Enrico Pugliese e Enrico Rebeggiani: Buio a mezzogiorno. Disoccupazione, povertà e spopolamento

| 2 Settembre 2019 | Comments (0)

 

1. Premessa

I risultati del voto alle ultime elezioni – quelle europee del 2019 e quelle politiche del 2018 – riflettono una situazione di profondo malessere sociale del Mezzogiorno legato alle generali condizioni economiche e sociali le cui origini non vanno ricercate in uno sciagurato destino del Mezzogiorno bensì in scelte politiche, tutte nella stessa direzione, che si sono susseguite negli ultimi decenni. Queste hanno espresso un disinteresse e una assenza di impegno in atto già da prima della cessazione dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno: misura all’epoca giustificata col fatto che le funzioni di quest’ultimo avrebbero potuto essere svolte meglio da interventi ordinari.

Si è assistito a una sistematica contrazione degli investimenti pubblici e privati, soprattutto nelle attività direttamente produttive e in particolare nell’industria, accompagnata da una gestione inefficiente dei fondi europei e in assenza di qualunque quadro di sviluppo economico. Non si è trattato solo di carenze nelle politiche di intervento diretto dello stato sul piano infrastrutturale, ma anche delle politiche statali volte a indirizzare e favorire settori produttivi destinati a far crescere l’economia e l’occupazione. E ciò ha favorito anche il calo degli investimenti privati.

Il Mezzogiorno è uscito dall’ambito della politica economica di tutti i governi che si sono succeduti con una sostituzione crescente delle politiche di investimenti produttivi con spese a carattere assistenziale che hanno trovato in quest’ultimo governo una piena formalizzazione. Modeste forme di sostegno al reddito hanno sostituito gli incentivi all’occupazione tranne, più di recente, quelli a carattere punitivo tipici dei sistemi di workfare. Il soggetto di riferimento non è più il cittadino lavoratore, ma il cittadino percettore di eventuali redditi a carattere assistenziale. Questo non vuol dire un potenziamento delle politiche sociali ma solo l’esistenza di una modesta versione monetaria di esse. Nel contempo i servizi sociali hanno pagato gravemente il costo di questo disinvestimento dello stato nel Mezzogiorno.

Si pensi alla riduzione generale del sistema di welfare con la contrazione delle politiche sociali previdenziali e assistenziali e alla sanità. Una novità che è sfuggita all’attenzione pubblica è stata poi la riduzione di sedi istituzionali (ospedali, tribunali, uffici periferici dei ministeri, sedi locali della Banca d’Italia ecc.) legata alla riorganizzazione e a una presunta razionalizzazione della spesa (consistente sostanzialmente in tagli). Ciò non ha inciso solo sui livelli occupazionali – e siamo convinti che non è l’occupazione che giustifica la persistenza di istituzioni in un territorio – bensì sulle condizioni generali e la qualità della vita.

Per effetto di queste scelte economiche sociali e istituzionali sono oggi osservabili cambiamenti radicali nelle gerarchie dei territori non solo per il peggioramento del dualismo Nord-Sud, ma anche per la marginalizzazione progressiva di intere aree del Mezzogiorno interno. Questi processi hanno avuto effetti differenziati nelle varie classi e strati sociali portando a una radicale trasformazione della composizione sociale della popolazione del Mezzogiorno.

Infine queste decisioni hanno finito per determinare anche la formazione di nuove classi e di nuove identità sociali soprattutto negli anni a noi più vicini. Per fare un esempio sul quale si tornerà in dettaglio più in avanti, l’insieme delle politiche sociali e il discorso politico dominante, con il progressivo slittamento dalle politiche riguardanti il lavoro e i lavoratori a quelle relative all’intervento sulla povertà, hanno portato all’emergere della figura del povero come soggetto sociale e come oggetto delle politiche, dimenticando un altro soggetto di rilievo: i lavoratori, più o meno poveri. Tutto ciò in un quadro di calo della solidarietà, che si esprime con forza anche nelle proposte attualmente in campo (l’autonomia differenziata in primis) così come descritte nell’articolo di Adriano Giannola in questo numero di Inchiesta.

Tornando alla affermazione iniziale c’è poco da sorprendersi per un voto all’apparenza irrazionale o ingenuo. La disperata volontà, speranza o illusione di uscire da un quadro sociale, economico e di precarietà esistenziale quale quello della vigilia elettorale aiuta comprendere la scelte di voto per una prospettiva – illusoria, ma non è questo il punto – di cambiamento radicale di sistema politico che, per volontà di alcuni e incapacità di altri, è stato all’origine delle condizioni della gente. Non si possono comprendere le scelte elettorali radicali e contraddittorie di vasti settori della popolazione meridionale in particolare di quelli più svantaggiati se non si tiene conto della realtà delle condizioni sociali del Mezzogiorno e della perdita di legittimità della struttura di potere economico e politico ma anche dei cambiamenti nella composizione sociale

È tuttavia vero che insistere sull’analisi del voto, con attenzione ai flussi elettorali e ai cambiamenti contingenti, può essere alla fine fuorviante perché fa perdere di vista il quadro generale così come, d’altro canto, lo è il ricorso a interpretazioni buone per ogni stagione come la «cieca rabbia popolare» o la volubilità del voto in queste regioni.

 

2. L’eredità politica dei governi precedenti e la svolta del 2018

Questo per non parlare del populismo, che accomunerebbe l’ideologia e i programmi politici dei leader e la visione prevalente della gente che nel Mezzogiorno li ha votati. A parte il fatto che – come ha scritto Carlo Ginzburg su Repubblica – usare questo termine per i vincitori delle ultime elezioni è un’offesa alla grande esperienza del populismo russo (e si può aggiungere a quello americano della populist revolt di fine Ottocento), è proprio l’uso di un concetto acchiappa tutto che non funziona. Basti solo pensare che di populismo sono stati accusati nel corso del tempo Berlusconi, Renzi, Salvini, Di Maio e finanche Landini

In tutto quel che sta succedendo nel Mezzogiorno il populismo – qualunque cosa con questo termine si voglia intendere – c’entra ben poco. E, per quel che riguarda la rabbia popolare nel Mezzogiorno, non è che manchino i motivi legati a fatti e realtà nuovi o in atto da tempo per il percepibile risentimento di massa ma la spiegazione che si limita a questa considerazione rimane generica. Sarebbe più utile individuare da una parte i bisogni e le aspirazioni frustrate nella popolazione meridionale, i soggetti che più hanno sofferto per la involuzione della situazione da un lato e, dall’altro, le istituzioni e le strutture di potere contro cui quali si rivolge questo risentimento e i suoi motivi specifici. Nell’interpretazione del voto andrebbe poi tenuto conto oltre che della rabbia, anche di un altro aspetto: la speranza. Fattore che l’offerta politica di almeno uno dei partiti vincenti è riuscita ad attivare (Il partito del M5s con l’intervento noto come «reddito di cittadinanza»). Secondo un principio espresso una volta da Ciriaco De Mita (e citato da Carmelo Bene e Giuseppe di Leva in Adelchi: o della volgarità del politico) «Il consenso non si basa sulla gratitudine ma sulla speranza». E negli ultimi decenni di speranza i grandi e piccoli partiti tradizionali operanti al Sud ne hanno offerta ben poca. L’assenza di gratitudine non è una caratteristica morale ma semplicemente il risultato del fatto che non c’è, e non ce ne è stato più motivo data la riduzione progressiva nel Mezzogiorno delle opportunità e delle prebende fornite dalla tradizionale struttura clientelare, sempre più priva di risorse, ereditata dalla Democrazia cristiana.

Per quel che riguarda la sinistra il processo è stato analogo. Ma con un nota aggiuntiva. I governi a guida PD, in particolare il governo Renzi, non hanno in alcun modo rappresentato una alternativa, né si sono avveduti del crescente generale malcontento delle regioni del Sud. Ciò aggravato dal fatto che vaste aree di consenso clientelare, che a livello locale si erano trasferite nell’area del Pd, sono anch’esse andate indebolendosi. E questo ha contribuito al peggioramento di un’immagine della sinistra che peraltro andava sempre più allontanandosi dai suoi valori e dalle esigenze della sua base di massa tradizionale.

