Alberto Cini: Scusi, qual’è la Poesia più vicina?

| 4 Aprile 2014 | Comments (0)

 

 

 


Guardi… Lei segua gli Haikù bolognesi fino alle esperienze personali, prosegua per via Erich Fromm, poi sempre dritto…
I disegni che illustrano questo intervento sono di Alberto Cini

Avere o Essere nella poesia
(da Haikù d’incù – Haikù di oggi – opera inedita in dialetto bolognese di Alberto Cini)

In cù in tla strè
ai  ho truvè di pinsir
asculter i pas

Oggi nella strada
ho trovato dei pensieri
ascoltare i passi



Parchè fer dal dmand
la porta l’è averta
incion al bossa

Perché fare delle domande
la porta è aperta
nessuno che bussi



Al saul ven sò da saul
me invezi a son ned
la not l’è par me

Il sole sale da solo
io invece sono nato
la notte è per me



Sentir al sentir
com in toti al stredi
eser da par tot

sentire il sentiero
come in tutte le strade
essere ovunque




Le origini personali

Il vento della scrittura ha portato sul mio terreno emotivo molti semi espressivi e concettuali, fin dalla scuola primaria. A quei tempi, odiavo fortemente la scuola e gli insegnanti. Possiamo rivelare, per verità autobiografica, che sono stato a mia volta quel “ragazzo difficile” che come educatore, oggi è l’oggetto umano del mio lavoro.
Come educatore riparo ogni giorno attraverso i ragazzi che seguo la mia fotografia di allora, l’ho chiamato tecnicamente ”intervento di restauro proiettivo”. Restaurare se stessi non è come restaurare un quadro, ma alcune analogie si sposano bene, se si parla di immagine di sé. Occuparsi di giovani crea il fenomeno opposto a quello che accade nel “Dorian Gray” di Oscar Wilde. Con il restauro esterno dell’oggetto, si  restaura anche, come in uno specchio interiore, la tela interna, quindi si produce  un miglioramento di entrambe le dimensioni, non come nel romanzo, l’una a scapito dell’altra.
Nella mia infanzia facevo cadere questi semi letterari su rocce e terreni asfittici. La ricettività, nel mio ambiente di allora , era  tanto  inospitale, come  la mia “fobia scolare”, ma qualche giardiniere culturale o  meglio qualche incontro casuale con un insegnante particolarmente appassionato, ha infranto il muro coriaceo del mio rifiuto alla cultura. I muri si sciolgono lentamente facendo breccia con la lama dell’interesse, verso la persona. Questo agire su l’atteggiamento verso la  curiosità di ciò che si è e non su ciò si va a possedere, ha permesso ad una insegnante delle scuole medie, di instillarmi l’interesse per la lettura.
Così, il primo seme della poesia, un piccolo seme, particolarmente evocativo e immediato, mi ha educato al contatto vivo con l’arte e le sue poetiche.
Ancora oggi è rimasto  in me un rapporto affettivo con la cultura, affettività che è, sia  la mia risorsa che il mio limite. Cito  affettività come risorsa e limite, poiché mi sento  come un bagnante nel mare, mi immergo senza sentirmi creatura di quel regno, mi tuffo per curiosità, ma non riesco assolutamente a  possederlo, se non per quelle piccole gocce di memoria che rimangono attaccate alla  un mia pelle . La mia identità è quella di fuggiasco della cultura, come se ciò che conosco fosse un furto concettuale alla natura delle cose che  di per  sé, sono inconoscibili. Chiarisco il concetto, credo che la cultura in generis, risponda ai due bisogni fondamentali del controllo e gestione dei fenomeni, e al bisogno indentitario. Questi bisogni si avvalgono di modelli di rappresentazione della realtà. La rappresentazione della realtà non è la realtà stessa. Con la poesia, mi chiedo se slegandola da principi funzionali si possa produrre un’esperienza oltre i confini culturali dell’identità e della rappresentazione utilitaristica, alcuni poeti ci provano a estrarre queste gocce di essenza dal mare dell’esperienza di adattamento al quotidiano.
In parte, la poesia è questa collezione di gocce effimere, che scivolano via, mentre cerchi di fermarle sul foglio, e sei contento che qualcuno abbia inventato la comoda scrittura, le giuste parole per raccontare, non tanto il mare, ma l’esperienza dell’immersione. Quindi sono contento, di non essere annegato, dentro la burocrazia scolastica di allora, e ringrazio quei pochi, ma fondamentali genitori culturali che mi hanno teso la mano guardandomi negli occhi. Per questo scrivo poesie e ne parlo in questo modo.


