Enrico Pugliese: Columbia University e il ’68 in America. La speranza, l’utopia e il grande freddo

| 21 Maggio 2018 | Comments (0)

 

 

 

Capita spesso quando uno parla del Sessantotto in America che l’interlocutore, soprattutto se giovane, faccia immediato riferimento a Berkeley: a un episodio di quattro anni prima. E questo è facilmente comprensibile. L’occupazione della Università della California a Berkeley nel 1964 è stata il primo grande evento di rivolta studentesca: una sorta di anticipo del Sessantotto a livello americano e internazionale. Inoltre quell’episodio è stato reso celebre dal libro di Al Draper. La rivolta di Berkeley (Einaudi 1965, Titolo originale: Berkeley: The new student revolt ) Inoltre è sullo scenario della baia di San Francisco che è ambientato il più noto film sull’argomento “Fragole e sangue” (the Srawberry satement)

L’episodio più importante dell’anno 1968 è invece l’occupazione della Columbia University 1l 28 di maggio, esattamente mezzo secolo addietro, che rappresenta con i suoi 720 manifestanti arrestati in una sola notte, il caso più clamoroso (ma non l’ultimo). Il Sessantotto americano fu infatti violentemente concluso nel 1970 dalla repressione delle mobilitazioni a Kent State University (in occasione della invasione americana della Cambogia) e la strage degli studenti neri.

E’ importante tenere conto di queste date non per un puro gusto di cronologia ma per il fatto che nei sei o sette lunghi anni nei quali si svolge il Sessantotto l’America è interessata da cambiamenti profondi – per altro di segno diverso – nel contesto sociale e politico che vede da un lato crescita sociale e civile nel paese (la Great Society johnsoniana) dall’altro – in piena contraddizione o come rovescio della medaglia – un quadro economico sempre più dominato dal complesso militare-industriale. Ed è questo complesso che determina le scelte di guerra che l’America era andata conducendo negli anni 60: in primis quella del Vietnam. Forse la principale spinta alla mobilitazione di Columbia – sicuramente una delle principali – è stata la guerra in Vietnam: una guerra sempre meno popolare nell’opinione pubblica e soprattutto tra i giovani che non volevano andare a morire. Per inciso va detto che nel 1968 non partivano più solo i poveracci: c’era la leva obbligatoria e con l’intensificazione del conflitto anche i giovani delle università di élite come Columbia rischiano di essere spediti in Viet-Nam.

Per quel che riguarda la crescita sociale e civile, gli anni ‘60 sono quelli in cui si raggiungono i momenti più alti nel processo di emancipazione della popolazione nera attraverso la vittoriosa quanto dura lotta contro la segregazione. E’ una storia precedente a quella del Sessantotto ma che lascia una eredità importante. I ragazzi scesi negli anni precedenti negli stati del Sud per a dare una mano nelle mobilitazioni per la parità di diritti tra bianchi e neri appartenevano a una generazione. Ma i valori e gli ideali che guidarono le mobilitazioni della fine degli anni ‘50 e degli inizi degli anni ‘60 sono anche i valori di fondo che ispirerano quelle del ‘68.

E qui sorge una prima questione : nel 1968 le lotte e i successi su questo piano sono alle spalle. Intanto i tempi sono cambiati e sono anche aumentate le aspettative di cambiamento: grandi passi in avanti sono stati fatti anche sul piano istituzionale durante la Great Society johnsoniana con il colossale sistema di welfare per i poveri Ma ingiustizie e discriminazioni persistono soprattutto nei confronti dei neri e dei poveri in generale. E questo si intreccia con un’altra tematica determinante nella vicenda del Sessantotto americano: il ruolo dei neri e dei loro movimenti, che di questa vicenda rappresenta uno degli aspetti più problematici e – detto con franchezza – più amari.

