Alberto Cini: Il cappotto nuovo dell’educatore

| 11 Marzo 2014 | Comments (0)

 

 


Quali sono le radici ineffabili dei nostri strumenti di lavoro?


1. poesia

Il giaccone sporco di R.

 

Appoggiato ai vetri sporchi

in un pomeriggio ancora più sporco

nell’aula dei colloqui

mi ha lanciato delle parole

come fossero perle lucenti

e mentre se ne andava,

con il giaccone sporco addosso

che lo proteggeva male

e dal freddo solamente

sfilò il loro filo e caddero così:

“Dovevano dirmi la verità!

perché le ferite, anche se dolorose

si rimarginano, ma la falsità

mi umilia, e ti esclude dalla vita!”

Un omaggio a queste sue parole vere

a scongiura della mia falsa poesia.

(da “I confini dell’oasi” opera inedita di Alberto Cini)

 

 

 

 

2. Introduzione

Educare è un mestiere e come ogni mestiere, si costituisce d’arte e di scienza. La scienza può essere intesa come tutto ciò che crea quei principi, più o meno oggettivi sui quali si può stabilire, nella logica delle probabilità, un percorso di cause ed effetti, solido e ripetibile, definisce un linguaggio comune, una intesa nel tempo di previsione, costruttività e permette riflessione e progettazione.

L’arte è l’interpretazione soggettiva dei principi scientifici, o almeno di quei paradigmi che quella determinata cultura ritiene massimamente oggettivi. I paradigmi, i principi, le tecniche, le modalità, nel lavoro educativo, come nel lavoro teatrale, e di qualsiasi rappresentazione, come nel rito religioso ad esempio, si mescolano fortemente al corpo, alle emozioni, e soprattutto alla memoria di chi li interpreta. Interpretare è un’azione di memoria totale.

Educare è interpretare. Nulla dell’interpretazione personale può essere esclusivamente scientifica, altrimenti si perderebbe il principio di differenziazione e unicità, di ogni individuo, che compongono le infinite sfumature degli esseri umani, anche in una società massificata e apparentemente uniformata. Coabitare attraverso le proprie differenze è una sfida veramente evolutiva verso il benessere e la libertà esistenziale.

Fortunatamente il relativismo culturale anche in campo scientifico, ci induce ad accettare l’elasticità di pensiero non come solo pericolo di perdita identitaria e di controllo, ma come nuova possibilità del cambiamento di visione della vita, contro l’immobilismo dei principi assoluti.

L’avanzamento di un processo, avviene come nel camminare, attraverso l’alternanza di una diade. Lo scorrimento attraverso i poli dei vari significati crea lo spazio esistenziale degli eventi. Arte e scienza, nelle accezioni accennate sopra, creano la possibilità di un approccio completo all’esperienza.

Personalmente sono attratto dalla scienza ma sono follemente innamorato dell’arte, e attrazione ed amore non sono la stessa cosa. Cerco di interrompere questa bigamia, cercando di credere intellettualmente, che la mia Musa sia una cosa sola, ma spesso mi piace frequentarle separatamente, lasciando la sintesi, libera di avvenire da sola.

Ho cercato di trovare una modalità che incentivasse questa unione, anche per evitare una eccessiva dispersione dell’esperienza del vissuto. Unire gli aspetti di soggettività e oggettività è uno dei miei interessi professionali su cui lavoro da tempo, sperimentando soprattutto su me stesso e con i pochi occasionali giovani che hanno l’ardire di passare per i miei “creativi” momenti formativi “esperienziali”. Essendo spesso io stesso l’oggetto di analisi, la scrittura è una delle tecniche fondamentali, insieme alla rappresentazione drammatica e la ripresa video. Questo è un racconto, un frammento d’esperienza che parla di una genesi simbolica di un oggetto, di un indumento, che diviene strumento nella relazione con altri, ma trovo che narrare il suo percorso sia importante, il suo percorso conscio, ovviamente percettibile dal ricordo, il vero percorso nel sotterraneo psicologico, sarebbe molto più articolato.

Quello che trovo fortemente affascinate, per questo lo assimilo all’arte, è il fatto che ogni nostro gesto è un simbolo che innesta le proprie radici a ritroso nel tempo, e si allarga nei significati mentali, a dismisura, trovando casualmente a volte la sua realizzazione in una azione quasi invisibile, ma estremamente significativa.

