Festeggiare Don Catti e Gigi Pedrazzi ricordando Danilo Dolci e Giuseppe Dossetti

| 20 Giugno 2014 | Comments (0)

 

 

 

 

Monsignor Giovanni Catti compie 90 anni e celebra Messa domenica 22 giugno alle 10,30 a Bologna alla Chiesa del Baraccano in Piazza del Baraccano 2. Gigi Pedrazzi riceve l’Archiginnasio d’Oro dal Sindaco Virginio Merola mercoledì 25 giugno ore 18 a Bologna Sala dello Stabat Mater. Biblioteca dell’Archiginnasio Piazza Galvani 1, prolusione di Romano Prodi . Per festeggiare questi due cari amici ripubblichiamo due loro ricordi di Danilo Dolci e di Giuseppe Dossetti

 

 

 



1. Mons. Giovanni Catti: Ricordo di Danilo Dolci

[Intervista di  Dimitris Argiropoulos 20 maggio 2011 su www.inchiestaonline.it]

 

D. Mi racconti Danilo Dolci…

Faccio del mio meglio per illustrare alcuni aspetti, oserei dire della sua personalità, che mi è sembrato di cogliere prima di altri. È nato a Sesana, che è nel Carso, presso il confine… se non sbaglio oggi sarebbe Slovenia. È nato nel 1924, siamo coetanei. Di lui mi colpisce questa sua tendenza a esprimere esperienze, emozioni, sentimenti in un modo memorabile. È una specie di definizione della poesia: esprimere delle esperienze in modo memorabile. Quindi penso che meriti di essere identificato come poeta. Ricordo che lui è molto vigile al mattino, anzi alle ore prima della luce, dello spuntare del sole, per carpire delle parole disposte in un certo ordine. Quello che per sé disposte come solitamente sono disposte non si riesce a carpire, ecco. Gode a offrire un buon nutrimento. Pensando a lui come poeta e come educatore mi attengo a una definizione di educare cara ai latinisti, che dicono che c’è un’origine del verbo educare in latino che non porta tanto come si fa di solito a educere, cioè tirar fuori, ma educare nel senso di nutrire, di far crescere. Quindi educare nel senso profondo del verbo. So che lui incontrò e l’incontro fu memorabile… per lui gli incontri sono stati sempre molto importanti nella sua vita, soprattutto se l’incontrato era don Zeno…


di Nomadelfia?

Sì, il fondatore di Nomadelfia. Segue don Zeno Saltini soprattutto dopo la Liberazione. A Fossoli dove ha fatto una specie di invasione del campo non di sterminio ma quasi, diretto dalle SS in quel di Modena. E poi lo segue a Nomadelfia, nome convenzionale della città dove nomos, cioè legge, è la fraternità. Poi segue le vicende di Nomadelfia e da solo va in Sicilia, nel 1952, ancora relativamente giovane. A Trappeto, a Partinico, c’è questa sua consociazione con una del luogo… è una famiglia. E poi comincia a pubblicare, come sociologo, di una sociologia non tanto teorica ma obiettiva, insomma… di chi racconta la sua città non tanto come dovrebbe essere ma come si presenta, appunto per farla essere. Pubblica nel ’56 Inchiesta a Palermo. Penso si possa dire che ha le carte in regola come sociologo. E nel ’60 Spreco. Anche la scelta del titolo è molto indicativa di certe problematiche che lui affronta con criteri che mi dicono siano scientificamente corretti. Intraprende forme di lotta non violenta, e ormai diventa più che noto, direi famoso in Italia e fuori di Italia, per certi scioperi della fame e per certe occupazioni di terre, che lo trovano impegnato anche nella sua corporatura. Tenderà poi avanti negli anni a ingrossarsi.

Negli anni ’80 lo incontro a Barbiana, nel Mugello, e assieme con me fa memoria di don Lorenzo Milani. Ci troviamo insieme, lo incontro quando dopo il finir della notte che lui ha trascorso componendo poemi, poi si riprende, ecco e conversiamo penso si possa dire fraternamente, amichevolmente. Poi ci saluteremo e lo risaluterò a Bologna, quando diventerà dottore honoris causa in Scienze della formazione. Questo dico per notare che nel suo atteggiamento c’è qualche cosa che paradossalmente è vorrei dire austroungarico, cioè molto compassato. So che quando usciva dall’aula grande dell’Alma Mater Studiorum, cioè l’Università di Bologna ci abbracciammo e lui si scusò dicendo che l’avevano praticamente spinto ad accettare. Sapevo, non avevo bisogno di conferma, che non era un atteggiamento così convenzionale. Aveva preso la cosa sul serio, come il conferimento di una responsabilità, non solo di un impegno, ecco…

 

.e poi?