Qualche tardivo intervento a sostegno delle attività produttive annunciato da esponenti del governo

Gentiloni è stato frustrato dalla caduta del governo. Per quel che riguarda l’immagine della sinistra ben più forti di queste inversioni di tendenza sono state le affermazioni antimeridionali dell’allora premier Renzi che hanno irritato ulteriormente quel che rimane del sempre più ristretto popolo di sinistra. L’attacco ai lavoratori con il jobs act e la pretesa di risolvere la questione della disoccupazione giovanile attraverso politiche di flessibilizzazione ha fatto perdere qualunque speranza ai giovani meridionali. Le condizioni in cui lavorano quelli che hanno avuto la fortuna di trovare un’occupazione ovunque e comunque essa si sia presentata sono la dimostrazione da decenni della loro effettiva disponibilità.

Questo malessere sociale e questa perdita di speranza si esprime anche in una delle novità rappresentata dalla nuova emigrazione, di massa e soprattutto giovanile dal Mezzogiorno. Di questa emigrazione se ne parla come di una fuga di cervelli mentre si tratta anche e soprattutto di fuga di braccia – cioè della componente proletaria e popolare, giovanile e non. Dei nonni di questi nuovi migranti nel dopoguerra si diceva che «votavano con i piedi, cioè andandosene» Questo era il motto che compendiava il giudizio politico sul comportamento dei braccianti e dei contadini meridionali sconfitti nelle lotte per la terra e per il lavoro e costretti a emigrare. Andarsene e così «votare con i piedi» con atteggiamento critico e di denuncia come fecero molti dei protagonisti dell’emigrazione storica non è una uscita particolarmente silenziosa: è accompagnata da proteste, da insofferenza, se si vuole anche da rancore e dalla mobilitazione delle organizzazioni formali e informali degli emigranti. Anche per i protagonisti della nuova emigrazione il voto con i piedi è una forma di protesta, di voice per usare lo schema hirshmaniano, l’andarsene evoca la seconda alternativa dello schema, quella di exit.

Sicuramente i protagonisti di questa partenza così come i protagonisti del non voto esprimono un deciso malcontento per lo stato di cose esistenti. D’altronde si può ricordare per inciso che nell’analisi Hirschman le opzioni voice e exit non sono mutualmente esclusive ed egli ne parla proprio a proposito di emigrazione.

Concludendo rimane preoccupante e bisognoso di una spiegazione il voto al Sud per il partito della Lega, che ancora nel suo statuto all’art. 1 ha l’obiettivo della secessione. Per spiegare la diffusione – per altro relativa – nel Mezzogiorno della simpatia per un partito che si fonda su pregiudizi e pratiche antimeridionali bisogna fare ricorso a uno schema interpretativo capace di tener conto delle diverse dimensioni del fenomeno Salvini e delle diverse versioni che il personaggio dà di sé e del suo progetto politico: immagini non sempre coerenti ma proprio per questo efficaci perché rivolte a settori diversi di pubblico.

Questo orientamento all’apparenza paradossale non ha caratterizzato solo componenti popolari più povere e marginali alle quali la Lega si presenta come radicale alternativa e vendicatrice delle ingiustizie, né chi sta gestendo la tessitura dei rapporti con clientele meridionali esistenti o in formazione legate, come si è già visto, anche alla criminalità organizzata. C’è un’area più larga che in parte si sovrappone a quelle prima citate per le quali i discorsi del leader leghista riescono ad attivare e a dar corpo all’aggressività: persone di diversa classe sociale che trovano spesso negli immigrati il capro espiatorio e sulle cui angosce, paure e frustrazioni si fonda la accettazione di quei messaggi punitivi salviniani.

Tutto questo corrisponde anche a un progressivo scollamento tra condizione di classe e appartenenza politica, una progressiva riduzione della stabilità politica legata alla condizione di classe, ben evidente nella crisi di quel che resta dei partiti della sinistra investe tutta la società al Sud come al Nord.

 

3. Ascesa, trasformazione e declino del proletariato meridionale

Industrializzazione e de-industrializzazione. Per quel che riguarda il Mezzogiorno, un fattore di rilievo da questo punto di vista è stato il fatto che negli ultimi decenni si è consumata la crisi della grande esperienza di industrializzazione fondata sulla industria moderna di grandi dimensioni, metalmeccanica, siderurgica e chimica. Pochi, e tuttavia di rilievo, sono i casi di industrie legate a quell’esperienza ancora in piedi: industrie che hanno dato una profonda connotazione all’economia di interi territori. A partire dalla fine degli anni ‘70 un intenso processo di de-industrializzazione ha riguardato proprio le aree industriali più significative. Si è trattato di un fenomeno contemporaneo a quello di ben più vaste dimensioni ma con notevoli analogie realizzato nel Nord-ovest del Paese. E allo stesso modo che nel Nord la crisi si è manifestata con chiusure e con processi di ristrutturazione e trasformazione industriale legati a nuovi investimenti in diversi momenti e in diverse aree e rami dell’industria. In definitiva, l’esito complessivo del processo è che l’occupazione industriale e il contributo dell’industria alla formazione del reddito si sono ridotte.

Proprio per la complessità del processo vale la pena di portare avanti l’analisi partendo da un periodo lontano, gli anni ‘60, giacché l’industrializzazione che ha avuto luogo in quegli anni ha avuto un grande rilievo per la trasformazione delle classi sociali del Mezzogiorno. Sono gli anni della massima intensità dell’intervento straordinario il cui asse principale era costituito dagli investimenti industriali, sia privati, con consistente incentivazione pubblica, sia delle industrie a partecipazione statale.

Con lo sviluppo della nuova industria– non solo quella di grandi dimensioni– si determinò nel Mezzogiorno la formazione di nuclei di classe operaia assolutamente interni e omogenei alla classe operaia del resto del Paese. A livello di egemonia politica e di rappresentanza sindacale i nuovi operai meridionali presero il posto occupato precedentemente dal bracciantato che aveva rappresentato la maggior parte del proletariato meridionale e che si era andato progressivamente riducendo sia per effetto della ristrutturazione tecnologica dell’agricoltura sia – ad essa legata – per l’emigrazione interna e verso l’estero.

Questa presenza di una nuova classe operaia – che in alcune aree, come quella di Napoli, si affiancava a nuclei di occupazione operaia preesistente – divenne protagonista della vita sociale e politica del Mezzogiorno fino agli anni Ottanta. Questo non solo contribuì alla riduzione del divario Nord-Sud, ma contribuì alla crescita civile del Paese in quella che ha rappresentato la più significativa fase di coesione interna. Nel Mezzogiorno, così come nel resto d’Italia si verificarono anche importanti processi di mobilità sociale grazie alla scolarizzazione di massa iniziata con la riforma della scuola media unificata e proseguita negli anni successivi con un forte allargamento dell’accesso alle superiori.

Con i fenomeni di de-industrializzazione che seguirono non tutti i rami dell’industria vennero colpiti allo stesso modo, così come non tutte le grandi imprese. Ma nella lettura dominante del fenomeno sembrava che tutta la grande industria fosse destinata a questo esito giacché la connotazione di «cattedrali nel deserto» venne attribuita a tutto l’intervento pubblico, sia quella a partecipazione statale, sia quella privata.

Non mancarono investimenti fallimentari. Ma questo non significa che tutta quella fase di industrializzazione fosse fallimentare. Esempi significativi sono alcune industrie che hanno proseguito la loro esistenza fino ad anni recenti e che sono in grave difficoltà ora, anche e soprattutto per effetto dell’assenza di una politica industriale. A ciò va aggiunta la mancanza di linee di intervento e di sviluppo in alcun ambito: una politica infrastrutturale, una politica in difesa del suolo e in generale dell’ambiente, una politica urbanistica. Questioni queste ultime che hanno messo in luce la gravità di quanto è accaduto con l’eliminazione dell’intervento straordinario e della cassa per il Mezzogiorno e il malfunzionamento delle amministrazioni regionali che hanno ereditato quelle funzioni.

Non è un caso che a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 comincia a diventare significativa nel Mezzogiorno la disoccupazione con la sua principale connotazione giovanile e con una significativa

incidenza della componente scolarizzata. D’altronde neanche negli anni di sviluppo virtuoso del Mezzogiorno si erano mai a raggiunti tassi di occupazione comparabili con quelli del resto del Paese. A partire da quegli stessi anni l’importante processo di ingresso delle donne nel mercato del lavoro, diventato nel corso degli anni sempre più intenso, si tradusse anche in un contributo della componente femminile anche alla disoccupazione meridionale.