Questa incommensurabilità, dell’azione apparentemente effimera, è spesso la chiave del lavoro educativo. Dentro al grande contenitore strutturale dell’educazione diffusa e specialistica, avviene il grande movimento degli incontri minimi, che sono il connettore dei passaggi di nutrimento simbolico, di cui è composta l’intimità della cultura.

Questa unicità e profondità di vita, travestita da consuetudine, è ciò che ci alimenta e ci arricchisce o impoverisce, quotidianamente. Officiare consapevolmente i riti della relazione con l’altro, trovandone il vasto senso che ci accomuna. Diciamo che l’aspetto scientifico e artistico è antropologicamente sacerdotale in senso laico, cioè rendere sacra la propria esperienza individuale al contatto con la vita. Dove, nel sacro, l’individualità diviene esperienza diffusa, e non di onnipotenza religiosa. Che è, di per sé, il riconoscersi nella comunità sotto alle stessi leggi e principi condivisi, nella quale il senso di unione è dato dall’identificazione con le leggi e i suoi gestori, e non dalla trascendenza esperienziale.

Questo converge negli aspetti di equilibrio anche ideologico, che caratterizzano non tanto le azioni, ma la qualità delle azioni stesse. Per questo credo che ogni progetto o intenzione educativa non può essere un processo solo burocratico, mentre la passione e la motivazione devono essere oggetti del mestiere. Fare della burocrazia un processo vitale e della passione un mestiere, possono sembrare giochi di antinomia retorica, ma non lo sono, perché è proprio la sfida a far quadrare questo cerchio di significati opposti che compone il mestiere che svolgo e che svolgono tanti colleghi, con sforzo, perché i risultati sono un “beneficio per tutti” e paradossalmente è proprio questo “per tutti” che genera le maggiori resistenze socioculturali e quindi anche economiche, al nostro lavoro di educatori.

Questo, e riflettere su ciò, è per me, fare educazione, e con questo racconto faccio un omaggio a questo principio.

 

 

 

3. Narrazione

Primo giorno di scrittura ore 9,30

Si comincia da poco, basta un niente. . .

Basta un inverno!” mettersi a dosso un qualcosa di pesante e uscire per andare a lavorare. Un nonnulla leggero, come premere un pulsante.

Il bancomat mnemonico, deposito della ricchezza mestica, alla portata di tutti, in mezzo ad una strada, sotto ad un portico di Bologna, distrattamente illuminato.

Mentre m’incammino penso, e mentre penso associo liberamente percorsi stradali a ricordi, guardo e sento.

Ho addosso una giacca a vento che non mi piace, ma é nuova, era di mio padre, non ho soldi da buttare. Penso al cappotto che ho in casa, nella camera, nell’armadio, nel cellofan, non lo metto da molto tempo. Me lo regalarono i miei genitori, l’ho portato per anni. Da quando lavoro coni ragazzi adolescenti non l’ho più portato. Una questione di praticità che non sta in piedi. Lo misi una volta; i ragazzi mi risero dietro e non solo loro, anche la mia collega, mi diede del vecchio. Ribellione totale di tutti al mio cappotto, perché mi faceva troppo serio, troppo uomo, quel cappotto non piace nemmeno a mia moglie.

A me piaceva e piace ancora. Tutti dicono che m’invecchia, però con un certo disprezzo, diciamo un sfumatura di fastidio, non vedo nulla di male invecchiare per un tragitto di strada. Perché tanti problemi con il “ tempo”? Penso ad un educatore che parafrasando il Dorian Gray, invecchia, non nel ritratto però ma negli abiti, e resta sempre ragazzo, per poter giocare all’infinito con i suoi utenti che crescono e che invecchiano, mentre lui non lo fa. Fin che un giorno anche lui si decide a nascere di nuovo, perché chi non invecchia è morto da tempo, ed è una presenza in spirito, forse, come Peter Pan, anche lui morto, resta sempre bambino e ha problemi con la sua ombra, che è autonoma perché lui non ha più il corpo. Io invece che il corpo ce l’ho, posso nascondere la mia ombra sotto al mio contestato cappotto.

Il cappotto può essere un discorso, un’iconografia interpretata, un linguaggio temporale che trasporta nella trama del tessuto, quelle informazioni, che il colore, se pur steso con maestria non rivela.

