Nello Rubattu: La Sardegna. Un laboratorio politico molto speciale

| 14 Marzo 2014 | Comments (0)

 

 

 

Nello Rubattu presegue le sue analisi sulla Sardegna iniziate in www.inchiestaonline.it e ci racconta tutta la complessità di una Sardegna uscita da una tornata elettorale. Le foto sono relative a La Giara di Gesturi dove, in un oasi naturalistica, vivono circa 700 cavalli selvaggi.

 

 

Le elezioni sarde si sono concluse “per fortuna”, viene voglia di dire, con una vittoria del centro sinistra. Il tasso di assenteismo al voto è stato comunque altissimo raggiungendo il 48%: il più alto mai registrato in una elezione italiana. Se poi, lo si unisce alle schede bianche depositate nelle urne, i non votanti superano di molti punti la soglia del 50%.

Francesco Pigliaru, bisogna dargliene atto, seppure con una campagna elettorale di neanche un mese, è riuscito a convincere una buona parte del popolo della sinistra sarda ad andare a votare. Questo, nonostante una situazione complicata e fortemente segnata all’interno del suo partito, da una rissosità che da due anni a questa parte sembrava non avere nessuna intenzione di placarsi. Un vero assurdo se ci si pensa: perché la sinistra, in Sardegna, almeno alle regionali, dovrebbe raggiungere facilmente la vittoria, dal momento che rappresenta da molti decenni, la maggioranza teorica dell’elettorato. Sempre che, al centrosinistra tradizionale si sommi quello indipendentista e sovranista che in questa ultima competizione ha superato – solo quello dichiaratamente di sinistra – il 20% dei consensi. Se poi si somma l’area vasta dell’indipendentismo e del sovranismo, la percentuale in queste ultime elezioni di tutte quelle forze politiche che vogliono un rapporto diverso sia con lo stato centrale che con l’Europa, si supera alla grande e di molti punti il 30%

Ma per ritornare all’universo del centrosinistra, bisogna prima di tutto sottolineare che il grande problema fra questi due universi politici sardi – queste “due sinistre” come le chiamano in molti – non corre da molto tempo buon sangue. Tutte e due hanno nella maggior parte dei casi, riferimenti teorici, filosofici e politici, in molti casi uguali: tutte e due hanno letto Antonio Gramsci e attualmente sognano un modello di governo dichiaratamente socialdemocratico. Ma nel lavoro politico quotidiano, le diffidenze non finiscono mai. Soprattutto, nessuno di loro vuole abbandonare certi riferimenti: “La sinistra sarda – diceva Antoni Simon-Mossa, teorico dell’indipendentismo sardo moderno – è ancora imbevuta di troppo risorgimentalismo, crede che l’unità dello Stato sia un valore e non un modello di organizzazione del territorio come tanti altri”. In realtà, queste differenti letture su come agire per sanare gli storici mali dell’isola, oltre che portare molta confusione, aumenta la distanza da possibili soluzioni condivise fra forze politiche della stessa area.

Se poi tutto questo accade in una terra dove “parlare di politica” è da sempre considerato un fatto pregnante, le differenze assumono una importanza ancora maggiore. Come ricordava, Francesco Cossiga: “i sardi, vengono allevati a pane e politica”. Se si capisce il significato di questa affermazione, forse si capiscono molti problemi che lacerano in questo momento le leadership politiche dell’isola. Di politica, soprattutto, ne discutono molto e forse con poca avvedutezza, molti intellettuali sardi che spesso senza volerlo, diventano portatori di polemiche che hanno la caratteristica in molti casi di diventare lunghe e inestricabili. Ultimamente, un grande scrittore sardo, Giorgio Todde, ha pubblicato su un quotidiano un suo articolo nel quale affermava che gli indipendentisti, in genere, sono persone poco attente alle questioni legate all’ambiente. In pratica, li ha inseriti “addirittura”, fra i colpevoli della distruzione ambientale del territorio dell’isola.