Mercato del lavoro e occupazione. Negli ultimi venti anni l’andamento del mercato del lavoro e dei livelli di occupazione nel mezzogiorno, così come in Italia è stato tutt’altro che lineare. Per quel che riguarda il Paese nel suo complesso si è avuto un incremento costante degli occupati nel periodo fra la metà degli anni ‘90 e la metà degli anni 2000 in concomitanza con una modifica della struttura dell’occupazione e l’aumento dei lavori precari e del lavoro atipico. Si è passati in quegli anni da una situazione di elevati tassi di disoccupazione, oltre il 10%, a una riduzione significativa del fenomeno con valori mai registrati nei decenni precedenti, vicini al 6%, fra il 2006 e il 2008. Sempre nell’intero Paese gli occupati passano fra il 1996 e il 2008 da 20,8 milioni a 23 milioni. Per converso i disoccupati passano da 2,6 milioni del 1996 a un minimo di 1,4 milioni nel 2007. Come è noto la grande crisi di inizio secolo fa poi invertire queste tendenze per cui la disoccupazione torna a salire e supera i tre milioni fra il 2013 e il 2016, per poi attestarsi poco sotto negli anni più recenti. Ma questi andamenti aggregati contengono al loro interno dinamiche fortemente divergenti sia dal punto di vista demografico che dal punto di vista territoriale. Così, per quel che riguarda il periodo virtuoso di incremento dell’occupazione prima della crisi, il Mezzogiorno riuscì a goderne in maniera molto più modesta del Centro nord: per i lavoratori adulti (35-64 anni) il tasso di occupazione (Fig. 1) passò dal 50,9 al 53,6 al Sud mentre al Centro-nord dal 58% al 68%. Poi, negli anni della crisi, se al Sud riprende a calare, al Centro-nord continua ad aumentare, arrivando oltre il 70% negli ultimi anni. Come si vede il differenziale non solo è ampio, ma aumenta.

Per quanto riguarda gli aspetti demografici, il tasso di occupazione dei giovani (15-34 anni) in Italia, che dagli anni ‘90 era stabile intorno al 50%, cala progressivamente dagli anni della crisi, raggiunge valori intorno al 40% e poi su questa soglia si stabilizza fino ad oggi La differenza tra Centro-nord e Mezzogiorno, come si vede nella Fig. 2 è rilevante e si mantiene costantemente intorno al 20%. Di converso, la disoccupazione giovanile dopo il calo fino all’11% del 2007 risale drasticamente fino al 24% del 2014 per rimanere intorno al 20% negli ultimi anni. E anche qui il dato compendia due andamenti distanti: al Centro-nord si tocca un picco del 18,1%, nel Mezzogiorno del 37,9% (Fig. 3). Ma anche per gli adulti la disoccupazione incide al Sud in misura più che doppia (Fig. 4).

Bisogna ricordare che gli anni successivi al 2014 sono gli anni del Jobs act, intervento di politica del lavoro volto a ridurre drasticamente diritti sindacali degli occupati e a introdurre forme gravi di precarietà con la pretesa che tutto ciò avrebbe portato a un significativo incremento della occupazione, soprattutto giovanile. Le dichiarazioni dell’allora premier Renzi sul fatto che quell’intervento fosse risolutivo per la disoccupazione giovanile risultano ora paradossali e smentite dai fatti. Grave nel Centro nord, la disoccupazione giovanile continua a presentare livelli estremi nel Mezzogiorno, e l’unico effetto osservabile pare essere l’aumento dell’occupazione per gli ultra-cinquantenni e ciò ovviamente non per la creazione di nuovi posti di lavoro quanto per il fatto che in questa classe di età arrivano coorti di persone già occupate.

Questo per quel che riguarda i livelli occupazionali, per quel che riguarda invece la composizione per settore dell’occupazione, le tendenze in atto nel Paese e nel Mezzogiorno non divergono di molto: in ambedue i casi abbiamo una significativa riduzione dell’occupazione industriale che nel Paese nel suo complesso passa da circa 7 milioni a 5,3 milioni con una riduzione percentuale del 24%. Di proporzioni analoghe il calo dell’occupazione industriale nel Mezzogiorno che passa da 1,6 milioni a 1,2 milioni con una riduzione percentuale del 23%.

Cosa rimane della classe operaia al sud. Un discorso a parte merita l’analisi delle tendenze interne all’industria manifatturiera e all’edilizia. Nell’uno e nell’altro caso vi è stata una riduzione di occupazione significativa, ma nel Mezzogiorno la riduzione di occupazione nell’edilizia è davvero drastica e riguarda sia i lavoratori dipendenti che indipendenti. All’origine di questo calo c’è l’assenza di investimenti pubblici e la riduzione della domanda di edilizia privata.

Per concludere sull’industria, alla crisi dei grandi stabilimenti si è accompagnata una credenza, una ideologia relativa alla presunta incompatibilità tra lavoratori del Mezzogiorno e il lavoro industriale, assolutamente ingiustificata come dimostrano non solo i persistenti flussi di lavoro operaio verso il Nord, ma anche le realtà industriali che hanno continuato a esistere nonostante lo scarso impegno istituzionale. Si può pensare allo stabilimento Fiat di Melfi, all’indotto automotive in Puglia, all’elettronica di Catania o alla stessa cantieristica a Castellammare e alla stessa vitalità di piccole e medie imprese in settori come l’abbigliamento e l’alimentare.

Un breve riferimento merita la questione dei distretti industriali la cui problematica nel Mezzogiorno è stata affrontata in due modi contraddittori. Da una parte, a dimostrazione di questa grande capacità di sviluppo autopropulsivo lontano dall’intervento pubblico, si esaltò la presenza di piccole realtà industriali quasi che fossero un emblema del modello marshalliano, dall’altra in considerazione della modesta presenza e degli scarsi risultati dei distretti si è spostato sul piano delle caratteristiche culturali e morali del Mezzogiorno in particolare la mancanza di coesione sociale.

Il problema delle difficoltà dell’industria va invece individuato soprattutto in fattori meno evanescenti come il maggior costo del credito, lo svantaggio infrastrutturale, la presenza della criminalità organizzata. Quali che siano i motivi certo è che i numeri dei lavoratori dell’industria, di quello che ha rappresentato il nucleo forte della classe operaia si è ridotto innanzitutto numericamente e contemporaneamente si è ridotta la sua forza politica e sindacale anche per effetto della condizione di precariato che vivono le imprese dove erano o sono occupati. Insomma, è innegabile un declino numerico e politico della classe operaia industriale nel Mezzogiorno. E la riduzione dell’occupazione alle dipendenze nel settore industriale registrata negli ultimi decenni ben lo dimostra. Ma da questo a ritenere che la classe operaia industriale e in generale il lavoro industriale siano finiti corre parecchio. Il dato degli ultimi anni non è la riduzione del lavoro quanto il fatto che il lavoro sopravvive in un ambiente politicamente sempre più ostile.

L’occupazione alle dipendenze anche in condizione operaia si è invece estesa nel terziario pubblico e privato, dove la condizione di instabilità è aumentata; tuttavia in questo settore si osserva invece un calo dell’occupazione autonoma in pieno contrasto con quanto avviene nel Centro-nord. Ciò vuol dire che nel Mezzogiorno sia le nuove professioni sia la componente costituita dal lavoro autonomo di seconda generazione e il finto lavoro autonomo del «popolo delle partite iva» non riescono a compensare la diminuzione delle figure tradizionali nel commercio e nei servizi a causa della crescente aridità del tessuto produttivo. E una misura della crescente precarietà può essere riassunta da questo dato: negli ultimi dieci anni l’occupazione a tempo indeterminato cala nel Mezzogiorno del 9%, mentre al Centro-nord aumenta del 2% (Svimez, 2019).

Agricoltura e lavoro nero. Lavoro precario, salari di fatto largamente al di sotto dei minimi contrattuali e lavoro al nero rappresentano la cifra caratterizzante del lavoro dipendente in larga parte del settore privato nel Mezzogiorno, soprattutto nel terziario e nelle imprese di piccole e medie dimensioni.

Per quanto riguarda specificamente il lavoro nero, la sua concentrazione massima in termini assoluti e relativi si registra in agricoltura. I dati Istat sulle forze di lavoro indicano che l’occupazione è

rimasta grosso modo stabile negli ultimi 25 anni nel Mezzogiorno (-20.000 unità) mentre nel Paese nel suo complesso si sarebbe ridotta di 150 mila unità: riduzione concentrata negli anni ‘90 con livelli che poi rimangono sostanzialmente stabili negli anni successivi. Come risulta da molte indagini di campo, nel lavoro salariato in agricoltura è innanzitutto cambiata la composizione etnica prevalente dei lavoratori. Gli stranieri hanno esteso progressivamente la loro incidenza sul totale dei lavoratori agricoli.