Più volte mi sono chiesto se il mio fratello e amico fosse religioso, e questo implica la famosa questione oggi non ben risolta di che cosa voglia dire religione. Secondo me Danilo pensa a quella definizione che è popolare, era quella di mio padre: «non c’è più religione», che si dice non tanto quando si vede una chiesa vuota la domenica, ma quando non c’è più il collante, cioè qualche cosa che ci fa popolo. Èstato notato che nella Bibbia Israele, anche quando lotta con Dio, addirittura litiga con Dio, parla al plurale. È difficile che sia il singolo che si lamenta, sono insieme a lamentarsi con Dio, a litigare con Dio. E così lui sente la religione come un collante che abbia funzionato nella consapevolezza che questo sentimento, senso religioso, sta soffrendo un mutamento che va alle ragioni della sua esistenza. E senz’altro lui desidera una religione che si integra sia in una dimensione verticale verso un altissimo, onnipotente buon Signore, lo diciamo in un modo gradito a Francesco d’Assisi, ma anche in dimensione orizzontale e viceversa, insomma… quindi non c’è una scelta per Dio o per Cristo, ma per un Dio che conduce al Cristo e per un Cristo che conduce a Dio. Mi sembra animata, questa religiosità, da un ascolto silente. Ecco questa sua preferenza per quelle ore mattutine che gli consentono di rifornirsi, diciamo, di energia spirituale profeticamente accentuata. Questo senso profetico secondo me lui lo eredita da don Zeno Saltini, cioè persone che si sono adoperate come si suol dire sul campo, dal punto di vista educativo, dal punto di vista politico. Però sempre come per un incarico, come per una responsabilità di un annuncio. Profetico non nel senso che pretende di predire il futuro, chiaramente, ma nel senso appunto di consapevolezza di una chiamata a questo impegno. Quindi un silente ascolto profeticamente accentuato.

 

ma io, nella mia indescrivibile ignoranza, ti chiederei un’immagine inedita di Danilo Dolci educatore. Che cosa ti evoca la sua educazione?

C‘è un tratto che me lo fa rassomigliare molto a don Lorenzo Milani. E cioè che sia don Milani sia lui imitano Socrate…

 

la maieutica

Sì, ma se si trattasse dei miei atteggiamenti, di uno che è abituato a certi giochi drammatici e quindi a fare l’imitazione di Socrate, con tutto il rispetto… ecco, io lo faccio con un intento di sorriso, mentre uno come Danilo lo fa sul serio. Con questa insistenza nel trarre dal chiosco spirituale la verità, una verità che è lì e occorre favorirne la fuoriuscita, ecco… quindi non si tratta di un a priori, di una posizione filosofica, di una posizione metafisica, che lui sappia in un modo arcano che lì c’è qualche cosa, ma lo intuisce e quindi si tratta di favorire questa estrazione. E penso soprattutto a quelle esperienze forse più sofferte di lui, quando va in Sicilia a Trappeto, a Partinico e quando ci vuole pazienza per mettere un soggetto nelle migliori condizioni per esprimersi. E allora, ecco, questo è un tratto caratteristico suo, di una fiducia anche in una tecnica maieutica sofferta. E poi mi sembra di notare questo presagio di uno scontro con la società… non penso che lui abbia sofferto per non avere chiesto il favore… ma può darsi che un poco più di gradevolezza avrebbe potuto aiutare a sostenere certe posizioni. È un’esperienza che io conosco molto da vicino. Anche perché a volte, lo dico in un modo un po’ romantico, pensi di avere di fronte un amico e invece hai un avversario, ma altre volte pensi di avere un avversario e invece non ti eri accorto che era un amico.

 

e una sua immagine inedita da poeta?

quando con …si può dire della sua famiglia acquisita, con un suo figlioletto era in automobile e allora il figlioletto gli chiese di potere assaporare direttamente il profumo dei fiori. Siamo in Sicilia, lui è uno che viene dal nord, quindi forse non si è ancora perfettamente abituato all’esplosione dei profumi siciliani, ecco… quello che per noi può sembrare una pausa poetica, per uno è il nutrimento quotidiano, insomma… quindi la poesia come quotidiano. Del resto penso che molto sia stato acquisito nelle motivazioni per la laurea honoris causa a Bologna. Non so come sia stato l’iter però… sì… poteva essere un personaggio non del tutto comodo da candidare e quindi ci sarà voluta una raccomandazione ma nel senso pulito e alto del termine.

 

esisterebbe anche una sua immagine inedita come poeta-educatore?

Mah… ecco, penso che la sua stessa corporatura, ma gli sarebbe stato molto difficile vivisezionare poesia, educazione, era lui che prorompeva, e quindi il momento poetico è momento educativo e il momento educativo è momento poetico. A rischio di sentirsi dire: «questa non è poesia ma è didattica», oppure: «questa non è più didattica ma è poesia». E quindi forse qui c’è qualcosa di idealistico, cioè di un ritorno ad una unità. È la famosa cantilena che dice che la filosofia si pone come pedagogia e la pedagogia come didattica, ma poi la didattica si risolve in pedagogia e la pedagogia in filosofia.

 

Dolci come politico ha avuto un po’ di fortuna?