Ovviamente, la reazione è stata immediata: “Non è vero – gli ha risposto Bustianu Cumpostu – leader di Sardigna Nazione, una delle formazioni storiche dell’indipendentismo isolano- in questi anni tutte le campagne in difesa della nostra isola, sono state portate avanti dagli indipendentisti. Ci sembra, invece, che proprio il centrosinistra storico, insieme al resto dei partiti italianisti, operanti sull’isola, hanno favorito il massacro della Sardegna e delle mostruosità che sono stati gli insediamenti industriali”.Tutto vero, purtroppo. Perché proprio i partiti della sinistra, fin dagli anni cinquanta, ritenevano che l’industrializzazione forzata dell’isola, sarebbe stata una fortuna per il popolo sardo. “Questo probabilmente perché, in quegli anni, molti di loro avevano in testa una politica di piano a immagine e somiglianza di quella sovietica”, ricorda Ausonio Bianco, consulente strategico per gruppi industriali che attualmente lavora a Torino.

Sta di fatto che negli anni sessanta proprio la sinistra, si è dimostrata connivente con l’industrialismo più selvaggio calato in Sardegna grazie ai generosi aiuti di Stato.

E che sia vero ci vuole davvero poco a capirlo: esiste uno scambio di lettere – siamo negli anni sessanta – fra Titino Melis (uno dei padri fondatori del partito sardo d’azione, storico partito autonomista dell’isola) e Emilio Lussu (anche lui fra i fondatori dello stesso Partito, ma in quel periodo già passato prima al Psi, poi al Psiup e infine al Pci), in cui Titino Melis, chiedeva a Lussu, una mano per impedire la nascita dei poli petrolchimici, considerati delle disgrazie economiche, pozzi senza fondo di tangenti e modelli di industria fallimentare che avrebbero distrutto i modelli tradizionali di produzione: “Già allora – lo ricorda Franciscu Sedda, uno dei fondatori del partito dei sardi, Partito sovranista e alleato del centrosinistra con due consiglieri – Emilio Lussu, risponde a Titino Melis dicendo che il suo partito era favorevole a quegli insediamenti industriali e lui si sarebbe attenuto alle indicazioni del partito”.

Una diatriba, sul fatto di privilegiare il “proletariato industriale rispetto a quello agricolo” perciò, molto antica che troviamo già nei “quaderni dal carcere” di Antonio Gramsci, quando la descrive come la “Questione sarda”. Già allora, mentre Antonio Gramsci, si dimostrava convinto che il progresso per le classi dominate nasce dall’emancipazione delle classi non solo operaie, ma soprattutto contadine e dall’importanza di questioni legate alla lingua e alla cultura di un popolo che per questo bisogna tenerle ogni giorno presente; Palmiro Togliatti – che aveva abitato durante il periodo dei suoi studi liceali a Sassari e con Antonio Gramsci si erano poi incontrati a Torino all’università – si dimostrò da subito orientato a trovare la soluzione dei problemi in territori marginali come quello sardo, attraverso la nascita di una compiuta classe proletaria industriale.

In Sardegna, con gli anni, questo antico dibattito, si è trasformato in una specie di linea di demarcazione fra chi in Sardegna, ha sempre coltivato l’universalismo come modello di riferimento del suo essere di sinistra e quelli che hanno sempre ritenuto il progresso, culturale e sociale, frutto di un modello culturale che si confronta quotidianamente con il proprio territorio. Questo dibattito, in Sardegna, ha portato negli ultimi decenni, a fratture spesso pesanti e da molti ancora oggi considerate insanabili. Di sicuro, i tentativi da parte dei diversi schieramenti di chiarirsi non sono stati pochi, ma fino a questo momento, seppure tutti dimostrino una rinnovata attenzione verso certi problemi, non hanno di certo scalfito il muro delle reciproche diffidenze.

E questo, nonostante il fatto non siano mancati intellettuali che hanno tentato di fare una sintesi delle diverse posizioni: da Eliseo Spiga, a Gianfranco Pintore, da Francesco Masala a Michela Murgia, dal grande archeologo Giovanni Lilliu al padre di Francesco Pigliaru, Antonio, che ha scritto uno dei libri di antropologia giuridica “il codice barbaricino”, sicuramente fra i più importanti per la comprensione dei modelli di comportamento sociale dei sardi.