Un dato grave e significativo è che le loro condizioni di lavoro e salariali hanno cominciato a riguardare sempre più spesso anche i lavoratori italiani del settore. Di questo si è resa conto con sorpresa l’opinione pubblica del Paese quando in Puglia si è verificata una tragedia: la morte sul lavoro di una giovane donna pugliese occupata nella raccolta della frutta. Questo episodio ha contribuito a fare chiarezza sulla situazione dei lavoratori agricoli dipendenti e a spostare parzialmente il discorso dalla retorica della schiavitù alla denuncia delle orribili condizioni di lavoro, compresa la nocività.

Uno dei paradossi della realtà sociale e economica del Mezzogiorno è rappresentato da quello che si può definire come nesso contraddittorio tra agricoltura ricca e manodopera povera. Proprio nelle aree agricole più sviluppate e caratterizzate da colture intensive ortofrutticole c’è una enorme richiesta stagionale di manodopera per occupazioni, precarie al nero, in particolare per la raccolta: operazioni in generale gravose e mal pagate. Originariamente nelle aree del Mezzogiorno interessate dal fenomeno l’occupazione agricola rappresentava la prima possibilità per gli ultimi arrivati, spesso irregolari, con una prospettiva di trasferimento altrove alla ricerca, spesso fruttuosa, di occasioni migliori. Ma dalla fine del decennio scorso si è verificato invece un processo di segno opposto. Nei primi anni della crisi – all’epoca della rivolta di Rosarno – non era infrequente trovare nei ghetti dei braccianti agricoli in Puglia o in Calabria e Campania lavoratori stranieri (o re-immigrati) tornati al Sud per aver perso il lavoro nelle aree dei distretti industriali del Nord, in particolare dal Bresciano. Sono tornati a vivere insieme agli altri una condizione gravosa non solo sul piano del lavoro ma anche su quello delle condizioni di vita.

Nel sistema di gestione del lavoro agricolo bracciantile figura centrale è quella del caporale. Egli lavora per conto delle imprese garantendo loro profitti e disciplinamento dei lavoratori. La retorica vittimistica porta a dimenticare questa catena dello sfruttamento preferendo presentare a tinte fosche la figura del caporale. Questa figura, non sempre un efferato delinquente come solitamente descritto, è centrale nella gestione del mercato del lavoro agricolo perché fornisce servizi che a norma di legge dovrebbero essere forniti dalle imprese o da istituzioni; il caporale provvede al reclutamento, al trasporto e ai servizi sul campo. Il caso estremo è la vendita di acqua da bere, che dovrebbe essere semplicemente garantita dalle imprese.

Diversa è la condizione nelle aree interne di agricoltura più povera e meno intensiva. In questi contesti, a prevalenza di imprese contadine non solo le condizioni di vita e di alloggio sono migliori, ma si realizza anche un minimo di integrazione a livello comunitario.

 

4. I processi di formazione di classe e la trasformazione dei ceti medi

Il cambiamento nella struttura sociale del Mezzogiorno – nelle condizioni di vita, di lavoro e a livello culturale non ha riguardato solo le classi subalterne. Questi cambiamenti e il generale peggioramento dei livelli di reddito e di consumo hanno portato a modificare gli atteggiamenti di ceti tradizionalmente politicamente stabili e conservatori. Questo processo di lungo periodo ha avuto di recente un precipitato sul piano politico col repentino cambiamento degli orientamenti elettorali. Non c’è stato solo il voto al partito M5S di operai e ex operai ma anche l’adesione ai partiti della coalizione giallo–verde da parte di ceti medi e medio alti. L’abbandono dei riferimenti politici tradizionali non è stato solo da parte della classe operaia ma anche degli addetti del terziario pubblico e privato con istruzione medio–alta, quelli che una volta si chiamavano i nuovi ceti medi.

Ma il processo riguarda anche i ceti medi tradizionali, lavoratori autonomi generalmente del terziario senza considerare la vasta area dei pensionati che non va intesa come un tutt’uno in quanto proveniente da diversi contesti lavorativi e territoriali, impiegati, operai, ex emigranti. Questo composito aggregato è interessato attualmente da due processi: una crescente estensione e un peggioramento della condizione della maggior parte di loro. All’incremento del loro peso relativo nella struttura sociale del Mezzogiorno hanno contribuito i processi di trasformazione dell’economia in senso terziario per quanto riguarda la domanda di lavoro mentre per quel che riguarda l’offerta un ruolo determinante è stato svolto dai processi di scolarizzazione di massa non solo nella scuola secondaria, processo peraltro insufficiente e già in atto da decenni, ma anche l’accesso all’università favorito dalla diffusione di sedi universitarie in quasi tutte le città, che è stata promossa nei decenni passati anche nel Mezzogiorno così come nel resto del Paese.

Ma per i giovani scolarizzati lo sbocco occupazionale finisce per trovarsi pressoché esclusivamente nella emigrazione all’interno e all’estero, che ormai a livello di sentire comune nel Mezzogiorno è considerato un destino ineluttabile.

Dover lasciare il proprio paese è ormai considerato un destino, una via ovvia e naturale da percorrere per avere una prospettiva di lavoro, per altro non necessariamente corrispondente al titolo di studio e alla qualificazione. E – dato che tutto si tiene– questo fenomeno è uno dei motivi fondamentali del processo di spopolamento delle regioni meridionali e anche di impoverimento per il noto meccanismo del carico fiscale che grava nelle regioni meridionali per i costi di scolarizzazione e di mantenimento di persone destinate poi a vivere altrove la loro vita produttiva. (Boffo, Gagliardi, 2015).

Ma l’aspetto più importante riguarda quelli che restano. Retoricamente si dice che ci vuole più coraggio a restare che a partire. E forse è vero. Ma chi rimane, se non è protetto da un patrimonio familiare monetario, culturale e di relazioni, raramente può sognarsi di intraprendere una qualunque attività economica, aprire una qualunque impresa, quelle che nella terminologia corrente, allo scopo di vantare inesistente innovazione sociale si chiamano ora start-up. Nel Mezzogiorno i giovani scolarizzati e altamente scolarizzati non possono ambire a occupazioni locali che non siano precarie, sotto-inquadrate e sotto-remunerate. I ricorrenti tentativi di eliminare il precariato eliminando le forme contrattuali relative si sono spesso tradotti, più che in un aumento delle posizioni stabili, in un aumento delle difficoltà dei precari, nella loro progressiva trasformazione in lavoratori autonomi pauperizzati.

A questo proposito il fatto che il precariato è una condizione che riguarda lavoratori dei più disparati ceti sociali – e schematizzando fenomeno di rilievo sia per i ceti medi che per il proletariato – ha dato origine a una tesi molto accreditata sul piano accademico e in ambienti della sinistra secondo cui ormai esisterebbe una classe di precari distinta sia dal proletariato che dalla borghesia. Questo tipo di interpretazione (che trova origine nelle teorizzazioni di Guy Standing) non sembra fondarsi su basi scientifiche solide. Essa infatti confonde una condizione nel mercato del lavoro – e se si vuole anche una condizione per così dire esistenziale – con una collocazione di classe. I precari della fascia alta non solo fanno in generale lavori meno scadenti e meglio retribuiti ma hanno alle spalle quel composito patrimonio cui abbiamo accennato che continua a trasmettersi per le generazioni e che nel Mezzogiorno ha un’importanza vitale. Esso rappresenta tuttavia una garanzia sempre meno cospicua come mostrano gli studi su le diseguaglianze e la mobilità sociale. La provenienza familiare infatti diventa la variabile sempre più importante, superiore anche al ruolo della scolarizzazione.

Va poi ribadito che la precarietà, condizione sempre più diffusa, può assumere connotazioni estremamente diversificate e dare luogo a collocazioni sociali molto distanti tra loro per il ruolo svolto dal capitale sociale e dalla collocazione sociale di provenienza. Ma queste connotazioni variano soprattutto in relazione al contesto, alle condizioni dello specifico mercato del lavoro di riferimento.

I ceti medi meridionali hanno visto contrarsi rapidamente il loro reddito e il loro patrimonio non solo per difficoltà nel mercato del lavoro, ma anche per le ridotte provvidenze di welfare e per l’aumentato costo dei servizi.

