamo accogliere”. Diventa assunzione di esperti strapagati per risolvere o quanto meno indirizzare la soluzione di certi problemi, a cui vengono però pagati anche i corsi di formazione per comprendere ciò che essi dovrebbero spiegare, salvo poi scoprire, che gli stessi hanno bisogno di formazione si procede pagandoli pure i costi dei master… Diventa scuola di città, dove il povero è povero per cause proprie e dove si impara a vincere per bande. Il modello di Bologna diventa – e in tutti gli effetti lo è – il modello Casal di Principe, dove vince la scaltrezza di trasformare la carità in spettacolo nascondendo abilmente le violenze agite e naturalizzate.

Lo sforzo politico, di analisi e di intervento, verso la sua periferia imbaraccata non vanno oltre l’estetica perversa della pulizia etnica o della casalinga isterica che cerca i detersivi adatti per smacchiare i panni. Le difficoltà di inserimento e di integrazione delle migrazioni e della profunganza diventano ingiurie, lontananza, retorica securitarista e incapacità di usare le mediazioni, i patti, i dialoghi. Diventano voti puliti e soprattutto diventano apprendimenti per imparare l’offesa.

Bologna non ha ancora cercato di uscire da un sistema di “aree sosta” per nomadi, sistema segregativo di apartheid, che riduce in povertà economica e relazionale le famiglie dei rom-sinti che vi vivono da più di quaranta anni. Famiglie stabilizzate che “giocano il nomadismo” dei gaggi. “Nomadi” poiché vivono nel campo “nomadi”. “Nomadi”, sfiniti, violenti, miserabili, ricoverati in strutture fatiscenti o modernamente inconsuete, deformi, banali e brutti. Dove con “coraggio” e senza vergogna l’amministrazione arriva ad attivare l’operatività sociale degli educatori (sic) per chiedere ai “nomadi” loro se vogliono essere integrati. Tutti e I tre i campi “nomadi” della città stanno implodendo in una vita impossibile di sventure miseramente disumane. Risulta più paradigmatico il campo “nomadi di via erbosa” provvisorio dall’anno 1990 istituito nel 1990 dopo gli attacchi mortali della Banda della “uno bianca”, ancora oggi provvisorio.

Bologna beffa il diritto e i diritti. La Legge Regionale 47/1988 che disciplina la presenza e flussi nomadi in Emilia Romagna, non può ne spiegare ne indirizzare le amministrazioni nella gestione complessa di una presenza polimorfa come quella dei rom. Non si può far finta di continuare di usare una legge che non ha corrispondenze con la realtà. Ed è grottesco insistere a non volere verificare le conseguenze di questa legge dopo 25 anni di “corretta applicazione”.

Soprattutto diventa beffa e razzismo voler spiegare il deterioramento delle struttura dei campi con la natura selvaggia dei “nomadi” che, forse, rompono quello che gli è estraneo e che perversamente altri hanno deciso e voluto per loro. La presenza dei rom nella città non è provvisoria, cioè nomadica ma è strutturale. Costantemente dai primi anni novanta si sono stabiliti più di 6.000 mila rom provenienti dai Balcani (Yugoslavia, Romania e Bulgaria) Si trovano qui per cercare lavoro e per cercare asilo. Cercano e trovano casa, servizi, scuola e cercano di poter vivere riscattando la propria povertà. Cercano nelle loro migrazione e/o profuganza stabilità e mobilità sociale. E ci riescono.

Non sono naufraghi, hanno un progetto e riescono pure a realizzarlo. I rom non sono “nomadi” come non sono “famiglie senza fissa di mora” come non sono “famiglie senza territorio”. Continuare a esibirsi inventando termini politicamente (s) corretti fa parte della beffa che insiste nella noia, nella pesante noia dei presunti intellettuali affaticati a nascondere i razzismi delle “avanguardie” e la violenza dell’esclusione in quella loro corsa a fotografarsi e a sperare qualsiasi cosa per rimanere nella storia. Paradossalmente incontrano il consenso di quelli che cercano di andare in paradiso e le loro amicizie, fantasmagoriche, vorrebbero diventare La Corte di Bologna.

La presenza rom a Bologna come in Europa non è necessariamente subordinata ai servizi sociali o ai nazionalismi: nel contesto locale e internazionale, essa è una presenza generatrice di inter e transculturalità, di interessanti e singolari forme sociali e politiche di convivenza. Sarebbe utile tornare a conversare sui e nei campi “nomadi”, sui percorsi di emergenza, di integrazione e di azione pubblica, istituzionale e sociale. Sarebbe sensato ritornare a conversare con i rom per mettere insieme sguardi ed espressività, influenzati da modi e mondi diversi. Ritornare a conversare è dare senso ai silenzi.

Conversare è intrecciare umanità, è intesa. Conversare rende la solitudine più passionale e le restituisce unicità in quella moltitudine che resiste all’omologazione e che desidera essere letta, accolta. Conversare è fare comunità. Bologna negli anni, come ora, ha distrutto tutte le sue strutture di prima accoglienza. Ha messo appunto un sistema di sgomberi che non ha funzionato, ha solidificato un sistema di apartheid per “nomadi” rivolto i rom sinti e non riesce a spiegare e a spiegarsi. Questo è il vero e proprio male: Bologna ha perso la parola, balbetta e si rifugia nel suo narcisismo, nelle sue beffe, pensa all’ assoluzione piuttosto che alle responsabilità. Bologna ha perso la sua dignità.

dimitris.argiro@unibo.it

 

Category: Culture e Religioni, Osservatorio Emilia Romagna, Osservatorio sulle città, Welfare e Salute

About Dimitris Argiropoulos: Dimitris Argiropoulos è docente di Pedagogia all’Università di Bologna, città dove vive e lavora a partire dagli anni ’80. Educatore, si occupa di pedagogia della marginalità e delle emergenze e di pedagogia speciale. È particolarmente interessato ai contesti della marginalità estrema relativamente alle migrazioni, alla profuganza e alle minoranze etniche. Ha condotto ricerche riguardanti le condizioni di vita e la riduzione della partecipazione e delle attività dei rom in situazione residenziali di campi “nomadi” e ha indagato il rapporto tra immigrazione e disabilità. Attivista e membro della Fondazione Romanì, ne coordina il Comitato Scientifico, ed è coinvolto in attività di cooperazione educativa internazionale. Si occupa di schiavizzazione e traffico di esseri umani e si interessa della formazione degli Educatori di Strada.

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