L’anno 1968 da questo punto di vista comincia male: all’inizio della primavera – il 4 aprile c’è stato il cinquantenario – venne assassinato Martin Luther King leader dell’ala non violenta del movimento dei neri americani: un’ala specifica (ancorché molto grande) del movimento che sarebbe sbagliato ed equivocante definire moderata, come spesso si faceva all’epoca.

È vero che la componente più radicale dei neri criticava king. Ma la sua posizione non violenta risultava sempre più popolare ed efficace. Inoltre la sua posizione cominciava a risultare sempre meno distante da quella dell’altro leader assassinato qualche anno prima, Malcom X. Nel movimento dei neri – e per i diritti civili in generale – in America c’è sempre stata una certa divisione ma essa si approfondisce negli anni ‘60 con la crescente influenza dei Black Muslims che hanno sempre predicato il separatismo e una loro versione settaria del ‘potere nero’. Con l’assassinio di King, e quello precedente di Malcom X, vengono a mancare i due leaders non separatisti i quali sono convinti – King da sempre Malcolm X dal momento in cui rivede le sue posizioni e esce dall’organizzazione dei musulmani neri – che bisogna condurre le battaglie democratiche insieme con i bianchi. Come recita la seconda strofa della più celebre canzone del movimento per i diritti civili: “ Black and white togther /we shall overcome”. Ma i neri più radicali ormai credono poco a questo.

Nel frattempo però alla fine degli anni ’60 stanno già prendendo decisamente piede anche i movimenti separatisti. E sarà questa la versione prevalente dagli anni settanta in poi della linea del black power. E qui c’è l’importante e tragica vicenda delle black panthers e poi del black panther party. Nati cresciuti all’inizio con un radicamento nei ghetti hanno avuto un ruolo rivendicativo e soprattutto di denuncia. Ma vittime da subito di una forte repressione, finirono per trovarsi invischiati nella spirale repressione-violenza. Diversi saranno uccisi, qualcuno finirà male. E poi c’è il separatismo apolitico, sostanzialmente conservatore, della ‘One million man march’ dell’ultimo periodo del Novecento

Il nesso tra tutto questo e il ‘68 in America sta nel fatto che un segno tangibile di questo orientamento separatista si ha proprio durante l’occupazione e la scelta organizzativa fatta dagli studenti neri. Nell’esito non felice di quella grandiosa mobilitazione c’è la difficoltà, forse l’impossibilità, di collegamento (a parte i riferimenti astratti) con altre forze progressiste e altri movimenti compreso appunto il movimento per i diritti civili, in particolare la componente nera.

E qui è il caso di entrare in merito alla rivolta di Columbia cominciando dalla carta rivendicativa degli studenti, cioè le ragioni dichiarate , e in larga parte effettive, della rivolta e le richieste che gli studenti presentarono in quel minimo di trattative che ci fu con la Presidenza della Università e i suoi rappresentanti. Qui purtroppo c’è il rischio di confondere storia e memoria ed è forse bene che specifichi il fatto che – nonostante qualche lettura recente – sto andando avanti a memoria su fatti di mezzo secolo addietro.

Comunque ricordo che le rivendicazioni principali erano erano treo quattro.

In primo luogo si chiedeva chiedeva a Columbia di smetterla con la speculazione edilizia in un quartiere (Upper West Side) tutto sommato popolare che si andava ‘gentrificando’ – come si cominciò a dire in quegli anni – a spese dei poveri in parte neri o ispanici che venivano cacciati dal quartiere. Columbia è infatti divisa dalla Harlem bassa – che comincia a Nord di Central Park all’altezza della 110ma strada (ora Duke Ellington Boulevard) da una striscia di parco alberata. E –secondo i piani di espansione edilizia dell’ Università – in questa striscia avrebbe dovuto sorgere una palestra (il famoso Gymnasium, “gym” nei volantini). Questo venne poi presentato nella propaganda di Columbia come una occasione di integrazione con il contesto locale. La contestazione dell’iniziativa avrebbe potuto rappresentare are un terreno comune di mobilitazione comune tra studenti popolazione nera ma non ci fu nulla di ciò.