Un elemento cruciale nella riduzione del patrimonio – che connotava le condizioni e lo stile di vita dei ceti medi – è legato ai processi di periferizzazione del Mezzogiorno. Il calo degli investimenti pubblici e privati e il calo demografico stanno concorrendo a determinare effetti drastici di svalutazione del patrimonio immobiliare per il crollo della domanda.

Tranne che nelle principali città, in molti capoluoghi di provincia e in tutti i paesi e le zone interne si stanno da anni registrando cali dei valori immobiliari che intaccano la principale forma di risparmio e di rendita dei ceti medi. La crisi del settore delle costruzioni trascina ovviamente con sé una delle principali forme di occupazione della forza lavoro locale a livello operaio, nonché la principale attività di riferimento delle classi dirigenti locali.

 

5. Lavoratori poveri e poveri che lavorano

Il Mezzogiorno è diventato più povero nel corso degli anni e la povertà è una tematica intorno alla quale si sono determinati molti equivoci a cominciare da chi sono gli individui coinvolti, dai mezzi per combatterla e dal significato dei diversi approcci. Parliamo qui in primo luogo della povertà economica, della povertà materiale, quella misurabile e quantificabile, ricordando che esistono altre forme di esclusione e di peggioramento delle condizioni di vita.

Va inoltre sottolineato il nesso tra la povertà e l’assenza o la scarsa qualità delle condizioni di lavoro prevalenti: nesso che nel Mezzogiorno ha sempre avuto una grande rilevanza.

Nel modello italiano della povertà, quale era andato consolidandosi negli ultimi decenni del secolo scorso, si possono evidenziare una serie di connotazioni. La prima, e quella di maggior rilievo, è appunto la sua concentrazione nel Mezzogiorno. La seconda è che le figure sociali prevalenti non sono le stesse nelle due principali aree del Paese. La terza è lo stretto legame nel Mezzogiorno tra la povertà e il mercato del lavoro, in particolare con la disoccupazione.

Non c’è bisogno di molta documentazione per illustrare questa tesi. E le connotazioni della povertà individuate già a partire dagli anni ‘80 persistono tutt’ora anche se ci sono elementi nuovi che riguardano gli effetti del processo di impoverimento, l’emergere di nuove figure e la visione prevalente della povertà: visione che è alla base delle attuali linee di politiche.

Ormai da molti anni i dati sulla situazione economica del Mezzogiorno, in particolare sui livelli occupazionali, sul reddito prodotto e i divari tra Nord e Sud che con regolarità vengono presentati e commentati in maniera articolata dalla Svimez non determinano alcuno scandalo, alcuna seria reazione: sono visti piuttosto come una sorta di dato naturale quando non se ne contesta senza fondamento la rilevanza.

Eppure il rapporto di quest’anno presenta un quadro ancora più allarmante, la Svimez parte dalla considerazione che l’Italia è interessata da un doppio divario, quello che riguarda la collocazione del Paese nel suo complesso rispetto al resto Europa, e quello che è il tradizionale divario tra il Nord e il Sud dove il differenziale di crescita aumenta. Il dato ritenuto più preoccupante è il ristagno dei consumi che nel sud sono aumentati di appena lo 0,2% contro lo 0,7% del resto del Paese. Pertanto «mentre il Centro-nord ha ormai recuperato e superato i livelli pre crisi… la contrazione dei consumi meridionali risulta pari al –9%». Per comprendere quanto prima accennato riguardo alla condizione economica dei ceti medi e per comprendere l’entità e la quantità della povertà nel Mezzogiorno non si può prescindere da questi dati. Ed è significativo che continui a ridursi l’ammontare delle spese finali della Pubblica amministrazione alle quali più che razionalizzazione corrispondono puri e semplici tagli che rendono più difficili le condizioni di vita.

Infine, direttamente collegato a quanto stiamo trattando, è rilevante che nell’anno sia diminuita ulteriormente dello 0,5% la spesa delle famiglie per consumi alimentari: il più drastico indicatore della povertà assoluta.

Altrettanto rilevanti sono i dati riguardanti il lavoro e l’occupazione: sempre dalla citata anticipazione del rapporto emerge come si allarga il gap occupazionale tra Sud e Centro-nord. E i posti di lavoro da creare per raggiungere i livelli del Nord sarebbero circa tre milioni.

Se questo è il quadro generale sono comprensibili i dati che l’Istat fornisce sull’entità e i vari aspetti della povertà che ne mostrano una persistente concentrazione nel Mezzogiorno.

L’incidenza della popolazione che vive sotto la soglia della povertà nel Mezzogiorno è doppia rispetto a quella del Centro-nord il che significa che in queste regioni c’è il doppio di gente che vive male, che soffre la miseria. Se poi si considera l’evoluzione della situazione, si vede che è raddoppiato il numero delle famiglie che stavano male e stanno peggio. Il nesso tra questa drammatica situazione e l’aumento della disoccupazione e della precarietà dovrebbe risultare ovvio e di conseguenza ovvio dovrebbe risultare anche il nesso con l’assenza di scelte di politica economica per il Mezzogiorno.

Vale la pena di vedere qualche dato. Partiamo da quello più semplice: il numero delle famiglie povere nel Mezzogiorno e il loro aumento. Esse sono 822 mila esattamente il doppio che nel 2005 e un numero significativamente più alto di quello di inizio decennio. La loro incidenza sul totale delle famiglie meridionali, che nel 2011 era del 5,5% è balzata al 10%. Nello stesso anno nelle regioni del Centro e del Nord – che pure avevano fatto registrare un incremento della povertà – l’incidenza era di poco superiore alla metà di quella del Sud (5,3% e 5,8% rispettivamente). La concentrazione della povertà nel Mezzogiorno è illustrata da un semplice dato: qui, dove risiede il 31,7% della popolazione italiana, c’è il 45% delle famiglie in condizione di povertà assoluta di tutto il Paese.

Ma che tipo di famiglia è maggiormente colpita dalla povertà? La povertà aumenta in misura proporzionale al numero delle persone disoccupate in famiglia ed è particolarmente grave in quei casi in cui è disoccupato il capofamiglia o lo sono entrambi i genitori: situazione presente nel Mezzogiorno più che altrove.

Come mostra Morlicchio (NOTA), con la crisi e il calo dell’occupazione, nelle famiglie più deboli, quelle in cui ha perso il lavoro il capofamiglia maschio, unico percettore di reddito si è osservato un impegno maggiore da parte delle donne sul mercato del lavoro e un incremento della loro occupazione: nelle statistiche sulla povertà, al calo delle famiglie con un unico salario maschile ha corrisposto un aumento di quelle con unico salario femminile e ciò è stato particolarmente accentuato nel Mezzogiorno. Ma l’aspetto più grave nel Mezzogiorno è l’esistenza di famiglie in cui tutti i componenti in età da lavoro sono in cerca di occupazione: «in termini assoluti il loro numero in Italia è passato da 710.000 a 1.070.000 con un incremento ancora una volta sensibilmente superiore nel Mezzogiorno (+66%) rispetto al Centro-nord (+34%)».

A lungo ci si è chiesti come facessero a sopravvivere quelle famiglie (la questione è tutt’ora all’ordine del giorno) e soprattutto perché, date le loro condizioni, i membri di queste famiglie non emigrassero. Per altro sulla mancata mobilità soprattutto dei giovani si scomodarono diverse teorie a cominciare dal ‘familismo amorale’.

Con la ripresa della nuova emigrazione all’estero e soprattutto da Sud al Nord almeno le tesi colpevolizzanti sui giovani, i quali avrebbero preferito restare disoccupati e campare alle spalle della famiglia anziché andar via, hanno perduto la base su cui si fondavano. Disoccupazione ed emigrazione pongono ora all’ordine del giorno la questione della povertà delle persone ma soprattutto del contesto economico e sociale su cui si innesta la povertà delle famiglie.

Nel corso del tempo alcune caratteristiche della povertà meridionale sono cambiate ma il nesso con il mercato del lavoro e l’occupazione è sempre stato stretto. Negli anni di sviluppo del paese, si registrata, oltre alla significativa riduzione della povertà, un cambiamento della sua natura e delle sue connotazioni. Con i processi di urbanizzazione, alla prevalenza della storica povertà contadina – quella dei braccianti, dei piccoli coltivatori diretti, coloni ecc., insomma dei ‘contadini poveri’ – fece seguito la prevalenza di una fascia di poveri localizzata nei quartieri centrali e periferici delle grandi città: il consolidamento e l’estensione di quella che negli anni ‘70 veniva chiamata la marginalità urbana.