Da un certo punto di vista vorrei dire che ha avuto la fortuna/sfortuna che si è cercato…non poteva rimanere deluso se non vedeva molti che accondiscendevano alle sue proposte, perché faceva il possibile per – come si dice in linguaggio corrente – dare fastidio. E d’altra parte bisognava evitare Scilla ed evitare Cariddi, evitare il rischio di adagiarsi in alcuni consensi popolari o il rischio di porsi come rivoluzionario. Nella situazione delle famose grosse ideologie del ’900. E secondo me, anche nella mia memoria, nel ricordo di lui, i ricordi più importanti per me sono proprio quelli in cui lui si è accorto che le ideologie non erano da temere perché si stavano dissolvendo come nebbia al sole. Perché in partenza proponendo dei progetti che risolvevano tutti i problemi si dimenticavano del problema della malattia del dolore. Che questa mancanza spaventosa… che però non spaventava più, quando un artista…. e ce n’era qualcuno… si preoccupava di chi soffre, del turbamento mentale, per esempio, di questo che non si materializza … dice «dove hai male?», ma non hai male da nessuna parte, non hai la febbre, non hai male alla testa però devi andare a scuola, ecco… Poi occorre, se mai è necessario precisare, che è stata una conoscenza varia, prima piuttosto a distanza e dopo personalmente, soprattutto a Barbiana

 

eravate comunque amici.

Penso di sì, anche se non era un’amicizia facile. Io ormai avanzavo negli anni, quindi non è che fossimo destinati ad un primo incontro particolarmente espansivo, ecco… ma per me fu molto importante conoscerlo nel quotidiano perché eravamo sistemati in modo molto primordiale. E io salutai con un aspetto anche di positività il fatto che lui partisse perché così io andavo a riposare grazie alla governante della scuola di Barbiana, l’indimenticabile reggitrice di quel luogo, nel giaciglio di Lorenzo Milani, prima occupato da Danilo…

e poi da Catti. Bellissimo, grazie.


 

 

 

 

2. Luigi Pedrazzi, Ricordo di Giuseppe Dossetti

[Intervista di Paola Furlan, 15 giugno 2006]

 

D. Andiamo alle origini della sua decisione di entrare nella competizione elettorale e di entrate in Consiglio comunale. Quali sono state le motivazioni con cui ha cominciato a partecipare ai lavori?

All’inizio di tutta la storia c’è la visita che Giuseppe Dossetti fece alla redazione de “il Mulino”, qualche mese prima delle elezioni del 1956. Abbiamo sentito suonare alla porta mentre c’era in corso una delle solite riunioni; lui si presenta e dice: “Sono Dossetti e credo che riceverò l’incarico di capeggiare la lista della Democrazia cristiana. Cerco qualcuno nell’ambiente del Mulino che voglia venire a discutere con me di tante cose!”. Ne abbiamo parlato tra noi in due o tre riunioni per sette, otto ore. Eravamo molto sgarbati e lo prendevamo in giro come persona troppo vicina alla Democrazia cristiana e al mondo clericale, mentre noi ci atteggiavamo a laici un po’ aggressivi. Anche quelli di noi che erano cattolici non erano mai stati democristiani e ci piaceva molto che venisse a cercare tra noi degli indipendenti di sinistra per la lista dei democratici cristiani. Comunque ne abbiamo discusso a lungo. Rimasi fin da subito molto ammirato nei suoi riguardi ed anche abbastanza colpito. Alla fine la redazione, perché allora anche noi avevamo una specie di linea-partito della rivista, decise che uno di noi entrasse in lista con Dossetti. In quell’occasione gli abbiamo chiesto: “Ma chi prenderesti?”. Dossetti rispose: “Sceglierei Pedrazzi!”.

Allora avevo solo 29 anni e durante queste riunioni ero stato piuttosto zitto ed un po’ in soggezione, perché Dossetti mi aveva colpito molto. Tutto è cominciato così.