Haikù e poesia

Amo molto la poesia spagnola e giapponese. Mi piace scrivere Aikù, ma la lingua italiana non mi ha mai soddisfatto, quindi preferisco utilizzare il dialetto della mia città, quel poco che ho imparato dai miei nonni. Scrivere con ciò che ricordo delle loro parole è un “scrivere” affettivo. Scrivere Haikù per me, è viaggiare a ritroso, nella mia infanzia, quando sentivo parlare in Bolognese. Per questo motivo,  ne ho citate  alcune in questo scritto e, per le ragioni sopracitate, mi piace parlare di Fromm e del suo libro “Avere o essere” in relazione alla poesia.


L’Avere e L’essere in Enrich Fromm e la poesia come didattica di pensiero

In un libro conosciutissimo, “Essere o avere”, Enrich Fromm affronta un tema epocale, un tema che è la base concettuale per chiunque affronti un percorso di ricerca del proprio senso esistenziale.
Ricerca che coinvolge anche quei metodi espressivi del sé, ai quali le persone si rivolgono come in uno specchio di auto-riconoscimento, di scavo interiore e dichiarazione di come si vive e si vede il mondo.
La scrittura è sempre uno di questi possibili specchi e la poesia ne è spesso la protagonista.
Fromm mette l’attenzione su due categorie ben determinate e diverse: la categoria dell’Essere e la categoria dell’Avere. Questa dicotomia, non definisce semplicemente la scelta di un uso linguistico comunemente utilizzato. Con questi termini l’autore si riferisce a due atteggiamenti fondamentali verso l’esistenza, alla struttura di un  carattere con i  relativi pensieri, sentimenti, emozioni e scelte di vita . Pur apparendo chiare, queste due parole, lasciano intravvedere delle difficoltà, specie quando ci si avvicina ai significati più profondi, alle sfumature di senso che potrebbero essere anche ingannevoli, se utilizzate in ancoraggi concettuali superficiali.
Il libro è esaustivo nel riconoscere atteggiamenti tipici del tempo attuale e non solo, dominati dall’avere. L’autore però lo sviluppa in modo non complesso, superando  il pericolo di semplificare una differenza che appare chiara e che esiste nell’esperienza di molti.
Per evitare questo, Fromm utilizza, in una parte del suo libro, uno strumento didattico molto congruo, la poesia. Confronta tre poesie di altrettanti  autori conosciuti , riporta e dimostra le sottili differenze tra i concetti esperienziali dell’Essere e dell’Avere, da loro espressi.
Lo strumento poetico per spiegare quella sensazione raffinata e impalpabile che i poeti ricercano nel loro stile, mi appare estremamente stimolante, oltre che alternativa alle più consuete spiegazioni di critica letteraria, rispetto a questa tematica, che ritroviamo  negli esempi specialmente di tipo didattico. Anche nei versanti degli atteggiamenti dei comportamenti umani, economici, politici e relative conseguenze sulle persone e sulla società.


Analisi di Fromm

Fromm utilizza tre composizioni poetiche, la prima è un Haiku del poeta giapponese Basho, vissuto tra il 1644 e il 1696. L’altra composizione appartiene ad un poeta inglese del XIX secolo, Tennison. Infine ricerca in una poesia di Goethe una mediazione tra queste opposte espressioni poetiche.

Scrive Basho:

Se guardo attentamente
Vedo il Nazuna che fiorisce
Accanto alla siepe



Scrive Tennison:

Fiore in un muro screpolato
Ti strappo dalle fessure
Ti tengo qui, radici e tutto, nella mano
Piccolo fiore – ma se potessi capire
Che cosa sei, radici e tutto, etutto in tutto
Saprei che cosa è Dio e cosa è l’uomo

Fromm ne sottolinea la differenza fondamentale, anche se entrambe esprimono una fortissima spiritualità. Non si tratta di mettere semplicemente un atteggiamento materialista contro un atteggiamento di tipo opposto, in quanto entrambe le poesie portano ad un trasporto umano di ricerca e contemplazione.
Ma nella poesia, più occidentale di Tennison, il bisogno di essere protagonista ha il sopravvento. Per contenere la “totalità” nella sua mano, è costretto a strappare il fiore dalla sua sede naturale.
In questo caso, il poeta, determina la sua presenza, anche col proprio corpo e quindi col proprio dominio. L’oggetto al suo cospetto è ben piccola cosa, anche se testimone presunto di quella rivelazione che potrebbe fargli chiarezza addirittura su Dio e l’Uomo.
Nella poesia di Basho, il poeta, pur essendoci (nell’Haikù spesso manca anche il soggetto narrante) non coglie il fiore, quando lo vede, attiva un processo di identificazione. Non potrebbe coglierlo poiché  il suo sentimento lo porta ad essere, lui stesso, il fiore. Mentre il poeta inglese narra nella poesia un’esperienza, il poeta giapponese narra uno stato. Tennison è dominato dall’avere e Basho dall’essere.