Altre due richieste erano il divieto di ingresso nel campus a una struttura di reclutamento dell’esercito e la cessazione dei rapporti dell’Università con l’Institute for Defence Analyisis. Come è evidente si tratta di tematiche pacifiste, contro la guerra e specificamente contro la guerra in Vietnam. A parte il reclutamento di volontari – dove forse si sarebbe pescato poco in un ambiente borghese – il grande problema per gli studenti di Columbia era il rischio di essere chiamati alle armi. Columbia è una università della Ivy League per studenti molto bravi o molto ricchi: le tasse scolastiche erano – e sono – elevatissime. L’ambiente era meno snob delle altre della stessa Lega dell’edera perché metropolitana e non sorta in un paesino. Infine c’era una alta presenza di ragazzi, in generale ebrei ma non solo, di estrazione modesta provenienti dalle scuole e da colleges pubblici come il City College. Era comunque una università di élite. Per esempio Sociologia, facoltà che contribuì significativamente all’alto numero degli arrestati, era considerata, nei sistemi di valutazione dell’epoca, la numero uno negli Stati Uniti.

Ma come ho detto questo non esentava dal rischio di finire in Viet-Nam. In quegli anni bastava essere bocciati e non passare all’anno successivo, o ancora aver terminato il corso di studi senza procedere verso i livelli superiori, perché la cartolina di precetto diventasse effettiva: l’obbligo di partire non poteva più essere rimandato. Proprio nel periodo dell’occupazione una rivista di sinistra a grande presenza giovanile tra i redattori (Ramparts) comparve con una splendida foto di copertina con l’immagine di quattro di loro che bruciavano la cartolina precetto: un pericoloso atto di coraggio. Si trattava di un reato grave punito con l’arresto e molti di quelli che lo facevano finirono in galera mentre altri scapparono in Canada o in Europa (sostanzialmente in Svezia). Insomma su quegli studenti pendeva la spada di Damocle di essere mandati a fare una guerra riconosciuta come imperialista, che non stimolava nessun patriottismo se non in settori di destra assolutamente minoritari a Colombia.

Insomma gli studenti di Columbia erano spinti alla mobilitazione non solo sulla base di valori e ideali pacifisti o di uguaglianza sociale ma anche perché le ingiustizie e le irrazionalità della società americana potevano colpire direttamente i loro fratelli e vicini o loro stessi. È importante ricordare questo perché forse spiega – più che ogni interpretazione a carattere generale e soprattutto basata sui processi comunicativi – il perché di un così elevato numero di studenti arrestati. Ricordo che su 17.000 studenti iscritti a Columbia ben 720 furono gli arrestati.

La maggior parte – e io ero tra quelli – si fecero arrestare senza resistenza o meglio si fecero arrestare volontariamente allo scopo di contribuire a totalizzare il massimo numero di arresti e di dimostrare quanto sostegno aveva un movimento che si opponeva alla gestione della università e comunque si opponeva alla linea guerrafondaia e del governo americano in quel periodo.

In questo a Columbia c’era nel metodo una positiva eredità del periodo precedente: un’eredità che aveva caratterizzato le lotte per i diritti civili e soprattutto il movimento contro la segregazione razziale, cioè la pratica della disobbedienza civile. Come è noto il principio è che si compie una azione illegale, si contravviene a una norma di legge, sapendo che questo può determinare anche l’arresto ma la si compie proprio allo scopo di dimostrare l’ingiustizia di quella legge. Naturalmente a Columbia il nesso tra la norma di legge che si violava e l’obiettivo che si aveva in mente non era così diretto (come nel caso in cui dieci anni prima in neri si sedevano nelle sezioni degli autobus a loro vietate). In effetti l’accusa rivolta agli arrestati era quella di criminal trespassing, che in pratica significa violazione di domicilio privato o area pubblica riservata. Insomma l’accusa consisteva nel fatto che era stata occupata l’università. Ma la pubblicità che ne venne fuori – il fatto che tutto il paese ne parlasse e che il sobrio il N.Y.Times dovesse uscire con otto colonne in prima pagine sull’occupazione – non solo metteva alle strette Columbia per il comportamento nei confronti della comunità e le connessioni con il complesso militare ma mostrava anche un generale stato di insoddisfazione per lo stato delle cose esistente in America e per la guerra.