Devo dire che in seguito Dossetti mi chiarì molte cose in un colloquio riservato a tu per tu. Mi disse che avremmo perso, che era impossibile che la sua lista vincesse le elezioni e che proprio la notevole campagna elettorale che si sarebbe svolta avrebbe sicuramente mobilitato di più i comunisti perché avevano molti iscritti al partito, mentre la Democrazia cristiana ne aveva pochi. Aggiunse anche che i comunisti erano in grado di svolgere un forte lavoro in città e che il suo partito l’avrebbe lasciato abbastanza solo. Mi disse però che anche se si profilava una sconfitta, lui avrebbe fatto comunque una bella campagna, perché gli avevano chiesto di presentarsi e di dire ciò che voleva. Così era libero di dire tutto quello che gli sembrava giusto per la città, pur sapendo che queste idee sarebbero state portate avanti solo da una minoranza. Devo ammettere che questa confidenza un po’ segreta mi affascinò, anche se durante i comizi non potevamo certo dire che avremmo perso. Intanto facevamo le nostre proposte, sperando di ottenere molto consenso, ma un vero e proprio consenso sulle proposte non ci fu. Quelle proposte riscossero molto rispetto ed attenzione da parte della maggioranza comunista che si accorse infatti che Dossetti, leader di quella campagna elettorale, era uno sfidante di qualità. In questo eravamo molto lontani dal clima di adesso, che vede maggioranza e minoranza delegittimarsi a vicenda – non dico a Bologna, ma in tutta Italia- e quindi allora le motivazioni di carattere politico-ideale furono molto forti. Devo aggiungere poi che noi del Mulino eravamo famosi per non occuparci molto delle cose amministrative della città. Si sapeva che a Bologna l’amministrazione era comunista e che lo sarebbestata a lungo, quindi ci occupavamo molto di più di tradurre libri americani ed europei, in una visione ed in un’ottica abbastanza internazionalista. A dire il vero, fino ad allora mi ero occupato più dell’Onu che non del Comune di Bologna. Proprio per questo mi piaceva la dimensione della campagna di Dossetti, così ideale e non ideologica, che non cadeva assolutamente nella trappola di prendere troppo sul serio i comunisti o i democristiani e, pur considerandoli delle forze storiche importanti, li riteneva però incapaci di far fruttare fino in fondo tutto il peso della loro storia. Un’altra cosa che mi piaceva era questa visione abbastanza relativizzante del conflitto politico, entrai quindi perfettamente soddisfatto nelle mie esigenze anche se questa linea era sicuramente piuttosto anomala rispetto a quella di chi deve fare il consigliere comunale.

 

D. Lei è stato in Consiglio comunale dal 1956 al 1964. Può parlarci della Bologna degli anni Cinquanta e di cosa succedeva allora in città.

Partiamo dal secondo punto. Angelo Salizzoni ed anche il cardinale Giacomo Lercaro, appoggiarono la proposta che Dossetti, tra l’altro già legato al cardinale da una vocazione di tipo monastico anche se laica, capeggiasse la lista democristiana. Dossetti obbedì a questa indicazione e dopo aver chiarito a tutti e due che non avrebbero vinto, gli fu risposto: “Basta che ti presenti, dì solo quello che vedi!”. Fu proprio questa libertà che convinse Dossetti a fare questa singolare esperienza di minoranza programmatica, ma proprio nello spirito della sua interpretazione del quadro internazionale. La guerra fredda era la cosa che Dossetti detestava di più, perché avrebbe voluto che nel dopoguerra, sia in Italia che nel mondo, continuasse in qualche misura la collaborazione antifascista e antinazista. C’erano tante cose da fare: la decolonizzazione in Africa e in Asia per la quale sarebbe stata opportuna una grande alleanza democratica per un’evoluzione ed un vero cambiamento. La cosa fallì completamente e non si poté farla! Nel 1947 cominciò la guerra fredda e proprio per questo Dossetti ritenne che a quel punto non ci fossero più le condizioni per continuare quell’impegno riformatore nel paese e nel mondo. Preferì lasciar perdere e seguire la via monastica. Comunque, mentre era attesa di poterla percorrere, mi venne richiesto di svolgere questo compito a Bologna. Dossetti s’impegnò a fondo perché era fortemente convinto che l’assurda richiesta di vincere il confronto amministrativo creava in realtà le condizioni di un forte e libero confronto ideale. Non c’era bisogno di litigare e quindi, anche di fronte all’invenzione dei quartieri, per cui quella campagna elettorale è passata alla storia, bisognava dire: “Qui ci sono dei comunisti e dei cattolici!”. Certamente c’erano anche i liberali, i socialdemocratici, insomma tutte le forze laiche della tradizione italiana e bolognese in particolare, nel consiglio comunale il confronto era quindi ideologico. La nostra idea era quella di creare un’altra istituzione, più vicina alla gente e più legata ai bisogni della vita quotidiana, con una partecipazione non necessariamente dei partiti o degli iscritti, sia pur presenti, ma che coinvolgesse anche i professionisti, le maestre, ecc. C’era quindi l’invito a discutere nei quartieri, anticipando quel bisogno di decentramento e di partecipazione che è stato molto più forte negli anni successivi.

