Maurizio Scarpari: Soft power in salsa agrodolce. Confucianesimo, Istituti Confucio e libertà accademica

| 29 Settembre 2014 | Comments (0)

 

 


 

 

Domenica 28 settembre è stato celebrato il 2565° anniversario della nascita di Confucio, il giorno precedente era ricorso il decennale dell’apertura degli Istituti Confucio (IC), centri no-profit creati per diffondere la lingua e la cultura cinesi all’estero, sul modello del British Council, del Goethe Institut, dell’Alliance Française. I festeggiamenti in Cina (e non solo in Cina) sono stati solenni, rappresentando un momento importante del processo di rivalutazione del pensiero confuciano, promosso dalla dirigenza cinese che afferma di voler riportare al centro della politica e delle attività di governo l’uomo (e non solo il mercato) e quei valori che hanno tenuto unita la Cina, con alterne vicende, per oltre due millenni, percepiti oggi come una preziosa fonte di consenso. È in corso un’operazione culturale per molti versi sorprendente, resasi necessaria per affrontare le sperequazioni create dalla rapida crescita economica e il vuoto ideologico ed esistenziale avvertito da buona parte della popolazione. Potrebbe essere in gioco la sopravvivenza stessa del PCC e la credibilità della sua classe dirigente, impegnata nel tentativo di creare una sintesi tra le dottrine di Mao Zedong, le idee liberiste di Deng Xiaoping e l’umanesimo etico di Confucio.

Non è un caso che gli IC già nel loro nome rendano omaggio al grande Maestro, le cui dottrine non necessariamente hanno a che fare con i programmi e le finalità degli IC stessi: si è trattato di un’operazione volta a creare un’immagine rassicurante della Cina, seconda potenza economica del pianeta, destinata a diventare entro pochi anni la prima. Ideati come un importante strumento di soft power,[1] gli IC sono un’emanazione dello Hanban (che li finanzia), istituzione governativa diretta da membri d’alto rango del PCC e di diversi Ministeri e Commissioni ministeriali, la cui attuale direttrice, Xu Lin, è Viceministro dell’Educazione e membro del Consiglio di Stato. Sono 465 gli IC,  attivi in 123 paesi, e 713 le Classi Confucio aperte per lo più negli istituti di istruzione superiore; per metà si trovano negli Stati Uniti, l’Italia ne conta 31.[2] A differenza dei loro omologhi europei, gli IC non sono centri autonomi, ma nascono da accordi tra università cinesi e straniere; è all’interno di queste ultime che hanno in genere la loro sede istituzionale.

Questa specificità degli IC, indicativa della volontà e della capacità di penetrazione dei cinesi, ha creato diffidenze, resistenze e non poche polemiche, a motivo dei condizionamenti e dei vincoli (trasformatisi talvolta in manifeste censure) imposti dallo Hanban, soprattutto su attività legate a temi politicamente rilevanti, come i diritti umani, la questione tibetana, la posizione del Dalai Lama, Taiwan. Gli IC sono stati criticati in quanto ritenuti, di volta in volta, centri di propaganda politica, organizzazioni per il controllo dei cinesi all’estero, agenzie di intelligence.[3] Nonostante i sospetti e le perplessità, molte università hanno comunque accettato di consorziarsi, probabilmente attratte dai generosi finanziamenti e da una serie di privilegi, facilitazioni e riconoscimenti, concessi anche a titolo personale. Questa situazione per molti versi “sbilanciata” tende a creare una condizione di sudditanza psicologica, favorendo un atteggiamento accondiscendente, che può facilmente trasformarsi in autocensura. Per salvaguardare la propria libertà di pensiero e di azione alcune università americane, europee e australiane si sono rifiutate di aprire IC al loro interno, altre hanno deciso di porre fine a ogni collaborazione con lo Hanban. È ciò che ha fatto pochi giorni fa l’Università di Chicago con una decisone che ha suscitato molto scalpore nel mondo accademico internazionale.[4] Una presa di posizione così radicale da parte di un’università prestigiosa come quella di Chicago conferisce all’intera questione una dimensione tutt’altro che trascurabile e alza considerevolmente il livello della polemica.