La povertà dei contadini si misurava e si studiava con le tecniche di indagine della sottoccupazione agricola, vale a dire calcolando l’eccedenza della mano d’opera famigliare rispetto all’esigenza di forza lavoro necessaria per la coltivazione – con tecniche standard – del loro pezzetto di terra, la loro azienda. La produzione e il reddito prodotto di quei pezzi di terra in pratica non potevano variare di molto. Perciò più gente vi lavorava, minore era il reddito pro-capite prodotto, maggiore la povertà della famiglia.

Contrariamente ai braccianti che – quando non lavoravano, si sentivano e risultavano statisticamente disoccupati – i contadini sottoccupati non si sentivano e non erano censiti come tali. La capacità della terrà di assorbire forza lavoro eccedente e inutilizzata è stata sempre proverbiale. Per questo la rilevazione della disoccupazione nelle aree rurali con prevalenza di contadini poveri dava dei risultati stupefacenti. Regioni quali la Basilicata nel dopoguerra avevano tassi di disoccupazione più bassi che nelle regioni sviluppate del Nord. Ciò non implica in alcun modo la separazione tra povertà e disoccupazione ma solo il fatto che la disoccupazione doveva essere misurata diversamente, cioè come eccedenza di forze di lavoro nelle famiglie.

In termini marxiani quei contadini, poveri perché sottoccupati, parte dell’offerta potenziale di lavoro, si sarebbero definiti sovrappopolazione relativa latente, cioè disoccupazione nascosta. Invece i braccianti, già esplicitamente proletarizzati, se disoccupati, sarebbero stati definiti parte della sovrappopolazione relativa fluttuante.

E se la povertà, e in particolare la miseria contadina, sostanzialmente scomparvero fu perché quelle due componenti della sovrappopolazione del Mezzogiorno si ridussero drasticamente grazie soprattutto all’emigrazione di massa, che, come ben notò a suo tempo Manlio Rossi-Doria fu la principale responsabile della scomparsa della miseria contadina nel Mezzogiorno.

I cambiamenti nell’asse territoriale dello sviluppo all’interno dello stesso Mezzogiorno e le scelte urbanistiche compiute negli anni dello sviluppo spostarono anche le aree di concentrazione della povertà e in qualche modo hanno esteso e al contempo incistato la povertà soprattutto nei quartieri periferici creati dall’espansione urbana e dalla produzione di edilizia popolare. E tuttora qui si concentra la gran parte della povertà meridionale con connotazioni crescenti di miseria urbana. Ma nell’ultimissimo periodo da un lato lo spopolamento dall’altro la riduzione dei servizi – e la razionalizzazione del sistema di welfare con criteri sempre più fiscali nell’attribuzione dei benefici – hanno riportato nelle aree interne e in generale nelle aree rurali una nuova povertà materiale che si assomma alle difficoltà dovute all’isolamento.

Una tematica molto dibattuta di recente riguarda un’area di popolazione alla quale sono destinate le politiche sociali che è quella dei cosiddetti working poor. Non si capisce effettivamente che tipo di identità venga attribuita a questi soggetti da coloro che se ne occupano. I working poor – il plurale in questo caso in inglese non ha la s finale, norma spesso ignorata da scrive in stranierese – in senso letterale non sono i lavoratori poveri: gente che lavora e che rimane povera lo stesso. In questa espressione povero è il sostantivo, che definisce l’identità, working (participio presente, dunque: «che lavora») funge da aggettivo. Invece uno che lavora, un membro della classe lavoratrice, ed è povero lo stesso sarebbe letteralmente in inglese un poor (aggettivo) worker. Se poi si decidesse di scrivere e parlare in italiano la chiarezza ne guadagnerebbe. Quindi, se si tiene povero come sostantivo («collocazione di classe» o comunque di «ceto») se ne definisce una identità sociale. Una volta c’erano i braccianti poveri, i contadini poveri, i marginali urbani che erano poveri sia che

lavorassero sia che no. C’erano gli operai poveri. E questi come gli altri avevano una collocazione rispetto ai rapporti sociali di produzione. Saul Bellow in Herzog fa questa specificazione sociologica a proposito di certi vicini di casa di un suo personaggio in un’area rurale del New England «Quelli non erano contadini poveri: erano semplicemente poveri contadini». Quando le condizioni di spingono i lavoratori, contadini, operai, artigiani impoveriti sempre più in basso l’identità di classe viene meno, non si è più operai o contadini, si è poveri e basta: pronti a diventare clienti del welfare di Di Maio. Il che non significa che non si possano organizzare: si pensi al Poor people movement di Ralph Abernathy in America. In Italia i braccianti (poveri Dio solo sa come) si mobilitavano in quanto braccianti e aderivano in quanto lavoratori alle organizzazioni sindacali. Idem i contadini. Ma nel Mezzogiorno oggi a un bracciante, nero o bianco che sia, si dà in primo luogo la qualifica di «povero» gli si toglie l’identità sociale di membro attivo nella società e nell’economia: e, nei rapporti sociali di produzione proletario, supersfruttato.

Le politiche per i poveri predominano nei sistemi di welfare residuali. Il che non vuol dire che non siano necessarie. Ma hanno un ruolo complementare rispetto alle politiche specificamente dirette al lavoro e all’aumento dell’occupazione

Ai poveri, in quanto poveri e non certo come lavoratori, si rivolge la politica messa in atto dal governo Conte, con il reddito di cittadinanza. L’ultima volta che si parlò dell’intervento rivolto direttamente all’occupazione fu all’epoca del governo Monti con il cosiddetto «Piano del lavoro della Cgil» che non fu neanche preso in considerazione dal governo in carica e sostituito dal Governo Renzi con il cosiddetto «Jobs Act».

 

5 Emigrazione e spopolamento

Una delle retoriche ricorrenti nel discorso sul Mezzogiorno – sia in ambiente politico che in ambito intellettuale – ha riguardato per decenni la presunta indisponibilità dei meridionali alla mobilità, in particolare al cercarsi un lavoro altrove. Particolarmente virulenta questa lettura delle caratteristiche culturali del Mezzogiorno è stata negli studi sul mercato del lavoro. Le teorie offertiste dominanti tra gli economisti del lavoro ignoravano del tutto il ruolo e le caratteristiche della domanda di lavoro: l’esistenza di opportunità occupazionali, buone o cattive – veniva data per scontata. È tuttavia indubbio che le pur modeste possibilità occupazionali, il basso costo della vita e le stesse opportunità di welfare familiare rendevano possibile sopravvivere nelle aree di origine. A partire dagli anni della crisi tutto ciò è finito con la conseguenza di una ripresa dell’emigrazione al Nord e all’estero a livello di massa.

Ma già da qualche anno, a cavallo del secolo, la Svimez, attenta come sempre alle dinamiche demografiche del Mezzogiorno, aveva messo in evidenza una ripresa dell’emigrazione quale fenomeno nuovo e significativo. Non si trattava di grandi cifre ma di uno stillicidio annuo continuo che è durato nelle sue dimensioni modeste fino agli anni della crisi per poi esplodere a partire dall’anno della mancata ripresa italiana e delle politiche restrittive e recessive del governo Monti.

Un intreccio profondo lega l’evoluzione della situazione demografica a quella della situazione economica del Mezzogiorno. E si determina così una sorta di causazione circolare per cui gli effetti dell’una finiscono per avere un impatto sull’altra, concorrendo così entrambe al peggioramento della situazione.

I demografi fanno solitamente notare che alla base delle trasformazioni demografiche ci sono processi e tendenze che hanno origine ad altri livelli, ad esempio sociali e giustappunto economici, che a loro volta influenzano i comportamenti demografici. E questo è ben evidente nel caso del Mezzogiorno oggi. È pertanto utile un richiamo a quanto è avvenuto nel Mezzogiorno, a partire dagli anni 90, che poi sono quelli della ripresa della emigrazione dal Mezzogiorno. In quel decennio emerge chiaramente un processo complessivo di declino dell’economia, che nel Mezzogiorno, area

strutturalmente più povera dal punto di vista economico e aggravata da una situazione già difficile di partenza. Nel Mezzogiorno si erode la base produttiva già di per sé più debole e conseguentemente si riduce la domanda di lavoro, unico possibile freno alla spinta all’emigrazione. In questo quadro si può considerare ovvio il processo di continua perdita di forza di lavoro per effetto dell’emigrazione.