Sia Dossetti che Achille Ardigò, suo principale collaboratore, condividevano questa visione dei quartieri insieme all’idea di migliorare il livello dell’amministrazione e dell’informazione dei cittadini. C’era soprattutto la speranza che si potesse fare un po’ dappertutto quello che era giusto fare; si sperava che chi era espressione di una forza popolare come i comunisti e di una tradizione solidaristica attenta ai poveri e agli umili come quella cristiana, avrebbero trovato un terreno d’incontro e di conoscenza dei problemi comuni per operare insieme. Per fare questo era necessario sfuggire agli ideologismi ed alle logiche che muovevano invece le forze politiche nazionali e dei rispettivi organismi molto politicizzati, come il consiglio comunale. Bisognava invece costruire una dimensione in cui le persone potessero parlarsi con più sincerità. Non so se nei quartieri si sia mai parlato apertamente e sinceramente, ma certo un po’ di più che altrove. La sfida era comunque indirizzata ad una posizione di pace, dove anche le forze che si credevano opposte potevano collaborare e magari fare insieme delle scoperte. Diceva infatti Dossetti: “State attenti che i rumori di catene si sentono in casa di tutti, in Russia ci sono catene, in Occidente ci sono catene; se abbiamo la consapevolezza di questo, saremo più umili e più disposti ad interessarci ai problemi comuni!”. Devo dire che questo piacque ad alcuni cristiani e anche ad alcuni comunisti, non a tutti, ma ad alcuni piacque molto e questo li fece camminare insieme. In tal senso, la campagna del 1956 determinò un’evoluzione maggiore all’interno dei comunisti bolognesi verso il riformismo e verso l’eurocomunismo, che non una maturazione della Democrazia cristiana. Il gruppo dossettiano si formò tra il 1956 e il 1960, ma poi non l’ho più seguito. Sono stato un dossettiano e quando lui si è fatto monaco ed è entrato a far parte del Concilio l’ho seguito nel suo percorso. Non mi sono fatto monaco, ma ho partecipato con attenzione ai lavori del consiglio. In quel periodo i consiglieri comunali, Angela Sbaiz, Fernando Felicori, Achille Ardigò e Giovan Battista Cavallaro hanno arrecato un contributo amministrativo notevolissimo. A mio parere, quelli sono stati gli anni migliori dell’amministrazione della città, diciamolo pure socialdemocratica in senso comunista-riformista.

 

D. Lei ha parlato di qualità dell’amministrazione. Come lo spiega questo fenomeno del buon governo?

Il fenomeno del buon governo ha origini lontane. Grazie a questa comune volontà di intenti per il bene della città durante quel periodo si sono fatte cose importantissime: la Fiera, la Finanziaria, i piani collinari, il piano del centro storico. Molte delle grandi scelte di allora sono state scelte bipartisan, comunque sempre partendo da un gruppo rimasto minoritario, perché il quadro nazionale escludeva che la Democrazia cristiana bolognese andasse in giunta. In realtà la collaborazione è stata molto forte. Il Partito comunista ha assorbito molte delle idee, delle istanze e delle competenze. Ad esempio, anche nel caso della Fiera, le collaborazioni sono state fatte tra le persone, quindi sotto questo aspetto Bologna è stata fortemente aiutata.

Credo davvero che quelli siano stati gli anni più gloriosi dell’amministrazione, anche grazie al fatto che c’erano molti soldi a disposizione, perché eravamo in piena fase di sviluppo espansivo di tutta l’economia italiana. Erano gli anni del boom: le tasse fruttavano parte delle entrate per lo sviluppo urbano, la città aveva delle fonti

fiscali; i trasferimenti erano molto generosi perché c’erano i soldi e lo stato li dava a chi faceva delle proposte a livello locale. Il Comune di Bologna proponeva molto ed otteneva molti finanziamenti. Allora, con tante risorse, è stato quindi facile e bello amministrare.

 

D. Secondo lei, fino a quando è durata questa particolare fortuna di Bologna?

L’anno che segna, a mio parere, la fine di questo clima un po’ mitico e magico della città, è il 1977. Il 1977 è un vero e proprio anno di svolta: la città modello, vetrina d’Italia, dove il gruppo democristiano, più cattolico-dossettiano che democristiano-doroteo, e i comunisti riformisti avevano saputo collaborare, ora mostrava delle crepe. Il 1977 svela che anche la lunga stagione di riforme, di sviluppo sociale ed economico ad un certo punto si esaurisce: diminuiscono le risorse finanziarie, si passa quindi attraverso una serie di crisi economiche più o meno gravi ed il comune comincia a fare più fatica. L’università è comunque la molla che fa esplodere il dissenso. Non sono solo i problemi sociali della città, ma tutti i problemi non risolti del 1968 a produrre con sette o otto anni di ritardo, il fenomeno del ’77 bolognese.

 

D. Quale fu l’influenza di Giuseppe Dossetti nel contesto politico bolognese e quali furono le reazioni al Concilio Vaticano Secondo?