Il tentativo è comunque, in continua evoluzione: “Tutto in Sardegna, ha sempre vagato su come intendere il concetto di popolo sardo. Un nodo da risolvere, su cui ancora ci si interpreta e che parte dall’epoca nuragica”, diceva un po’ per scherzo, Eliseo Spiga, intellettuale che da posizioni iniziali vicine alla sinistra tradizionale, approdò al sardismo più spinto e prima di morire, all’idea di comunitarismo, inteso quale risposta alla crisi economica non solo del modello sardo ma di quello occidentale più in generale. Un solco, comunque, che con queste ultime elezioni, sembra per fortuna essere meno profondo:

“Inutile dire che il centrosinistra, per vincere, ha avuto bisogno di concentrare nel proprio cartello partiti e movimenti della sinistra tradizionale, insieme a forze indipendentiste e sovraniste che fino a non molto tempo fa, non si sarebbero mai messe insieme”, così la pensa Gavino Sale, un altro dei leader storici dell’indipendentismo sardo, eletto consigliere in questa tornata elettorale.

Una necessità, perciò, che troverà non pochi ostacoli. Certo, bisogna dire che la gravità del momento può davvero risultare un collante. Ma di certo, bisogna sempre ricordarsi che molte valutazioni politiche non sono coincidenti e contengono tutte le ragioni per prossime e pericolose fratture. Bisognerà vedere come Francesco Pigliaru, una persona giudicata da tutti molto equilibrata, riuscirà a controllare le spinte alla continua rissa che possono venire fuori in ragione anche dell’estrema frammentazione delle forze politiche che compongono in questo momento il cartello del centrosinistra.

Certo, oggi la Sardegna è sottoposta agli effetti devastanti della crisi che non lascia molti spazi a elaborati distinguo teorici. Oggi, in Sardegna tutti sono coscienti di trovarsi in una fase molto complicata della storia dell’isola : “Siamo vicini all’estinzione”, ha ricordato in una conferenza, Bepi Vigna, uno dei grandi sceneggiatori di fumetti e inventore di Nathan Never, pubblicato dalla Bonelli editore, la più importante casa editrice di fumetti italiana.

“Non vi sono molti margini di discussione e le condizioni in cui versa la Sardegna, sono sotto gli occhi di tutti. Bisogna affrontare subito il nodo del lavoro e fare in modo che i giovani restino in Sardegna”, ha detto per tutta la sua campagna elettorale Francesco Pigliaru, oggi nuovo presidente della Giunta sarda.

Una vera emergenza. D’altronde, i numeri della disoccupazione in Sardegna sono fuori dalle righe da molto tempo. Il 2013, ormai è un dato indiscusso, è considerato l’annus horribilis dell’occupazione in Italia. Ma in Sardegna è stato molto peggio. I dati dell’Istat, elaborati per il quarto trimestre del 2013 italiano, risultano fra i peggiori dal 1977 e l’emergenza lavoro, segnala una diminuzione costante del numero degli occupati e un aumento crescente di disoccupati. In Sardegna, si segnala che gli occupati, su una popolazione di 1.600.000 persone, passano da 572mila a 538mila, con una riduzione del tasso di occupazione dal 49,8% al 47,3%. Gli occupati diminuiscono di 34mila unità, mentre la forza lavoro perde 27mila unità. Le persone in cerca di occupazione passano, rispetto al 2012, da 112mila a 119mila. La disoccupazione cresce dal 16,4% al 18,1%. La media nazionale è del 12,7% con una crescita rispetto allo stesso trimestre del 2012, dell’1,1% contro l’1,7% nell’isola. In Sardegna scende di due punti anche il tasso di attività, dal 59,7% al 57,9%.

Molti giornali dell’isola, per questo, sottolineano che ormai l’economia sarda sta semplicemente chiudendo per fallimento. “In effetti”, ricordano in un loro documento quelli del Cia, ” la realtà è ancora più brutta” e per molti di loro il punto di non ritorno è stato ampiamente superato.

