Ilaria Cucchi: La vita di mio fratello non era considerata tra quelle da salvare

| 8 Giugno 2013 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo la lettera che Ilaria Cucchi (nella foto) ha diffuso in rete il 5 giugno 2013 insieme all’articolo di Giampiero Calapà e Sivia D’Onghia su Il fatto quotidiano dell’8 giugno 2013 e la scheda su questo caso fatta da Wikipedia

 

Chiedo scusa a nome di Stefano per il danno che la sua permanenza al Pertini e la sua morte hanno procurato al buon nome del dott. De Marchis e della dott.ssa Di Carlo. Chiedo scusa per il disturbo arrecato.
Infondo era un tossicodipendente, e non dimentichiamo che era lì perché aveva commesso un reato.
Cosa valeva la sua vita rispetto alla carriera e l’onorabilità di persone che ‘salvano la vita alla gente’?
 E mi rendo conto sempre di più che la vita di mio fratello non era considerata tra quelle da salvare.
 Stefano non ha più voce per dire che lavorava, che andava in palestra. Che le sue vene non erano massacrate dalla droga, della quale non c’era traccia dopo la sua morte…
E che immaginava un futuro come tutti noi.
 Lui non c’è più. Quindi tanto vale che i loro avvocati lo massacrino pure da morto. Se si tratta di salvaguardare coloro che quasi sempre salvano la vita alla gente. Sempre che ‘la gente’ non sia un detenuto in attesa di giudizio tossicodipendente.
E cosa importa il dolore di un padre e di una madre, che per quella vita avrebbero dato l’anima, pur senza mai farne un santo, nel vederlo calpestato e spogliato di quello che era? 
Diciamo che non è stato curato perché come tutti i tossicodipendenti non era collaborativo. 
E dimentichiamo il giuramento d’Ippocrate.
Tanto era un tossicodipendente.
 Ma si. Mettiamoci una pietra sopra e salviamo il salvabile. Tanto se l’è cercata.
 E diffondiamo la sua foto nei centri di recupero. Così tutti sapranno che di droga si muore in quel modo, come ha avuto la brillante idea di affermare uno degli avvocati dei poveri medici

 

 

1. Giampiero Calepà e Silvia D’Onghia: Processo Cucchi, la rabbia di Ilaria,”Metto su face book le offese dei pm”

[Il fatto quotidiano 8 giugno 2013]

 

“Gli avvocati degli agenti minacciano querele, i sindacati dei medici protestano, gli infermieri si inalberano e lasciano intendere che Stefano sia morto per colpa sua o peggio, nostra, i magistrati si sentono offesi. Io sono veramente commossa dall’attenzione e dal calore di tutti, tantissimi, coloro che ci danno manifestazione di solidarietà e vicinanza. Finché saranno con noi andremo avanti”. A due giorni dalla sentenza che confina a malasanità la morte del fratello Stefano, con l’assoluzione dei tre agenti di polizia penitenziaria e dei tre infermieri e le sole condanne – lievi – per i sei medici imputati, Ilaria Cucchi è tornata quella di sempre.

Le lacrime hanno lasciato il posto alla solita grinta, quel nodo in gola che ha fatto commuovere l’Italia non c’è più. È rimasta, forte più di prima, la sete di verità e giustizia. “Le porte dell’appello adesso sono spalancate – risponde a chi le chiede cosa intende fare –. Siamo stanchi degli attacchi e degli insulti alla memoria di Stefano. Abbiamo subìto un processo che si è rivelato un massacro”. Ilaria ha deciso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa: “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (venerdì, ndr) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di face book quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network.

E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. “Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni: stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

Di questa storia e di quelle maledette ore tra il 15 e il 16 ottobre 2009 è stato scritto e detto tutto e il suo contrario. Sono i personaggi apparentemente minori, comparse in un film terribile, che possono aiutare, cogliendo il particolare, a capire di più. Torniamo a quei giorni di ottobre di quattro anni fa. Cucchi viene ricondotto nella cella di sicurezza, dove rimarrà fino alle 15 quando sarà consegnato al nucleo traduzione della penitenziaria.

Bruno Mastrogiacomo è agente dell’ufficio casellario di Regina Coeli. Deve procedere all’ispezione del detenuto. Al pm, il 22 giugno 2011, racconterà: Mastrogiacomo: “Il viso era di un colore violaceo, sotto gli occhi un po’ rossastro, però sinceramente se… non… non so definire se erano lividi o quello che era”. Pm: “E invece per quanto riguarda, lei ha detto, una ferita, mi pare di aver capito, all’osso sacro insomma, alla schiena”. Mastrogiacomo: “Ci aveva un segno rosso… diciamo all’altezza dell’osso sacro in su, circa un dieci centimetri… non poteva fare diciamo il movimento di mettersi seduto oppure ecco fare la… la flessione ché non poteva piegarsi, perché gli faceva male all’altezza diciamo del… dell’osso sacro, così”.