Questo vale naturalmente per i bolognesi attenti a queste cose, quindi in particolare per Giuseppe Dozza, Guido Fanti, ed anche un po’ per Renato Zangheri. Devo dire che nell’ambito del Partito comunista, i due grandi protagonisti sono stati Dozza e Fanti. Dossetti li aveva impressionati fortemente come consigliere comunale, ma in seguito si dimise dall’incarico; chiese inopinatamente di fare il sacerdote e lo diventò dopo nove mesi di esami furibondi in seminario. A chi lo conosceva, sembrò un voler scomparire all’interno del clero normale e secolare della città, ma il suo diventare sacerdote coincise con la morte di Papa Pacelli e l’elezione di Papa Roncalli. Pochi giorni dopo aver celebrato la sua prima messa, Roncalli a Roma lanciò quest’idea “Ci sarà il Concilio, io convoco un Concilio ecumenico”. Va detto che Dossetti era una delle poche persone che da dieci anni auspicava un Concilio e che aveva studiato e fatto studiare cosa dire a Roma, quindi era preparatissimo, come a suo tempo era stato un ottimo membro dell’assemblea costituente, così anche al Concilio la sua esperienza fu molto influente e significativa. Era molto bravo, ma Papa Giovanni XXIII mise il Cardinale Lercaro come moderatore del Concilio insieme ad altri tre eminenti cardinali europei. Dossetti era il segretario di Lercaro e questo influì moltissimo sulle scelte, per così dire, procedurali del Concilio stesso. In modo particolare ebbe grande influenza la sua capacità organizzativa durante la prima e contrastata sessione dei lavori. Questa è una cosa che la storia del Concilio ha messo bene in chiaro e cioè che il ruolo di Dossetti fu determinante, così come lo era stato durante i lavori dell’assemblea costituente. I suoi interlocutori di allora erano soprattutto Palmiro Togliatti, Lelio Basso, Piero Calamandrei, mentre in Concilio erano i cardinali a tenere un ruolo di primo piano. Agli occhi dei comunisti, questo fece ingigantire di conseguenza anche la figura del Cardinal Lercaro, infatti il

vescovo di Bologna, che aveva parlato della Chiesa dei poveri, della pace, temi cari al cuore di tutti i bolognesi ed anche della sinistra, venne accolto dal Gonfalone, come vescovo della città, non solo della Chiesa di Bologna. Lercaro ne fu molto colpito e da quel momento si sentì quasi più di casa tra la popolazione di Bologna, che non all’interno di quella parte della Chiesa, anche bolognese, in agitazione per il timore che il Concilio avesse messo in movimento troppe cose. In chiesa si percepiva quindi un entusiasmo frenato nei riguardi del Concilio. Questo è un problema, non solo locale, che ha portato Lercaro a fare il suo famoso discorso in consiglio comunale e che insieme ad altri fattori ha contribuito alla sua rimozione dalla sede di Bologna e quindi a bloccare questo processo. E’ stata comunque un’altra occasione in cui il dialogo tra cattolici e comunisti ha avuto grande importanza, anche se non tutta la Chiesa italiana e non tutto il comunismo italiano si è riconosciuto in quest’esperienza. Questo ha quindi rappresentato per Bologna una gloria ed insieme una sconfitta.

 

D. Come ha reagito Bologna alla guerra del Vietnam?

Permettimi di dire che questa guerra ebbe una ricaduta internazionale. Quando scoppiò, ci rendemmo conto che non c’erano soltanto i problemi come li vivevamo noi italiani, c’era la consapevolezza che gli americani stavano bombardando noi e il Vietnam! La preoccupazione per la pace era grande, sia nella sinistra comunista, sia tra tutti i giovani americani che chiedevano in massa la fine dei bombardamenti ed il ritiro dal Vietnam. Tutta la gioventù italiana di sinistra non voleva quella guerra e quello che fermentava qui a Bologna ebbe un significato ed un’eco molto vasta. Questa fu una delle cose che contribuì a dare alla nostra città un profilo ed un carattere di eccezionalità. Allora Bologna venne vista, all’Italia e all’estero, come una città in grado di anticipare – magari rimanendo in seguito travolta dalla sua stessa originalità – dei movimenti che sarebbero poi venuti avanti. Invece questo non è accaduto ed ha provocato in seguito dei “ritorni”, che hanno bloccato e appesantito la vita della città. Gli ultimi vent’anni del Novecento portano il segno di queste sconfitte, per cui anche se il Concilio Vaticano Secondo è stato un grande evento del Ventesimo secolo, a livello mondiale non ha dato i risultati che si potevano sperare. Certamente all’interno del movimento cattolico di tutto il mondo ha comunque rappresentato uno vero spartiacque.

 

D. Cosa ricorda della nascita dei quartieri a Bologna e dell’esperienza di aggiunto del sindaco nel quartiere Mazzini?

Dopo una lunga fase giuridica d’impostazione, finalmente i quartieri furono in grado di funzionare non con l’elezione dei consiglieri e dei presidenti, ma secondo una riproduzione degli equilibri esistenti all’interno del consiglio comunale, quindi si trattava di una forma di elezione di secondo grado. I presidenti dei quartieri venivano infatti designati dal sindaco come suoi aggiunti. Durante una certa fase di questa esperienza, non la primissima, la Democrazia cristiana accettò di proporre i nominativi di alcuni bolognesi che potessero presiedere i quartieri pur essendo in minoranza. Quando mi chiesero di occuparmi del quartiere Mazzini non potei rifiutare in qualità di vecchio partecipante dell’esperienza amministrativa del 1956 e