Per comprendere dunque i fenomeni demografici è sempre utile tener conto delle trasformazioni economiche che ad esse fanno da sfondo. Il Mezzogiorno non si è mai ripreso dalla stagione della deindustrializzazione che ha fatto seguito a quella dei grandi investimenti industriali. La complementarietà di emigrazione e industrializzazione non aveva nuociuto alla struttura economica e sociale di quelle regioni data la loro grande vitalità demografica (si pensi ad esempio alla Campania). La situazione inoltre presenta particolare gravità in alcune aree quelle interne. Queste sono quelle che una volta venivano definite dell’«osso»: zone caratterizzate da un’agricoltura povera, da modesta o inesistente presenza industriale e carenza di servizi. Aree con una maglia residenziale basata su piccoli paesi e cittadine con una debole rete di collegamenti esclusivamente stradali. Si tratta di contesti poveri anche se non necessariamente i più poveri del Mezzogiorno nei quali però alla povertà materiale delle famiglie si somma la povertà materiale della comunità e una riduzione della intensità della vita e delle relazioni comunitarie, dovuta anche alla diminuzione e all’invecchiamento della popolazione.

La spirale consiste proprio in questo: i giovani partono e di conseguenza si riduce l’offerta potenziale di lavoro. La desertificazione demografica a sua volta riduce anche le possibilità di ripresa economica per il restringersi di un mercato locale in rapporto all’impoverimento degli sbocchi di consumo. Ma la perdita di popolazione, e in particolare la perdita di quella in età di lavoro e capace di gestire attività economiche, riduce la vita economica locale. Non c’è dunque da meravigliarsi se per i giovani meridionali pur essendo in numero sempre modesto non ci sono attività di lavoro disponibili e la loro disoccupazione rimane elevata. E questo fa parlare di vera e propria desertificazione delle zone interne in atto già prima della crisi (Nardone, 2006).

Questo processo di inaridimento della realtà produttiva e di marginalizzazione sociale delle aree interne, soprattutto del Mezzogiorno, causa e al contempo effetto dell’emigrazione, ricorda un fenomeno studiato da Julius William Wilson nei ghetti americani ed esteso (Morlicchio, 2012) al contesto italiano che va sotto il nome di «effetto di concentrazione». Gli elementi di svantaggio sul piano sociale, economico e culturale di un determinato contesto non solo si sommano ma si rafforzano reciprocamente, nel presente ma anche in prospettiva. Gli effetti dello spopolamento non vanno visti solo in termini quantitativi, ma anche in termini qualitativi per la perdita dei giovani dotati di maggiore capitale umano e spirito d’iniziativa.

Se nel caso delle grandi migrazioni interne e all’estero dei primi decenni del dopoguerra l’emigrazione aveva la funzione positiva di alleggerimento della pressione demografica, portando a un equilibrio tra popolazione e risorse, ora invece contribuisce a peggiorare la situazione anche da questo punto di vista non essendoci più la compensazione determinata dagli elevati tassi di natalità. L’emigrazione ha sempre rappresentato al contempo un processo difficile e a volte doloroso ma anche di emancipazione e di rilevante miglioramento delle condizioni degli interessati e delle stesse zone di partenza. Le condizioni degli interessati anche ora migliorano, ma lo stesso non si può dire per le zone di partenza

Negli anni di quella «grande emigrazione» gli emigrati con le loro rimesse contribuivano all’aumento del progresso economico delle regioni meridionali. Emergevano anche problemi e contraddizioni nuove come lo spopolamento delle zone interne ma complessivamente si registrava un ritmo di sviluppo significativo e la riduzione del divario tra Nord e Sud. D’altronde quell’emigrazione aveva luogo in anni di sviluppo sociale per il Paese nel suo complesso in un clima progressista, di cui la riforma dell’istruzione, con l’istituzione della scuola media unificata e dell’obbligo scolastico fino al quattordicesimo anno di età, è l’espressione più chiara anche nel

Mezzogiorno. Questa spinta alla scolarizzazione di massa rappresenterà una condizione essenziale per i processi di mobilità sociale cui parteciperanno anche i figli degli emigranti.

L’immagine più vivida degli effetti benefici dell’emigrazione dal Mezzogiorno in particolare nelle zone più povere, nelle cosiddette aree interne del Mezzogiorno, la dà Manlio Rossi-Doria in un breve saggio scritto all’epoca in cui l’emigrazione era al suo culmine e ripubblicato poi agli inizi degli anni Ottanta quando quella esperienza migratoria si era sostanzialmente esaurita. Oltre a cancellare la tradizionale miseria contadina, l’emigrazione contribuì a un mutamento nei rapporti tra le classi sociali del Mezzogiorno. L’alleggerimento della pressione demografica sulla terra migliorò le condizioni di vita dei contadini e degli altri lavoratori che restavano, mentre il flusso delle rimesse innalzò il complessivo livello del reddito e dei consumi della popolazione stimolando la domanda complessiva di beni e rappresentando così anche uno stimolo indiretto allo sviluppo economico delle aree industriali di tutto il Paese.

Che anche l’emigrazione attuale abbia per gli interessati una funzione emancipatrice è fuor di dubbio. Ma l’esperienza è più difficile e problematica che in passato. Abbiamo visto che la condizione di chi emigra migliora sul piano del lavoro ma anche che dall’altro lato in generale si passa da una forma di precariato a un’altra, certamente meglio retribuita e con qualche sicurezza in più e tuttavia senza rappresentare una alternativa radicale e grandi prospettive di miglioramento. Questo vale sia per l’emigrazione al Nord sia per l’emigrazione all’estero.

Dal punto di vista demografico gli aspetti più significativi del Mezzogiorno sono da un lato il notorio processo di invecchiamento della popolazione, dall’altro la sua incipiente riduzione vera e propria, seguita peraltro a un prolungato periodo di stagnazione. Questo rappresenta una assoluta novità per il Mezzogiorno perlomeno da un secolo, dato che l’incremento della popolazione e il peso significativo delle classi infantili e giovanili aveva fin qui caratterizzato queste regioni. C’è dunque in atto un processo di spopolamento che riguarda tutta l’area ma che è più o meno intenso e diversamente connotato nei diversi territori.

L’impoverimento delle famiglie riguarda quasi tutti gli strati sociali, compresi quelli che avevano tratto benessere e privilegi da posizioni di rendita fondate sulla proprietà case e terreni con il crollo del mercato immobiliare che ne ha ridotto in maniera straordinaria il valore e il reddito estraibile.

Le condizioni generali di vita compresa la situazione ambientale sono al contempo il frutto e la causa dello spopolamento. Abbiamo accennato già in premessa alla riduzione della rete di servizi rappresentata ad esempio da scuole e ospedali per effetto degli accorpamenti che rendono più difficile l’accesso stesso ai servizi. Per la gente questo significa un ulteriore motivo di impoverimento perché anche l’accesso a servizi lontani comporta dei costi pagati privatamente dai cittadini. Per quanto riguarda l’impoverimento delle comunità basti pensare al progressivo peggioramento delle reti stradali con tratti importanti difficilmente percorribili, con casi limite di interi paesi isolati per effetto delle frane. Particolarmente discriminati sono da questo punto vista i comuni di montagna che per la loro natura hanno collegamenti più fragili e sono contemporaneamente sottofinanziati considerato che il finanziamento è basato non sulla estensione, ma sulla numerosità della popolazione. In tutto questo incide la perdita di rilevanza e di responsabilità delle provincie che avevano un ruolo fondamentale nella gestione delle infrastrutture del territorio extraurbano.

I processi di causazione circolare sono bene evidenti in ciò che accade nel rapporto tra vita comunitaria e spinta all’emigrazione. L’assenza di opportunità per i giovani determina partenze. Queste incidono sulla vitalità complessiva della comunità, sui rapporti sociali e le relazioni tra coetanei e vicini, Ciò a sua volta allarga la spinta a emigrare anche a chi avrebbe possibilità di sopravvivenza economica in loco. La riduzione della popolazione nei vicinati provoca anche chiusure di negozi, di attività artigianali, con un ulteriore effetto di spinta.