Bastano per questo le note allarmanti diffuse dall’associazione “carta di Zuri”, che raggruppa molte organizzazioni del lavoro dell’isola: «Si è di fronte a dati ben peggiori se calcoliamo nel numero dei disoccupati coloro che sono scoraggiati nella ricerca del lavoro e che non vengono valutati come persone in cerca di occupazione – sottolinea, il sacerdote nuorese don Pietro Borrotzu. Dunque – prosegue – dati ancora negativi che incidono pesantemente nel processo di impoverimento complessivo della Sardegna e che portano a una ulteriore caduta della ricchezza dell’Isola e alla capacità del sistema economico di produrla promuovendo la crescita economica e lo sviluppo. L’associazione Carta di Zuri impegnata nella lotta alle povertà e per il lavoro – si legge nella nota a firma anche di Mario Medde e Fabio Meloni – esprime forte preoccupazione per l’aumento dei disoccupati e le enormi difficoltà del mercato del lavoro, per il numero abnorme dei giovani senza lavoro, per le migliaia di lavoratori che espulsi dal posto di lavoro, attendono la ricollocazione”.

Tutto questo sta producendo nelle giovani generazioni, una forte propensione ad emigrare. Una risposta abbastanza classica per le popolazioni di questa terra che alle grandi crisi di cui sono state oggetto in questi ultimi secoli, hanno sempre risposto partendo in massa. Cercare fortuna e una vita decente in qualche altro posto, non importa dove, fa parte della storia Sarda, è un suo segno distintivo: a parte l’emigrazione dall’isola che nella seconda metà dell’ottocento – cioè qualche decennio dopo l’annessione del regno di Sardegna al Piemonte sabaudo – vide soprattutto andare via prima di tutto i rampolli della borghesia e della nobiltà isolana ( Goffredo Mameli, proprio quello dell’inno, era uno di questi, molto giovane si trasferì a Genova), si cominciò a partire sul serio dagli anni dieci del novecento, verso le nascenti colonie africane, in libia soprattutto. Si prendeva la nave da Cagliari e si andava come manovalanza a costruire case e strade per i coloni italiani che dovevano ancora arrivare. Poi continuò fino agli anni trenta: in questo caso in maniera silenziosa, verso le Americhe (Juan Domingo Peron, il dittatore argentino, affermava nelle sue interviste che la sua famiglia era di origini sarde) e la Francia; passando da Marsiglia che si raggiungeva con le navi commerciali che partivano da Porto Torres.

Finita la seconda guerra mondiale, i sardi partirono in massa per i Paesi europei che in quel momento avevano bisogno di braccia per la ricostruzione. Negli anni cinquanta e sessanta del novecento, furono in molti coloro i quali andarono a lavorare nel Bacino minerario del Belgio. La comunità sarda è così numerosa che ha dato vita ad una federazione di “circoli sardi” che raggruppa migliaia di famiglie.

In sessanta anni, ricordano gli studi di settore, sono partiti dalla Sardegna oltre seicentomila persone. Un numero altissimo, se si pensa che all’inizio del secolo, in Sardegna non si arrivava al milione di abitanti. Un vero disastro umano che in questi ultimi cinquanta anni, ha tagliato le gambe a qualsiasi ipotesi interna di sviluppo. Non per niente in tutto questo ultimo secolo, la popolazione della Sardegna è rimasta stabile e non ha mai superato il milione e seicentomila abitanti: “In realtà- ricorda Marco Piras, emigrato in Svizzera da molto tempo e uno degli estensori della catalogazione delle emergenze storiche, ambientali e culturali dell’intero Canton Ticino – se si dovessero contare oggi tutti i sardi e le loro famiglie in giro per il mondo, la popolazione dell’isola supererebbe tranquillamente i tre milioni di abitanti”.

Ma sono ovviamente cifre ipotetiche. Sta di fatto che l’emigrazione è ancora per i sardi l’unica arma a loro disposizione, da utilizzare quando non restano in Sardegna altre possibilità.

E che dall’isola in questo momento si scappi, seppure senza troppi clamori, è più che certo: l’emigrazione sarda (nel 2010, 2011,2012, 2013) è infatti aumentata del 30% l’anno, rispetto agli andamenti consolidati negli anni precedenti. Lo dice l’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero.