1960. Allora il quartiere Mazzini era in fortissima espansione: non c’erano tutte le case che ci sono adesso, il Fossolo non c’era ancora e neanche tutti gli stradoni che ora lo collegano a San Lazzaro, ma era un bellissimo quartiere in crescita! Mi ricordo molte riunioni di progettazione con l’assessore di allora, Giuseppe Campos Venuti, che veniva a spiegarci i piani regolatori. È stata un’esperienza molto interessante. Non avevo una maggioranza, perché ero sindaco di minoranza, ma questo non voleva dire niente, perché lì veramente la collaborazione tra di noi era fortissima. In particolare andavo d’accordissimo con il capogruppo comunista, un funzionario dell’azienda del gas che incontravo quando andavo a pagare le bollette. Allora c’erano grandi dibattiti, anche fino alle due di notte! L’esperienza per me più significativa fu quando non avevamo soldi, non avevamo risorse da amministrare e quindi non potevamo fare delle proposte. In quel momento non sapevamo come rispondere alla pressione delle mamme che, come in altri quartieri, ci chiedevano di risolvere il problema dei trasporti per i loro bambini. Infatti non c’erano autobus che arrivassero nelle poche scuole che si stavano aprendo allora, un po’ disagiate. L’azienda del tram aveva però l’abitudine di affittare autobus alle persone che volevano andare a ballare nei dintorni e allora, appellandomi a questa possibilità, ne affittai uno per i giorni della settimana per raccogliere i bambini e portarli fino a scuola. Il problema però era come pagare l’autobus, quindi bisognava che le mamme accettassero di pagare il biglietto. Anche se non avevamo nessun diritto di fare questo, le mamme lo vennero a pagare in quartiere e se c’era qualcuna che non lo pagava, me lo venivano a dire. Mi dicevano: “Il bambino è salito, ma la mamma non aveva il bigliettino, il tagliando, il tesserino!”, senza però dirmi il nome. Insomma, ce n’era qualcuno che non pagava, ma non tanti. Alla fine dovetti andare io a fare il controllore sull’autobus. Chiedevo al bambino: “Ma dove hai la tesserina? Come mai? Oggi passa, ma domani dì alla mamma…!”. Insomma questa cosa mi rese popolarissimo. Venne addirittura un comitato di madri per dirmi: “Non so se lei si vorrà mai candidare, ma se lo farà, avrà il nostro voto anche se fosse nella lista che non voteremo, perché non credevamo davvero che sarebbe venuto alle 7 del mattino a farsi il giro!”. E invece devo proprio dire che per me fu un’esperienza molto bella e mi convinse del fatto che amministrare non è solo un compito gravoso! Avevo sempre sostenuto la diffusione, per così dire, delle “alte idealità”, però devo ammettere che nello sforzo amministrativo c’è un elemento di grande concretezza, sia pur riduttiva. Questa fu una cosa memorabile e ancora adesso qualche volta rivedo quelle mamme, molto invecchiate e ormai nonne, che si ricordano di aver visto il sindaco fare l’ispettore dell’autobus per i loro bambini!

 

D. Nel 1946 per la prima volta in Italia votano e vengono elette le donne. Quale fu la loro attività ed il loro contributo all’interno dell’amministrazione?

L’ingresso delle donne fu una cosa molto bella, anche se noi non ce ne accorgemmo, precedette il movimento femminista, che poi abbiamo conosciuto 20 anni dopo, ma la consapevolezza ideologica di questo non era stata molto larga e diffusa, nemmeno tra le donne stesse. La qualità della presenza femminile si avvertiva, in modo particolare nella maestra Anna Serra del gruppo democristiano,

veramente straordinaria e molto materna, come lo sono le maestre donne: seria, severa, ma un vero tesoro, capace di grande concretezza e di lavoro continuativo! In questo mi ricordava un’altra donna un po’ dura, Adriana Lodi, che invece era dell’altro gruppo, una donna di straordinarie capacità nell’affrontare i problemi. Certo, anche tra gli uomini ce n’erano di serissimi, ma la continuità e la qualità dell’impegno della maestra Anna Serra e di Adriana Lodi mi colpì. Sarà che avevo avuto il bellissimo esempio di una nonna operaia, che aveva fatto la fortuna della nostra casa lavorando venti ore al giorno nel forno di famiglia, la ditta Stella Pedrazzi, diventata poi famosa nella fabbricazione del pane e dei tortellini. Mia nonna li spediva in tutta Europa per posta aerea. Negli anni Trenta noi Pedrazzi eravamo fornitori quando gli aerei erano dei veri baracconi volanti, ma non so come la nonna riusciva a mandare per posta aerea in Svezia e in Danimarca, i tortellini freschi non quelli secchi di adesso. Capivo già allora che c’è qualcosa nella donna che lavora e s’impegna nella società, che ci vorrebbero quattro o cinque uomini per fare quello che fa una donna di quello stampo. E mi pareva che la maestra Serra ed Adriana Lodi, pur su sponde opposte, attingessero allo stesso patrimonio di femminilità operosa, che avevo conosciuto anche nelle campagne durante lo sfollamento nel nostro Appennino. Insomma, penso che molti abbiamo trascurato o sottovalutato l’apporto delle donne alla vita politica e trovo quindi vergognoso che si debba ricorrere oggi alle quote rosa, solo perché il filtro maschile che le tiene fuori da certi ambiti continua ad essere operante! Mi fa veramente piacere sottolineare questi dati e che per la prima volta nel secondo dopoguerra le donne abbiano votato.