Questi fenomeni sono molto evidenti e chiaramente irreversibili in un’ampia fascia di paesi delle

zone a più bassa densità e più impervie in tutta l’Italia meridionale, ma sono in rapida espansione a zone fino ad ora meno svantaggiate e a centri urbani di medie dimensioni, compresi alcuni capoluoghi. Come ben illustra Viesti, nella sua introduzione a un numero monografico de il Mulino dedicato alle dinamiche di trasformazione recente dell’Italia: «… a Bovino, già capoluogo di sottoprefettura nel Foggiano, si è passati negli ultimi sessant’anni da 9.500 a 3.500 abitanti (…) ma le dinamiche demografiche negative segnano profondamente anche i centri urbani più deboli del Paese, prevalentemente al Sud (…) con grande preoccupazione ci si interroga sul futuro di realtà come Cosenza o Catanzaro.»

 

6. Gravità della situazione, irrilevanza delle politiche

Il quadro finora descritto avrebbe meritato impegni significativi sia sulle politiche di sviluppo sia sulle politiche di welfare capaci di migliorare la situazione sul piano dell’occupazione e sul piano del reddito. Nulla di tutto ciò è avvenuto nei governi precedenti a quello giallo-verde, nulla di tutto ciò si vede nell’attuale governo «del cambiamento». In effetti il provvedimento noto come Reddito di cittadinanza per il quale è stata richiesta la possibilità di operare in regime di deficit spending ha la pretesa di saldare in un unico strumento legislativo sia obiettivi di politiche occupazionali sia obiettivi di welfare in particolare di lotta alla povertà.

Il provvedimento ha rappresentato fin dall’inizio un punto qualificante dell’accordo di governo. Il vice primo ministro Di Maio lo ha definito un meccanismo capace di garantire a ogni famiglia un reddito di almeno 780 euro al mese come forma di sostegno al reddito e di integrazione del reddito da lavoro. È difficile comprendere su quali elementi analitici si fondassero le perentorie affermazioni del ministro ma già da ora si può avere un’idea di quanto distante sia il risultato propagandato di ciò che la realtà mostra.

In effetti la legge attualmente opera in due ambiti collegati in maniera piuttosto artificiosa. Per quel che riguarda le politiche del lavoro tutto si fonda su di un assunto assolutamente non verificato né verificabile relativo alla effettiva disponibilità di occasioni lavorative, in loco o altrove, essendo data per scontata appunto una domanda di lavoro non raggiunta dall’offerta rappresentata dalle persone in cerca di occupazione al Nord come al Sud.

L’enorme stanziamento finanziario è destinato per la parte maggiore all’intervento di sostegno al reddito e per la rimanente, ma non irrilevante parte, a un intervento di politica attiva per l’occupazione volto ad avvicinare l’offerta di lavoro alla domanda attraverso l’impiego di figure professionale definite «navigator»: termine vago e incomprensibile.

Con il nesso tra sostegno al reddito e avviamento al lavoro si introduce per la prima volta in Italia una forma particolarmente complessa e cervellotica di workfare, vale a dire di obbligo all’accettazione di qualunque lavoro venga proposto ai percettori del sussidio di povertà pena l’esclusione dal beneficio. Non è stato questo l’unico ma è certamente stato uno dei motivi alla base del numero limitato di domande, soprattutto per coloro che erano formalmente, ancorché precariamente, occupati. L’entità dei controlli e delle condizioni e la grande quantità di requisiti e vincoli introdotti mostrano come la misura sia radicalmente diversa non solo da quello che immaginava il partito del M5s, ma anche e soprattutto dalla concezione totalmente condivisa dal gruppo di studiosi che avevano dato vita al progetto del basic income o reddito di cittadinanza, vale a dire a una allocazione universale di base valida per tutti i cittadini. Probabilmente un’idea del genere era ancora presente della visione del fondatore del movimento Grillo che di recente parlò di «reddito di nascita» alludendo dunque al carattere universale dell’allocazione. L’altra grande differenza tra le teorie del basic income e la concezione alla base dell’intervento ora in vigore consiste nel quadro delle politiche sociali e fiscali che esse postulano. Il basic income – nelle teorizzazioni della fine degli anni ‘80, alle quali fu dedicato un numero di «Inchiesta» (n. x 19xx) – veniva proposto insieme a forme di efficiente e progressiva tassazione. Di questo non c’è alcunatraccia nel provvedimento ora in atto, né ce ne può essere. Come già detto il problema del finanziamento dell’intervento non è in alcun modo affrontato: l’unica certezza riguarda la possibilità di aumentare il debito pubblico.

Il carattere di mossa demagogica – non populista – è stato quello di far ritenere ai potenziali interessati che si sarebbe trattato davvero di una sorta di allocazione universale o comunque di una forma di sostegno al reddito senza particolari vincoli. Ciò che si è visto finora è che il numero delle domande è stato largamente inferiore alle previsioni (a fine luglio quasi 1,5 milioni rispetto ai 2,7 attesi) il che lascia supporre che i vincoli posti per l’accettazione della domanda abbiano avuto l’effetto di scoraggiare larga parte dei potenziali destinatari. Da più parti (Gori, 2019) si è fatto notare come proprio quelli più bisognosi, quelli più deprivati a livello culturale e materiale, siano i soggetti che hanno maggiori difficoltà ad accedere alla misura.

Il quadro ottimistico presentato dai proponenti del reddito di cittadinanza implicava oltre che incrementi di reddito familiare e di occupazione anche un importante effetto di risulta consistente nel sostegno della domanda interna aggregata. Effetti di questo genere sono lontani dall’essere osservati. Si vedrà in futuro se il provvedimento sarà capace di invertire la tendenza sottolineata dal rapporto Svimez finanche dei consumi alimentari.

Detto tutto questo e considerati tutti i limiti di questo intervento, bisogna riconoscere la necessità di una misura di sostegno al reddito. Più efficace e mirata sarebbe stata una misura analoga a quella del Rei che aveva però il cruciale limite di essere ampiamente sottofinanziata. È nostra convinzione che le critiche al provvedimento siano a volte ingenerose perché prescindono del tutto dalla considerazione dei bisogni cui il provvedimento stesso in qualche modo è venuto incontro. La critica rilevante riguarda le indebite esclusioni, sprechi, discriminazioni e elementi gravemente punitivi tipici della tradizione neoliberista del workfare.

È del tutto evidente che né con misure di questo genere in assenza di una articolata politica di sviluppo né con altre misure di chiara natura anti meridionalista quale l’autonomia differenziata si possa pensare di affrontare i problemi legati al peggioramento delle condizioni sociali del Mezzogiorno. Se la situazione ereditata dalla struttura di potere politico passato era grave, le prospettive attuali appaiono davvero scure. Insomma: buio a Mezzogiorno.

 

Fonti

S. Boffo, F. Gagliardi,  “Un contenitore per i rapporti tra università e territorio”, in Territorio n.73, 2015, Franco Angeli

C. Gori, M, «Ma tanti poveri non chiedono il Rdc. Ecco perché», lavoce.info, 18 giugno 2019. [https://www.lavoce.info/archives/59724/reddito-di-cittadinanza-il-nodo-di-chi-non-presenta-la-domanda/]

Istat, Rilevazioni delle forze di lavoro, serie ricostruite, vari anni.

E. Morlicchio, Sociologia della povertà, il Mulino, 2012.

E. Morlicchio, scheda per Feltrinelli ???? 2019

M. Nardone, Osso e fame…, 2006.

E. Pugliese, Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana. il Mulino, 2018.

G. Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, il Mulino, 2015.

Svimez, «Sud, lo spettro della recessione. In un’Italia che cresce poco si riapre il divario territoriale», anticipazioni del rapporto agosto 2019. [http://lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/07/2019_08_01_anticipazioni_com.pdf].

G. Viesti, «Un Paese plurale, difficile e bellissimo», Il Mulino n. 6, 2017

Category: Osservatorio Sud Italia

About Enrico Pugliese: Enrico Pugliese (1942) è professore ordinario di Sociologia del lavoro presso la Facoltà di Sociologia della Sapienza-Università di Roma. Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell'Istituto di ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRPPS-CNR). La sua attività di ricerca ha riguardato principalmente l'analisi del funzionamento del mercato del lavoro e la condizione delle fasce deboli dell'offerta di lavoro, con particolare attenzione al lavoro agricolo, alla disoccupazione e ai flussi migratori. Si è occupato, inoltre, dello studio dei sistemi di welfare, con particolare attenzione al caso italiano e all'analisi delle politiche sociali. Tra le sue pubblicazioni recenti: L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (Il Mulino, 2006); Il lavoro (con Enzo Mingione, Carocci, 2010); L'esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con M. Immacolata Maciotti, Laterza, 2010); La terza età. Anziani e società in Italia (Il Mulino, 2011).

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