Ho fotografie di mio padre mentre attraversa Piazza Maggiore, foto casuali, di fotografi ambulanti, foto ingiallite, quasi seppiate, dalla carta dura e spessa, consumata all’estremità, una patina di acido vecchio, sopra al viso giovane di un padre che ancora non era tale, sopra al passo frettoloso e leggero, sopra alla pietra estesa, sopra il cielo di Bologna, e il cappotto. Mio padre si chiamava Bruno, ma non era Bruno Ganz, il famoso attore tedesco.

Basta poco per far tornare i conti. Il destino é un biliardo da cui non puoi uscire ed io non ho mai le palle piene di questo cozzare casuale o divinatorio di atti fortuiti, di effimeri incastri, di enigmi gettati a spaglio, come semi tra le zolle del tempo di questa città; immagini del consueto come simboli di un discorso pronunciato da un muto, di retaggio Shakespeariano invisibile, mi trovo sferico come una biglia nella pista sulla sabbia, e ancora granelli e tempo.

Portavo il cappotto quando andai al cinema a vedere ” Il cielo sopra Berlino”. Questo film mi é piaciuto molto, mi é piaciuto il bianco e nero della pellicola, mi è piaciuto vedere una metropoli che scorre, mi é piaciuto il taccuino degli appunti, mi é piaciuto vedere gli angeli con il cappotto. Tutto uguale alla fotografia di mio padre.

Basta poco per trovare delle similitudini. Io mi sono ingegnato molto per fare il mio mestiere, mi piace, e dico ingegnato e non solo formato, studiato, perché ci vuole ingegno per entusiasmarsi e contrastare la fatica.

Ho letto un’intervista, a Bruno Ganz e a Otto Sander, gli angeli del film. Nelle loro parole, nelle loro difficoltà nell’interpretare il ruolo dell’angelo, riconosco analogie con il lavoro di educatore. Ciò non dipende dalle ali assenti, dipende dallo spazio, per entrambi l’azione diretta del proprio agire condivide lo stesso setting: il pianeta terra.

Riporto il testo dell’intervista:

Giornalista – Come si recita la parte di un angelo? A cosa assomigliano? Hanno le ali?

Attori – Vorremmo imparare a volare, ma per il momento vaghiamo per le vie di Berlino con il cappotto e abiti da città, invisibili, silenziosi e attenti, seguiamo i nostri protetti. Nella città mutevole, in mezzo al vociare degli uomini, scrutiamo senza pausa i loro pensieri, i loro sentimenti, le loro esigenze fino alla fine dei secoli.

Giornalista – Come si recita la parte di un angelo? Come cammina un angelo se non può volare?

Attori – Non avevamo né psicologia né “ruolo”, nel vero senso di questa parola, su cui basarci. Il nostro materiale consisteva in noi stessi, i nostri occhi, e le nostre orecchie, nessun gesto: le mani rimanevano in tasca. Compassione, comprensione e forse un pizzico d’ironia e un sorriso.

Almeno eravamo angeli e potevamo fare un’ apparizione.

Quello sì che é stato un evento.

 

Secondo giorno di scrittura ore 21,00

Basta poco per interrompere un racconto. Sono riuscito in fretta a battere le parole di un’ intervista e poi ho dovuto uscire. Non dovrei mai interrompere un racconto, il tempo é un buffone vestito da ministro, (retaggio Shakespiriano) ti crea l’illusione di essere il proprietario del tuo passato, poi un nuovo evento ti colpisce, la dissonanza modifica il tuo vedere, e capisci che chi controlla il futuro controlla anche il passato, con la forza della ridefinizione. Punto a capo. Ricomincio a scrivere, ma sono già cambiato.