Si è trattato di uno strappo grave, imputato alle posizioni, ritenute inaccettabili, della direttrice dello Hanban, avvenuto dopo una serie di polemiche, culminate nell’aprile di quest’anno con la presentazione di una petizione, sottoscritta da un centinaio di professori dell’università di Chicago che hanno ritenuto di dover intervenire a difesa della libertà accademica chiedendo l’allontanamento degli IC dai campus universitari.[5] Il loro appello e stato fatto proprio, un paio di mesi dopo, dall’American Association of University Professors, che conta oltre 47.000 iscritti.[6] L’omologa associazione canadese aveva assunto una posizione simile nel dicembre 2013.[7]

Incurante del clima di tensione venutosi a creare oltre oceano, a fine luglio la direttrice dello Hanban si è resa protagonista di un episodio, interpretato come un atto di arroganza nei confronti del mondo accademico europeo, che ha gettato nuova benzina sul fuoco e alimentato ulteriori polemiche. Intervenuta al convegno della European Association for Chinese Studies, organizzato in Portogallo, a Braga, in collaborazione con l’IC locale, Xu Lin si era resa conto che il programma dei lavori approvato a suo tempo dallo Hanban riportava “la sintesi di interventi il cui contenuto è contrario alla normativa cinese” e che troppo spazio veniva concesso alle attività della Chiang Ching-kuo Foundation (l’ente no-profit taiwanese che dal 1989 promuove la cultura cinese e gli scambi tra studiosi e accademici e che è sponsor di vecchia data dell’Associazione europea). Ha quindi requisito le copie del programma, redistribuendole il giorno successivo dopo aver eliminato alcune pagine, a suo parere lesive dell’immagine della Cina Popolare. Un atto senza precedenti, che ha creato stupore e indignazione tra le centinaia di sinologi e professori presenti e l’immediata reazione del Presidente dell’Associazione, il prof. Roger Greatrex dell’Università di Lund, che ha fatto ristampare e redistribuire i programmi originali, ritenendo l’accaduto un’inaccettabile violazione della libertà accademica.[8]

Un passo falso da parte di un alto esponente dell’establishment cinese, incapace di comprendere la gravità del proprio comportamento e incurante delle conseguenze, o un atto meditato e consapevole, rispondente a logiche difficili da comprendere da parte del mondo accademico occidentale, ma comunque impossibili da accettare? Una cosa è certa: quanto sta succedendo intorno agli IC dovrebbe essere di stimolo per riflettere su questioni troppo spesso trascurate in nome di un pragmatismo che rischia di mortificare principi e valori considerati da molti irrinunciabili.

E induce ad altre considerazioni: il confucianesimo è sì un sistema di pensiero fondato su ideali e valori etici universali quali l’amore per il prossimo, l’integrità morale, la giustizia e il rispetto per i superiori e le istituzioni, ma ha anche un’anima fortemente autoritaria, che non viene pensata come contrapposta agli aspetti ideali, compenetrandoli piuttosto per formare un’entità unica e inscindibile. Grazie alla complementarietà di quelli che, a primo avviso, potrebbero sembrare opposti inconciliabili il confucianesimo ha saputo imporsi nei secoli e garantire ordine, coesione e controllo sociale e politico, determinando così il proprio successo ma anche il proprio declino, auspicato ed annunciato degli intellettuali del Movimento del 4 Maggio 1919 prima e maoisti poi, convinti entrambi che il sistema patriarcale confuciano fosse una delle cause principali del degrado e dell’arretratezza in cui era sprofondato il paese.

La duplice natura – idealista e autoritaria – del confucianesimo ne spiega forse la rinnovata fortuna: il suo innesto sul maoismo e sul denghismo consente infatti l’elaborazione di un sistema ideologico originale “con caratteristiche cinesi” in grado di tener conto tanto delle condizioni materiali quanto delle esigenze spirituali (e in parte anche religiose) dell’individuo, della società, dello stato e, non ultimo, del PCC. L’immagine soft che il paese vuole dare di sé al mondo compenetra così l’aspetto più hard, a cui la Cina non può rinunciare, essendo entrambi componenti essenziali della sua cultura e strumenti indispensabili per confrontarsi ad armi pari con gli Stati Uniti, la superpotenza che meglio di ogni altra è riuscita a mantenere il primato sia nell’ambito del soft che dell’hard power. Salvo poi non riuscire a mantenere in equilibrio il rapporto tra le due facce della medaglia.

 

 

NOTE

[1] Sull’importanza degli IC come strumento di soft power esiste ormai un’ampia letteratura; si veda, da ultimo, il saggio di Randy Kluver, “The Sage as Strategy: Nodes, networks, and the quest for geopoltitical power in the Confucius Institute”, Culture, Communication, and Critique, 7, 2, 2014, pp. 192-206. Anche il Presidente Xi Jinping ne ha parlato in diverse occasioni, ad esempio quando si è recato a Qufu in visita ufficiale al Tempio di Confucio nel novembre 2013 (v. Maurizio Scarpari, “Il ritorno di Confucio a Pechino”, il manifesto, 17 gennaio 2014) o quando a fine marzo 2014, a Berlino, ha incontrato sinologi e studenti dell’IC locale. In entrambe le occasioni egli ha sottolineato l’alto valore strategico degli IC ed enfatizzato il loro successo anche in quei paesi nei quali i pregiudizi verso la Cina sono maggiormente radicati.