A questo punto entra in gioco la composizione di versi del grande Goethe, in una poesia che si intitola “Trovato”. Fromm identifica questo componimento poetico come mediazione tra le due opere precedenti.



Trovato

Per conto mio nel bosco
Da solo me ne andavo
E di trovar qualcosa
Certo non mi aspettavo

Ho scorto una corolla
Nell’ombra il fiore stava
Luceva come stella
Come un occhio attirava

Per cogliere son stato
Ma allora mi ha ammonito
Quando mi avrai strappato
Vuoi vedermi avvizzito?

Con tutto lo cavai
Radici e radicina
Nel giardino lo portai
Accanto alla casina

E poi l’ho trasferito
In una quieta zolla
Ed ora è rifiorito
Foglie nuove rampolla

Anche se Fromm vede questa poesia come punto mediano, tra le altre due, a mio avviso anche in Goethe, pur nel rispetto alla vita che esprime, si legge comunque un desiderio di possedere per se stesso, molto diverso da ciò che esprime Basho.
Goethe si è sempre espresso sulla denuncia di non ridurre l’essere umano ai suoi aspetti meccanici e utilitaristici. L’opera poetica monumentale del Faust testimonia proprio la battaglia ancestrale tra queste due forze, la tendenza dell’essere contro la tendenza dell’avere.
La poesia Eigentum, di Goethe, tradotta in “Possesso” esprime proprio questo:

Possesso

Io so che nulla mi appartiene al mondo
Fuorchè il pensiero frutto imperturbato
Che vuol sgorgare dall’anima mia
E ogni istante giocondo
In cui benigno un fatto
Di goder mi concede dal profondo



Continuazione personale

A questo punto la riflessione poetica di Fromm termina. Attivati, comunque questi paradigmi di analisi, la vorrei continuare io stesso.  Fromm ci concede questi esempi, ma nulla vieta, una volta aperta la via della ricerca e dell’interpretazione, di proseguire su questa strada, attraverso altri poeti, quelli che ci piacciono maggiormente, che abbiamo sui nostri scaffali e che conosciamo.
Io ho voluto continuare con le mie poche riserve culturali, quelle gocce nel mare di cui parlavo sopra, attraverso le quali (e con qualche coincidenza non troppo casuale), mi concedo di proseguire per quella strada che Fromm aveva cominciato, applicandole a riferimenti a me conosciuti.

Curiosamente, avevo parecchia documentazione sul Faust di Goethe poiché come pittore ne avevo preso stimolo per buttarmi nella realizzazione, di una quindicina di tavole dipinte sul tema. Ma accanto al Faust di Goethe avevo anche quello più recente di Pessoa. Il quale, nel suo Faust, a metà del libro, non parla del possesso, bensì definisce proprio l’essere, in modo opposto a Goethe, con queste parole:

L’innocenza e l’ignoranza sole son felici
E non lo sanno. Lo sono oppure no?
Cos’è l’essere senza saperlo? Essere, come un sasso,
Un luogo, nient’altro.

In questo caso Pessoa interpreta l’essere in una maniera pessimistica, non parla nemmeno del rapporto tra essere e avere, ma del problema della auto consapevolezza dell’essere, che senza la quale, l’essere è solo una cosa. Quindi un essere che cade assolutamente nella dimensione dell’avere, essere una cosa, un oggetto, un possesso senza nemmeno un possessore.
L’innocenza e l’ignoranza contrapposte, felici inconsapevolmente al Cartesiano “cogito ergo sum” del pensiero Goethiano.
Anche se Goethe associa la sensazione del pensiero al godimento, al piacere, e non alla illusa felicità a cui sembra tendere Pessoa. Ancora un’altra dicotomia ci appare confrontando le due poesia, la felicità e il piacere, anch’esse potrebbero essere variazioni delle qualità dell’essere e dell’avere. La felicità è lo stato positivo dell’essere e il piacere quello dell’avere.