Che poi, questa sia la vera tendenza lo confermano in molti e nei modi più disparati. Mario Sechi, ex direttore del quotidiano “Il Tempo” per un triennio, presentatosi all’ultima competizione elettorale nazionale – senza poi essere eletto – nelle liste di Mario Monti, parlando della sua famiglia, originaria di Cabras, un piccolo paese dell’oristanese, dà una spiegazione per lui abbastanza “normale” su quello che accade quotidianamente in Sardegna: “…Guarda casa nostra, io sono a Roma e ho fatto un bel po’ di giri, mia sorella Sara è andata prima a Londra e ora sta a Milano, mio fratello Salvatore vive e lavora in Brasile, l’altro mio fratello Pietro, ha passato la vita fuori dall’isola, prima in Germania, poi in Veneto, ora è rientrato”.

Che la “storia” della famiglia di Mario Sechi, per i sardi, non rappresenti niente di speciale è più che ovvio, ma il pericolo è però un altro e non di poco conto: nei sardi, cresce ogni giorno di più, il senso di non sentirsi rappresentati da nessuno e quindi di non avere nessuno a cui chiedere qualcosa. Più che una “disposizione” legata al contingente, per i sardi sta diventando un “valore esistenziale” che specchia il modo con il quale si collocano rispetto all’Italia strutturale ad ogni ragionamento, di cui tenere sempre di più conto.

Sono molti, ormai, fra quelli che in questo periodo stanno ragionando su quanto sta accadendo a causa della crisi in Sardegna che se ne stanno accorgendo: “La solitudine dei sardi in un Sud dimenticato”, così ha titolato un suo fondo appena apparso sul Sole24ore, Roberto Napoletano, giornalista e notista economico di lunga data. In quel suo articolo, Roberto Napoletano, cita un altro giornalista, Pino Aprile, che parlando delle condizioni dell’isola, afferma categorico che ormai: “La Sardegna, non esiste più”. Probabilmente perché secondo il suo parere, il processo di sfaldamento della struttura economica ed industriale dell’isola è così avanzato da avere ormai superato qualsiasi previsione negativa.

I prossimi anni, perciò, saranno determinanti e estremamente gravosi per Francesco Pigliaru.

Ma la maggior parte delle sue preoccupazioni, probabilmente, non gli arriveranno solo dalle leadership sull’isola, ma da come riuscirà ad impostare il rapporto sulle cose da fare con il potere centrale. Un potere che non capisce i problemi della Sardegna e ne percepisce le richieste spesso con molto fastidio e grandi ingenuità: “Voi comunque siete fortunati, vivete in un posto meraviglioso, unico. Un’opportunità che molti nel resto d’Italia non hanno”. Questo infelice commento – se rivolto ad una terra come la Sardegna che presenta uno dei tassi di disoccupazione più alti d’Italia – è stato pronunciato pubblicamente da Fabrizio Barca, economista, proprio quando ricopriva la carica di ministro nel Governo Monti e si trovava in Sardegna in visita ufficiale.

Basta, poi, semplicemente seguire la vicenda del nubifragio Cleopatra e dei relativi finanziamenti pubblici che sarebbero dovuti essere erogati “con celerità”, per rimettere in sesto l’economia di alcune zone – come quella di Olbia e della costa orientale, una di quelle economicamente più sviluppate dell’isola e oggi letteralmente in ginocchio – per capire come il Governo intenda muoversi per sanare i mali di questa terra: il calcolo dei danni da rimborsare – si legge in un articolo recentemente apparso su uno dei quotidiani dell’isola – calcolato dalla protezione civile è stato di 650 milioni. Dopo cento giorni dal disastro, ne sono stati resi disponibili 32 milioni. Ma non tutti del Governo: 12 sono infatti sono della Regione”.

Un bel problema: “E’ impossibile farli bastare. Ci stanno chiedendo di svuotare una diga con un mestolo bucato”, ha affermato il commissario straordinario all’emergenza, Giorgio Cicalò.