Mi sono addormentato leggendo un opuscolo informativo su Wenders, preso al cinema, sul quale ho trovato l’intervista che ho sopra trascritto. Il cappotto, ricordato ora, mi torna in mente nitido, tutto era cominciato da un cappotto che racchiudeva un susseguirsi di eventi slegati nel tempo, ma non interminabili, tutto finisce in un punto preciso, dove finisce il volo. Mi sono distratto, perché Wenders afferma di essere stato sollecitato dai libri di Rilke nell’immaginare gli angeli del suo film. Io non ho in casa nulla di Rilke e questo mi dispiace e mi distrae. Ho preso soltanto, il testo di Friedrich Hugo “La struttura della lirica moderna” e ho letto qualche citazione. L’autore cita di Rilke: “Die Tauben” (le colombe), finalmente non angeli col cappotto, ma animali con le ali, bianchi, simbolo della pace, dell’innocenza e della purezza. Preferisco gli angeli con il cappotto. Rilke veniva citato insieme a molti altri per mostrare la tecnica della “fusione” in poesia. Non ricordavo questo termine, non ci avevo ancora pensato, restavo fermo sull’immagine e l’analogia, invece la qualità, del concetto di “fusione” é penetrante e definisce, anche se non spiega tutto. Esempi di fusione sono:”la foresta di orologi”, “ticchettio di foglie”, “cespugli di campane”, c’è molto di questo in Garcìa Lorca. Ora capisco meglio la poetica del film di Wenders, un Beato Angelico del Kaly yuga, uno spiritualista dell’età del ferro. Prendere le colombe di Rilke e renderle angeli veri, chiudendole dentro ad un cappotto terreno: il cappotto dell’umanità. La fusione é fatta, si é ottenuto alchemicamente l’opera al bianco, e la fenice apre le sue ali bianche sulla pellicola nera del corvo, o opera al nero.

Il primo cappotto che ho amato, era un cappotto vecchio, usato, era di mio zio. Non come quello che mi regalarono poi, i miei genitori. Lo tenevo addosso ai miei vent’anni, e con lui si stava fuori la notte. Tutto era coerente con le trame di quel tessuto liso, allora volevo dire parole portando un indumento. Il freddo era un’occasione per parlare con il mio corpo, il mio corpo parlava agli amici e agli sconosciuti. Il cappotto era un grido o forse una canzone cantata da un Bardo, una melodia che aveva una storia che non solo a me apparteneva, il cappotto era una tradizione che si ripeteva. Camminavo per osterie con i pugni in tasca, credendo in un eterno ritorno. E non mi sbagliavo.

Portavo questo vecchio cappotto grigio da qualche mese, e mai mi era venuto in mente di mettere una mano nella tasca interna. Una sera, con gli amici in osteria, in via del Pratello, aprì con la mano sinistra la tasca di fodera nera ed estrassi un piccolo biglietto, nel quale c’era scritto ” La sera 18 gennaio appuntamento all’osteria “tal dei tali”, incontro dei “cinni dal Pradel”, era un biglietto di tanti anni prima, un invito stampato per un incontro rievocativo, già nostalgico nella sua origine, ora di più, in quel parziale dialetto che caratterizzava la parlata dei miei parenti. Per più di trent’anni, quel foglio era rimasto nascosto nella piega della tasca, un biglietto che apparteneva a mio zio, indicava quella strada in cui ero, in quel luogo in cui ero, con quel cappotto in cui ero. Basta poco per perdersi e ritrovarsi. Esiste il caso o è un simbolo da comprendere?

Fu così che i miei genitori, mi regalarono un cappotto nuovo, quello logoro era ormai inutilizzabile. Portato fino alla massima lacerazione possibile. Me lo ricordo ancora, con la sua tela spessa che sembrava una divisa, un’ armatura adatta per affrontare la tremenda giovinezza. Il cappotto nuovo era caldo, morbido, anche troppo elegante, forse per questo non posso portarlo a lavorare. Perché un educatore non può essere elegante?

Per onore della verità, devo dire che non é vero che non posso portarlo al lavoro, forse é solo una mia fissazione. Un tempo l’ho portato, e ricordo che fu in quell’occasione che vidi il mio cappotto prendere forma e ritornare ad essere parola e simbolo.

Ero al lavoro, uno dei primi anni in cui ero al centro educativo, erano le cinque della sera e dopo aver scritto qualche poesia, i ragazzi ed io, cercavamo di trasportarle in scena, facevamo teatro, trovando il modo di recitarle, cercando oggetti e gesti.

Dario era salito su di una sedia, e declamava, ma la voce era bassa e l’aria come sempre un po’ malinconica. Dario aveva undici anni, era un “cinnazzino” stupendo, sembrava un putto appena cresciuto, con gli occhi blu ed i capelli scuri. Stava sulla sedia e non mi guardava, io facevo il regista. Ad un certo punto, mi disse che non si sentiva tranquillo e voleva qualcosa addosso, che fosse lungo e lo coprisse tutto. Mi alzai e presi il mio cappotto, glielo misi sopra le spalle come fosse un mantello. Lui, in piedi sulla sedia, con il cappotto che sfiorava terra, e lo avvolgeva completamente, insieme alla sedia, pareva levitare. Dario recitò a memoria i suoi versi, rapito, sospendendo il tempo, l’identità, completamente sicuro e protetto, non aveva età, il suo Daimon si era manifestato, come accade spesso nel teatro.