 

D. Sempre parlando del contributo delle donne, cosa ci può raccontare di Angela Sbaiz?

Giuseppe Dossetti, oltre che venire al Mulino, andò anche nello studio Redenti e Carnacini perché voleva avere con sé dei maestri del diritto bolognese, ma sia per l’età che per impegni professionali, questi due luminari del diritto proposero una loro assistente molto in gamba, una collaboratrice donna dello studio. Angela Sbaiz era allora molto più giovane di quello che poi è stata nei venti e passa anni di vita in consiglio comunale. È stata eletta in quattro o cinque mandati ed ha contribuito moltissimo alla strutturazione dei quartieri, alla stesura di molte delibere anche di carattere amministrativo. Direi che è stata una specie di assessore esterno in alcune giunte. Era di casa, aveva una grande autorevolezza ed i suoi pareri erano d’oro!

Friulana di origine, era anche lei una donna asciutta e dura, innamorata delle idee di Dossetti e quindi anche più ingenua di me. Ha continuato a lavorare in consiglio comunale anche quando ormai le indicazioni del lavoro ideale di Dossetti si erano modellate sul concilio. Pur ammirandolo, era rimasta tuttavia collegata a questa scoperta della città, a questa dimensione, che direi fosse condivisa da Guido Fanti, il sindaco, poi presidente della Regione. Anche a lui piacque moltissimo lo spirito di quella stagione e credo che il decennio dell’esperienza di collaborazione con i cattolici sia stata complessivamente la cosa più bella della sua vita. In seguito l’ha portato anche ad una sconfitta, perché in realtà si trattava di un Ulivo anticipato di quindici, vent’anni. Negli anni successivi lo stesso Partito comunista ha seguito una

linea che non ha consentito l’esplosione del riformismo emiliano a livello nazionale. È stato controllato, anche perché i tempi erano duri, sull’uno e sull’altro fronte.

 

D. Lei è stato vicesindaco dal 1990 al 1995 con il sindaco Walter Vitali, cosa l’ha spinta a questa nuova esperienza e con quali risultati, quali tracce?

Walter Vitali mi conosceva bene, avevamo una certa simpatia, ma l’elemento fondamentale era che ormai tutti i dossettiani erano morti, non c’erano più. Gli unici sopravvissuti eravamo io e Achille Ardigò, che lavorava già all’Ospedale Rizzoli e ricopriva un incarico importante. Senza togliere nulla all’affetto per la scelta fatta da Vitali, devo però dire che in pratica le parole furono: “Non più uno sconto”. Ma insistette, e mi sembrò che, come ero andato al quartiere Mazzini a pagare il mio obolo di fedeltà ispirato ad un progetto, ecco che anche in quel momento mi pareva opportuno accettare. A questo punto, avevo più di 60 anni. Rispetto alla prima esperienza erano passati 40 anni, dal 1956 al 1995, mi parve quindi opportuno accettare questo mandato come conclusione, ma chiesi di non avere nessuna delega.

Ancora una volta non volli fare l’assessore, né avere responsabilità. Mi toccò di sorbirmi molte riunioni del consiglio comunale, perché a questo punto Vitali per farmi star lì mi fece fare le mansioni di vicesindaco. L’aver sentito il 90 per cento delle cose che si sono dette in consiglio comunale tra il 1995 e il 2000 è stata un’esperienza importantissima perché ho capito fino in fondo il grande declino delle istituzioni politiche nel nostro paese rispetto ai quarant’anni precedenti. Ora, personaggi come Umbro Lorenzini, Athos Bellettini, Armando Sarti, indipendenti come Oliviero Mauro Olivo e Giovanni Favilli, non li ho più sentiti, neanche tra i popolari. Non c’erano più i democristiani, non era più la stessa cosa di allora: il tipo di dibattito, i nostri consigli comunali affollati, la poca gente che allora usciva per andare alla buvette. Dal 1995 al 1999 non c’erano mai più di cinque o sei persone in consiglio, erano tutti a chiacchierare alla buvette ed ognuno parlava per sé, non c’era l’ascolto collettivo in sala. Ai nostri tempi invece, si cambiavano le opinioni a seconda di quello che dicevano i consiglieri e si spostavano i voti. Dopo mi sembra che non sia stato più così, c’è stato un calo di partecipazione che non si vedeva solo all’esterno, ma quasi più dentro che fuori. È stata un’esperienza formativa interessante, anche se deludente, ma credo che anche le delusioni facciano parte della formazione seria che bisogna vivere!


 

Category: Osservatorio Emilia Romagna, Osservatorio sulle città, Politica

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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