Insomma, come si legge nella memoria della parte civile, “Mastrogiacomo, che procede all’ispezione, riscontra una problematica sullo stato di salute di Stefano meritevole di considerazione e fuori dall’ordinario: aveva un segno di dieci centimetri sopra l’osso sacro, con rossore sulla pelle della schiena, e incapacità di mettersi seduto e di piegarsi”. Durante l’ispezione Cucchi avrebbe raccontato a Mastrogiacomo l’origine delle lesioni, riconducibili, secondo la deposizione dell’agente, all’atto dell’arresto, quindi ai carabinieri.

Samura Yaya, invece, è stato un teste importante all’inizio del procedimento. Il ghanese all’epoca agli arresti, arrivò alla cella di sicurezza del tribunale, per l’udienza di convalida, per ultimo, dopo Cucchi. Lui non vede, ma dice di aver sentito tutto. “Vicino alla sua cella – si legge ancora nella memoria dell’avvocato Fabio Anselmo – Samura sente dapprima per due o tre minuti un parlare arrabbiato (verosimilmente fra un agente e Stefano), poi sono arrivate altre ‘due guardie’ il cui arrivo ha coinciso con la domanda ‘cosa è successo?’; da lì in poi la scena ‘centrale’ da lui descritta: la caduta, i calci, il trascinamento, l’ordine di entrare in cella (‘entra, entra!’), il pianto di Stefano, la chiusura della cella da parte degli agenti, due agenti che poi vanno verso destra e uno che va verso sinistra nella direzione della sua cella. Tutto questo, riferisce Samura, è successo “quindici – venti minuti prima che mi hanno portato su. Non ricordo era dieci – cinque minuti prima che mi hanno portato su”.

 

 

2. Wikipedia: L’omicidio di Stefano Cucchi. I fatti, le indagini, La sentenza di primo grado

2.1 I fatti

Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi venne trovato in possesso di 21 grammi di hashish ed epilettici (il giovane era epilettico). In conseguenza di questo venne decisa la custodia tutelare; in tale data il giovane non aveva alcun trauma fisico e pesava 43 chilogrammi (per 176 cm di altezza). Il giorno dopo venne processato per direttissima. Già durante il processo aveva difficoltà a camminare e a parlare e mostrava inoltre evidenti ematomi agli occhi; il giovane parlò con suo padre pochi attimi prima dell’udienza ma non gli disse di essere stato picchiato. Nonostante le precarie condizioni, il giudice stabilì per lui una nuova udienza da celebrare qualche settimana dopo e stabilì inoltre che il giovane avrebbe dovuto rimanere in custodia cautelare al Regina Coeli.

Dopo l’udienza le condizioni di Cucchi peggiorarono ulteriormente, e venne visitato all’ospedale Fatebenefratelli presso il quale vennero messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso (inclusa una frattura della mascella), all’addome (inclusa un’emorragia alla vescica) ed al torace (incluse due fratture alla colonna vertebrale). Venne quindi richiesto il suo ricovero che però venne rifiutato dal giovane stesso. In carcere le sue condizioni peggiorarono ulteriormente. Morì all’ospedale Sandro Pertini il22 ottobre 2009. In tale data Cucchi pesava 37 chilogrammi

Dopo la prima udienza i familiari cercarono a più riprese di vedere, o perlomeno conoscere, le condizioni fisiche di Cucchi, senza successo. La famiglia ebbe notizie di Cucchi quando un ufficiale giudiziario si recò presso la loro abitazione per chiedere l’autorizzazione all’autopsia.

 

2.2 Le indagini

Dopo la morte di Stefano Cucchi, il personale carcerario espresse divergenti dichiarazioni negando di avere esercitato violenza sul giovane e dicendo che lo stesso era morto o per conseguenze a un supposto abuso di droga, o a causa di pregresse condizioni fisiche, o per il suo rifiuto al ricovero al Fatebenefratelli. Il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi dichiarò che Stefano Cucchi era morto soltanto di anoressia e tossicodipendenza, asserendo altresì che il ragazzo fosse sieropositivo. Successivamente si pentì per queste false dichiarazioni e si scusò con i familiari. Nel frattempo, per fermare le illazioni che venivano fatte sulla sua morte, la famiglia pubblicò alcune foto del giovane scattate in obitorio nelle quali nelle quali erano ben visibili vari traumi da violente percosse e un evidente stato di denutrizione (foto precedenti).