Quando la performance finì, si rientrò nei ranghi. Chi rifece lo zaino per la scuola, chi andò in bagno, altro non ricordo. Dario discese dalla sedia e mi chiese, se per favore, gli potevo lasciare il cappotto addosso, almeno fino alla fine dell’ora, prima di andare a casa.

All’inizio mi sembrava una sciocchezza, poi fui sorpreso. Qualcuno disse che il cappotto si sarebbe sporcato nel camminare, strisciandolo per terra. Io ero d’accordo ma non riuscii dire di no, ero in parte incantato.

Dario sosteneva che quel cappotto, lo rassicurava, lui diceva che lo calmava e lo faceva sentire bene. Dario camminava attraverso il lungo corridoio con il mio cappotto addosso, trascinava sul pavimento quella distanza che non copriva in altezza, come una cometa di lana, che attraversa il cielo di un ambiente comune, come una cometa sapeva di solitudine quel viaggio, ma era anche un raccoglimento. Si appoggiava sul divano con quel “cappotto coperta”, si inebriava di se stesso e non voleva andare a casa.

Da quel giorno, il cappotto fu qualcosa di più di un mezzo per difendersi dal freddo atmosferico; forse Dario si difendeva da un freddo che non si trovava fuori dalle finestre. Mentre il mio vecchio cappotto era, per me, un grido, per lui il mio cappotto nuovo era un silenzio, per me era la corazza, per lui la culla, per me un ritorno di adolescenza, per lui un ritorno all’infanzia, per me forse era un uomo, per lui forse una donna, per entrambi un diaframma sulla vita, una protezione al confine della propria fragile interiorità. Lo vedo nella mia memoria girare ancora, per il lungo corridoio ed apparire sulla porta, con quell’aria trasognata, in ascolto delle proprie sensazioni. Sembrava un putto rinascimentale, senza ali, con il cappotto trascendente addosso. Piccoli angeli crescono e anche Dario crebbe. Un rito concordato che andò avanti forse un mese, un giorno mi restituì il cappotto, dicendomi: “non mi serve più”.

Da quel giorno, il mio cappotto l’ho messo ben poche volte, svuotato dal suo potere simbolico, come la coperta avvolgente dello sciamano che contatta gli spiriti e la visione.

L’ho messo nell’armadio, ed è lì, ancora ad aspettare forse, un’altra invocazione divinatoria ed educativa.



 

Category: Arte e Poesia, Culture e Religioni, Fumetti, racconti ecc.., Welfare e Salute

About Alberto Cini: Alberto Cini nasce a Bologna nel 1960, lavora come Educatore Professionale e Formatore, presso la cooperativa C.S.A.P.S.A in servizi rivolti all’handicap e all’adolescenza. Specializzato in Psicodramma con i terapeuti argentini Prof. Roberto Losso e Prof.ssa Ana Packciarz de Losso, è conduttore di laboratori espressivo teatrali, di scrittura creativa e grafico pittorici. Diplomato in massaggio tradizionale, shiatzu e massaggio aiurvedico, si specializza sull’approccio solistico alla persona. Ha pubblicato due raccolte di poesie, “Il fiore d’acqua” e “Le tre sfere”, stralci delle sue opere inedite si trovano sulla rivista di poesia “Versante Ripido”, per la quale disegna vignette satiriche e opere di contatto tra poesia e disegno grafico. Artisticamente viene educato all’arte dalla pittrice Bianca Arcangeli, sua insegnante e con la quale ha mantenuto un costante rapporto di condivisione e di confronto. Questo primo approccio lo influenza particolarmente sul rapporto tra parola e segno, tra la poesia e la pittura. Sensibile agli aspetti formativi e pedagogici dell’espressione artistica approfondisce il simbolismo della forma e del colore, l’arte terapia, terapie non convenzionali e tecniche di sviluppo della persona con il filosofo indiano Baba Bedi che frequenta per vari anni nella sua casa milanese. Non percorrendo formazioni accademiche approda alla scuola dello scultore Alcide Fontanesi, col quale comincia un lungo apprendistato formativo sull’espressionismo astratto. Le sue opere sono presso la galleria d'arte Terre Rare di Bologna

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