Vorrei fare un commento su il 1968 a Columbia e il grande ‘Sessantotto’ americano avvenuto quattro anni prima a Berkeley. In parte i due episodi sono simili in parte sono diversi. Ci sono differenze nei contenuti politici o cominciare dal fatto che a Berkeley si tratta ancora di diritti civili: non a caso il movimento si autodefiniva “Free speach” quindi con riferimento a un fondamentale diritto civile che a Columbia veniva dato per scontato. A Columbia erano in gioco anche diritti sociali – il problema dei ghetti e della povertà – oltre che la questione della guerra. L’obiettivo Di Berkeley era tipico di un’era precedente, quando il parlare era stato pericoloso. IL maccartismo aveva negato i diritti civili. A Columbia la tematica è altra: il maccartismo è più lontano, la Great society johnsoniana è al suo culmine, anzi all’inizio della sua decadenza. Quelli che leggono leggono, tra l’altro. Marcuse. E hanno imparato l’esistenza della tolleranza repressiva.

E tuttavia la tolleranza va avanti fino a un certo punto. Avevo l’impressione che i rapporti tra i giovani manifestanti di Columbia – il cui numero andava progressivamente ingrossandosi – e le loro famiglie le cose non andassero del tutto lisci. Non c’erano le rotture esplicitamente politiche e drammatiche come nel caso tedesco ma certamente le famiglie non erano del tutto entusiaste. Comunque la vita di quei giovani cambiava. Non cambiava tanto il modo di vestirsi – che in realtà era già cambiato da un po’ dapprima – cambiavano le amicizie, cambiavano i rapporti, le esperienze. C’era un fermento culturale e un grande entusiasmo. C’era quella che la folk singer Barbara Dane chiamò “The joy that comes from struggling”. E al momento della proclamazione delle lauree successe una cosa entusiasmante.

La cerimonia, che si chiama Commencement, non si svolse solo come sempre nell’ aula magna della Facoltà. Ce ne fu un’altra ben più importante nel giardino del campus con tutti i laureandi in toga sotto il sole: il Counter-commencement. E il grande discorso che qualche autorità fa tradizionalmente in questa occasione lo fece il vecchio Eric Fromm invitato dagli studenti e in solidarietà con loro. Salutò con entusiasmo la fine della ‘silent generation’ e sgridò gli studenti – in piedi, seri e riverenti in quel pomeriggio tardo primaverile – per l’uso frequente di un linguaggio volgare e tracotante. La silent generation era finita e pareva che i giovani dovessero cambiare il mondo. “I don’t trust anybody over thirty” dicevano. Forse avevano ragione ma presto impararono a non fidarsi neanche di sé stessi.

Per capire la delusione successiva alle mobilitazioni bisogna comprendere il carattere e la portata dell’entusiasmo di quei giovani e la elevatissima partecipazione. E poi c’era la New York di quegli anni dove tutto pareva succedere. Pareva che tutto si mobilitasse: se uno voleva sapere cosa stesse succedendo bastava che chiamasse il numero telefonico (in America la rotella del telefono, oltre ai numeri portava le lettere) Dad (Dial a Demonstration) ed era prontamente informato. Alla forte rottura politica e culturale – direi esistenziale – all’origine di quegli eventi corrispose già nei mesi successivi la presa d’atto della mancanza di sbocchi politici credibili per quella carica di mobilitazione e di voglia di cambiamento.

Del rapporto con il movimento dei neri e dei diritti civili ho parlato prima. Ancora più difficili furono i rapporti con il movimento operaio organizzato. E in questo caso fu proprio il Viet- Nam a rendere praticamente impossibile un avvicinamento dei giovani alla classe operaia, essendo il sindacato su questo sostanzialmente schierato con il governo. In realtà parve chiaro nel corso del tempo che quegli studenti, con le loro speranze e aspettative, non li volesse nessuno.