Certo, tutti possono sempre pensare che la tiritera dei ritardi sia normale e strutturale per un modello burocratico quale quello italiano che considerarlo in completo disfacimento è lontano dalla verità. Ma se questo è vero in generale, in particolare per la Sardegna, rischia di diventare la classica goccia in grado di provocare la piena.

“Forse, quelli che stanno al governo, non se ne sono ancora accorti, ma la Sardegna è un’isola E noi siamo sicuramente ancora più isola della Sicilia. Che lo si voglia o meno, i nostri problemi non sono paragonabili a quelli di un’altra regione italiana, del Sud come del Nord. Se non riescono a capirci è meglio che ognuno rimanga a casa sua. Di questi aiuti che ogni volta aumentano le nostre disgrazie ne possiamo fare a meno”. Il testo che parte da un blogger della Gallura, è stato fatto girare nei giorni scorsi via Internet e sta ricevendo molti consensi.

Certo, nessuno ancora pensa che nei prossimi anni sull’isola, si ritorni ad una stagione politica simile a quella che la attraversò negli anni settanta. Una stagione che allora portò un folto gruppo di ingenui rivoluzionari, a sognare per la Sardegna un futuro di “Cuba del Mediterraneo”. Molti per questo andarono in galera; e un gruppo, “la Banda dei sardi”, cercò con una serie di rapine in Emilia Romagna, di finanziare la rivolta e la nascita di gruppi armati sull’isola. “Purtroppo la storia può sempre ripetersi”, ricordano in molti.

E’ per questo che bisogna ritenere il compito di Francesco Pigliaru, oggi nuovo presidente della Giunta Sarda, molto difficile e pieno di incognite: da un lato deve unire due universi politici in molti casi antitetici della sinistra dell’isola e dall’altra li deve fare ragionare sulla necessità di un governo stabile in grado di andare avanti per almeno i prossimi dieci anni: “in una prospettiva – come si legge in un documento sulle isole e i territori di confine dell’Unione europea – in grado di fare diventare l’insularità un pregio e non una disgrazia”.

Per fare questo, si ricorda sempre in quel documento comunitario, bisogna certamente ragionare su nuovi modelli di organizzazione del territorio, da declinare con istanze concrete di redistribuzione degli asset di potere sia politico che di organizzazione territoriale .

D’altronde, di esempi verso cui guardare, in Europa, soprattutto in questo momento, ve ne sono davvero molti : dalla Gran Bretagna alla Spagna, dal Belgio alla Francia. Il dibattito in questo momento è più che aperto e vede già alcuni (Paesi Baschi, Catalogna, Scozia, Fiandre) su direttrici fortemente indipendentiste.

Lo stesso sta accadendo per molti versi in Italia. Purtroppo, con un dibattito al momento condizionato dalle posizioni filo razziste della Lega, ma che già, molto prima delle ipotesi seccessioniste della Lega di Bossi, aveva prodotto una serie di risultati importanti – quali quelli legati alle autonomie speciali e a quegli strani marchingegni giuridici (se letti in un’ottica di Stato unitario quale l’Italia) che al momento interessano soprattutto le province autonome del Trentino e dell’Alto Adige e per altro verso, la piccola regione autonoma della Val D’Aosta.

Con un poco di buona volontà si possono trovare soluzioni intelligenti anche per la Sardegna. Soprattutto, bisogna ricordare un po’ a tutte le forze politiche italiane che tenere la testa sotto la sabbia in questo momento, proprio non conviene. Come non conviene confondere la crisi sarda con una delle tante che hanno attraversato e stanno attraversando l’Italia in questi anni. Basta leggere la storia della Sardegna degli due secoli per capire che non è così.

 


 

 

 

 

 

 

 

Category: Osservatorio Sardegna, Politica

About Nello Rubattu: Nello Rubattu è nato a Sassari. Dopo gli studi a Bologna ha lavorato come addetto stampa per importanti organizzazioni e aziende italiane. Ha vissuto buona parte della sua vita all'estero ed è presidente di Su Disterru-Onlus che sta dando vita ad Asuni, un piccolo centro della Sardegna, ad un centro di documentazione sulle culture migranti. Ha scritto alcuni romanzi e un libro sul mondo delle cooperative agricole europee. Attualmente vive a Bologna

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