Non so il motivo che ha spinto   Fromm a scegliere di Basho quella poesia specifica, tra le tante che sono giunte a noi. Personalmente ne preferisco un’altra. La preferisco poiché possiede la caratteristica di eliminare il senso della presenza del poeta. La scelgo perché vi manca anche la presenza dell’osservatore. Non vi è il poeta che vi si identifica, vi è  solo la  descrizione di ciò che appare come evocazione di una presenza fatua.

Basho

Flebili i crisantemi
Si ergono
Dietro l’acqua

Un  altro poeta, sempre giapponese, sempre con i suoi haikù, chiamato Issa, vissuto dal 1762 al 1826, più moderno di Basho, rompe con questi schemi precedenti proprio sottolineando con un lieve tono di assurdo, molto innovativo per la tradizione degli haikù, la presenza o meno del poeta che guarda, che osserva tra possesso e contemplazione, e che sembra quasi schernire questo dilemma.


Issa

Se sto qui
Benché stia qui
Nevica

Issa in questi versi non ha nulla, tranne la sua presenza. Sembra una presenza inutile, poiché  gli eventi procedono, suo malgrado. Il poeta nella poesia diviene non un “assente”, ma un essere che come tale si auto-demolisce al cospetto della natura, che non può essere nemmeno descritta, ma diviene solo oggetto di cronaca, testimonianza di un fenomeno atmosferico che annulla l’essere uomo. In questo caso la falce del linguaggio di Issa ha tagliato anche la possibilità al poeta di possedere il suo essere, per lo meno di dargli un significato determinante. Per questa ragione non è possibile tradurre questo haiku, con la parola “essere” ma si usa “stare”, come capita nella lingua spagnola. Sottolineo  come  in molte lingue orientali  e nella lingua ebraica, la traduzione del verbo “essere” è assai complesso e diverso dalla lingua italiana.

Non potrei terminare questa escursione attraverso temi importanti, percorsi con i passi delle poesie citate se non finissi con una poesia d’incontro: gli haikù occidentali di Jack Kerouak. Haiku già “molto americani”, appartenenti ad  una cultura letteraria meno formale e con una certa dose di sfrontatezza, che vuole dimostrare impulso e autenticità insieme. Gli atteggiamenti sono a volte “da Actor Studio”, viscerali e dimostrativi… ma colgono un’attimo di vita così istantaneo, non di natura eterna del paesaggio, ma quella peculiare della persona stessa che si infrange, nell’immersione sprofondata dell’avere, contro quella goccia di essere che si sprigiona dalla assoluta spontaneità e immediatezza delle parole.


Jack Kerouak

Piccoli passerotti grigi
Sul tetto
Sparerò al mio redattore

E ancora…

Notte d’autunno
I ragazzi
Giocano con gli haiku

Quindi non posso che proporre di non fermarsi qui e continuare a giocare.



 

Category: Arte e Poesia, Welfare e Salute

About Alberto Cini: Alberto Cini nasce a Bologna nel 1960, lavora come Educatore Professionale e Formatore, presso la cooperativa C.S.A.P.S.A in servizi rivolti all’handicap e all’adolescenza. Specializzato in Psicodramma con i terapeuti argentini Prof. Roberto Losso e Prof.ssa Ana Packciarz de Losso, è conduttore di laboratori espressivo teatrali, di scrittura creativa e grafico pittorici. Diplomato in massaggio tradizionale, shiatzu e massaggio aiurvedico, si specializza sull’approccio solistico alla persona. Ha pubblicato due raccolte di poesie, “Il fiore d’acqua” e “Le tre sfere”, stralci delle sue opere inedite si trovano sulla rivista di poesia “Versante Ripido”, per la quale disegna vignette satiriche e opere di contatto tra poesia e disegno grafico. Artisticamente viene educato all’arte dalla pittrice Bianca Arcangeli, sua insegnante e con la quale ha mantenuto un costante rapporto di condivisione e di confronto. Questo primo approccio lo influenza particolarmente sul rapporto tra parola e segno, tra la poesia e la pittura. Sensibile agli aspetti formativi e pedagogici dell’espressione artistica approfondisce il simbolismo della forma e del colore, l’arte terapia, terapie non convenzionali e tecniche di sviluppo della persona con il filosofo indiano Baba Bedi che frequenta per vari anni nella sua casa milanese. Non percorrendo formazioni accademiche approda alla scuola dello scultore Alcide Fontanesi, col quale comincia un lungo apprendistato formativo sull’espressionismo astratto. Le sue opere sono presso la galleria d'arte Terre Rare di Bologna

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