[2] Dati aggiornati a fine settembre 2014 (http://www.hanban.edu.cn).

[3] Si veda, ad esempio, Geoff Masslen, “Australia: Warning – be wary of Confucius Institutes”, University World News, December 2, 2007, 8; “Has BCIT sold out to Chinese Propaganda?”, The Vancouver Sun, April 2, 2008; Nick Martin, “U of M profs fear Chinese agency’s intent”, Winnipeg Free Press, April 27, 2011. Il dibattito sugli IC si è sviluppato sulla stampa e sui blog di mezzo mondo, coinvolgendo testate di grande rilievo come The Economist, The Wall Street Journal, The New York Times, The Washington Post, The Telegraph, The Nation, The Diplomat, The Chronicle of Higher Education, The Vancouver Sun, ecc. Per una rassegna generale, da cui si possono trarre indicazioni bibliografiche utili, si veda, ad esempio, Marshall Sahlins, “China U. Confucius Institutes censor political discussions and restrain the free exchange of ideas. Why, then, do American universities sponsor them?”, The Nation, November 18, 2013, o i diversi articoli di Elisabeth Redden pubblicati in Inside Higher Ed (https://www.insidehighered.com).

[4] “Statement on the Confucius Institute at The University of Chicago”, September 25, 2014 (http://news.uchicago.edu/article/2014/09/25/statement-confucius-institute-university-chicago). A commento di questa decisione si vedano, tra i tanti interventi, quelli di Elisabeth Redden, “Chicago to close Confucius Institute”, Inside Higher Ed, September 26, 2014, e di Didi Kirsten Tatlow, “University of Chicago’s Relations with Confucius Institute Sour”, The New York Times, September 26, 2014.

[5] Elisabeth Redden, “Rejecting Confucius Funding”, Inside Higher ED, April 29, 2014.

[6] Association Committee A on Academic Freedom and Tenure of the American Association of University Professors  (AAUP), On Partnerships with Foreign Governments: The Case of Confucius Institutes, June 2014 (http://www.aaup.org/report/confucius-institutes).

[7] The Canadian Association of University Teachers, Universities and Colleges Urged to End Ties with Confucius Institutes, December 17, 2013 (http://www.caut.ca/news/2013/12/17/universities-and-colleges-urged-to-end-ties-with-confucius-institutes).

[8] Roger Greatrex, “Letter of Protest at Interference in EACS Conference in Portugal, July 2014” (http://www.chinesestudies.eu/index.php/433-letter-of-protest-at-interference-in-eacs-conference-in-portugal-july-2014); per un resoconto dettagliato degli avvenimenti, si veda Report: The Deletion of Pages from EACS Conference Materials in Braga (July 2014), http://www.chinesestudies.eu/index.php/432-report-the-deletion-of-pages-from-eacs-conference-materials-in-braga-july-2014; per una bibliografia sugli articoli usciti a commento del cosiddetto Incidente di Braga, si veda Timeline with Links to Articles and Comments, http://www.chinesestudies.eu/index.php/446-the-braga-incident-timeline-with-links-to-articles-and-comments. Si veda infine anche Maurizio Scarpari, “Alla ricerca del consenso perduto. Nella censura”, il manifesto, 25 settembre 2014.

 

 

Category: Osservatorio Cina, Osservatorio Tibet, Scuola e Università

About Maurizio Scarpari: Maurizio Scarpari, professore ordinario di Lingua e letteratura cinese classica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove ha insegnato dal 1977 al 2011 e ricoperto numerose cariche acca-demiche, tra le quali quelle di Pro-Rettore Vicario e Direttore del Dipartimento di Studi sull’Asia Orientale. Sinologo esperto di lingua cinese classica, storia, archeologia, pensiero filosofico e la sua influenza sul pensiero attuale è autore e curatore di numerosi articoli e volumi, tra cui si se-gnala La Cina, oltre 4000 pagine in quattro volumi (Einaudi 2009-2013), alla cui realizzazione hanno contribuito esperti di 35 istituzioni universitarie e di ricerca tra le più prestigiose al mondo. Per ulteriori informazioni e la bibliografia completa dei suoi scritti si rinvia a www.maurizioscarpari.com.

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