Durante le indagini circa le cause della morte, un testimone ghanese dichiarò che Stefano Cucchi gli aveva detto d’essere stato picchiato; il detenuto Marco Fabrizi chiese di essere messo in cella con Stefano (che era solo) ma questa richiesta venne negata da un agente che fece con la mano il segno delle percosse; la detenuta Annamaria Costanzo affermò che il giovane le aveva detto di essere stato picchiato, mentre Silvana Cappuccio vide personalmente gli agenti di polizia penitenziaria picchiare Cucchi con violenza.

Le indagini preliminari sostennero che a causare la morte sarebbero stati i traumi conseguenti alle percosse, il digiuno (con conseguente ipoglicemia), la mancata assistenza medica, i danni al fegato e l’emorragia alla vescica che impediva la minzione del giovane (alla morte aveva una vescica che conteneva ben 1400 cc di urina, con risalita del fondo vescicale e compressione delle strutture addominali e toraciche). Inoltre determinante fu l’ipoglicemia in cui i medici lo avevano lasciato, tale condizione si sarebbe potuta scongiurare mediante l’assunzione di un semplice cucchiaio di zucchero.

Sempre stando alle indagini, gli agenti di polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio a Antonio Dominici avrebbero gettato il ragazzo per terra procurandogli le lesioni toraciche, infierendo poi con calci e pugni. Oltre agli agenti di polizia penitenziaria, vengono indagati i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponnetti che non avrebbero curato il giovane e che lo avrebbero lasciato morire di inedia. Questi si difesero dicendo che era il giovane a rifiutare le cure.

Il 6 novembre 2009 vengono ritrovati 925 grammi di hashish e 133 grammi di cocaina in un appartamento saltuariamente occupato da Stefano Cucchi e di proprietà della sua famiglia. A comunicare l’esistenza della droga al magistrato sono stati gli stessi congiunti di Cucchi. Su questo fatto è stato ascoltato come testimone il padre. Secondo i legali, questo comportamento è indice della volontà dei genitori di prestare la massima collaborazione agli investigatori per arrivare ad accertare le cause della morte di Stefano.

Il 14 novembre 2009 la procura di Roma contesta il reato di omicidio colposo a carico di tre medici dell’ospedale Sandro Pertini dove era stato ricoverato Cucchi e quello di omicidio preterintenzionale a tre agenti della penitenziaria che avevano in custodia il ragazzo nelle celle di sicurezza del tribunale di Roma, poco prima dell’udienza di convalida dell’arresto.

Il 27 novembre 2009 una commissione parlamentare d’inchiesta, richiesta per far luce sugli errori sanitari nell’area detenuti dell’ospedale Pertini di Roma, conclude che Stefano Cucchi è morto per abbandono terapeutico.

Il 30 aprile 2010 la procura di Roma contesta ai medici del Pertini, a seconda delle posizioni, il favoreggiamento, l’abbandono di incapace, l’abuso d’ufficio e il falso ideologico. Agli agenti della polizia penitenziaria vengono contestati invece lesioni e abuso di autorità. Tredici in tutto le persone coinvolte dalle indagini. Decadono dunque il reato di omicidio colposo a carico dei medici e quello di omicidio preterintenzionale a carico degli agenti della penitenziaria.

Il 13 dicembre 2012 i periti incaricati dalla corte hanno stabilito che il giovane è morto a causa delle mancate cure dei medici, per grave carenza di cibo e liquidi. Affermano inoltre che lesioni riscontrate post mortem potrebbero essere causa di un pestaggio o di una caduta accidentale e che “né vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica lesiva“.


2.3 La sentenza di Primo grado

Il 6 giugno 2013 la IIIa Corte d’Assise condanna in primo grado sei medici dell’ospedale Sandro Pertini a due anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa), mentre assolve sei tra infermieri e guardie penitenziarie, i quali, secondo i giudici, non avrebbero in alcun modo contribuito alla morte di Cucchi.

Per i medici, dunque, il reato di abbandono di incapace viene derubricato in omicidio colposo. Il Pm aveva chiesto per quest’ultimi (Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite, Rosita Caponetti e Flaminia Bruno) pene tra i cinque anni e mezzo e i 6 anni e 8 mesi. Aveva inoltre sollecitato una pena a quattro anni di reclusione per gli infermieri e due anni per gli agenti penitenziari. Le accuse nei confronti di quest’ultimi erano di lesioni personali e abuso di autorità. Sono stati assolti con la formula che richiama la vecchia insufficienza di prove. La lettura della sentenza è stata accompagnata da grida di sdegno da parte del pubblico in aula

 

 

Category: Carceri, Guerre, torture, attentati, Politica

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