Questo mi porta ad aprire una parentesi su quanto siano stati importanti alcuni film per comprendere il prima, il durante e il dopo Columbia con il triste epilogo del movimento. I film importanti da questo punto di vista sono “Selma” (e “The Butler”), “Fragole e Sangue”, “Kent State” e “Il Grande Freddo”. A Selma si vede la grande spinta e il coraggio di quelli che si batterono per i diritti civili, rischiando la pelle, ma anche la forza della non violenza e un rapporto reale con la gente, in contrasto con la deriva terrorista senza alcuna base di riferimento dei Weathermen che nacquero a Columbia. I primi due film relativi al “prima” sono storie di lotta dura e pericolosa e di vittoria.

Più complessa è la storia che raccontano gli altri. Il film “Fragole e sangue”, apparentemente dedicato a un caso specifico (la rivolta di Berkeley), in realtà mette insieme i fatti gli eventi più significativi che ebbero luogo in tempi diversi e in luoghi diversi: per farla breve dalla rivolta di Berkeley al massacro di Kent State University che distano tra loro quasi un decennio (dal 1964 al 1970). E Columbia sta in mezzo. Il titolo originario, che ha poco a che fare con quello italiano, The Stroberry statement, rimanda al (una volta) famoso Port Huron Statement, il manifesto fondativo dell’SDS – Students for a Democratic Society – che segna l’inizio ufficiale del processo di radicalizzazione degli studenti allora vicini o interni al partito democratico. Ma da qualche scena e immagine di repertorio ho riconosciuto fatti avvenuti a Columbia

Sicuramente la storia della palestra e della speculazione edilizia nei quartieri circostanti e nel caso specifico di Columbia in Harlem.Naturalmente questo è poco importante: il film non è un documentario . E’ invece più importante l’episodio con il quale finisce simbolicamente il film: la sparatoria finale che ricorda il massacro di Kent State University nell’Ohio del 1970, quando i tempi erano davvero cambiati. Neanche a Columbia ci fu una violenza di quel genere. Anzi la prima occupazione (quella grande di maggio) fu piuttosto pacifica. Come ho detto, la stragrande maggioranza degli arresti furono volontari per ‘disobbedienza civile’. La polizia dovette chiedere in prestito degli autobus per portarci dal campus nella Upper West Side di Manahattan all’edificio collegato al tribunale dove ci fecero passare la notte in gattabuia. Eravamo davvero tanti e non scappavamo. Anche quelli che si presero la canonica manganellata in testa e le cui foto da eroi comparvero su tutta la stampa americana fecero in sostanza resistenza passiva e si lasciarono trascinare.

Ci fu una ripresa dell’occupazione in giugno e qui il comportamento della polizia fu più violento mentre gli studenti impegnati nell’occupazione erano di meno. Ma anche questo episodio non passò certo alla storia per la sua violenza.

La situazione fu diversa a Kent State qualche anno dopo quando i poliziotti spararono senza ragione e senza pietà contro gli studenti mobilitati contro l’invasione della Cambogia. E quel comportamento forse voleva significare che ormai le cose avevano preso un corso diverso da come i ragazzi di Columbia e delle altre università avevano auspicato. La grande frustrazione, il senso di vuoto, il non sentirsi più insieme e credere in ideali comuni è invece ben descritto ne “Il Grande Freddo”. Nel film i ragazzi del sessantotto che si incontrano qualche anno dopo hanno preso tutti strade diverse ma sono tutti insoddisfatti: si vede che le cose sono andate male. Il suicidio di uno di loro è l’espressione più chiara di questo fallimento.

Ma altre morti, altri dolori, altre scelte minoritarie e ingenuamente estremiste rappresentano lo sbocco per una parte di coloro che insistono nel voler far politica senza alcuna base di riferimento, alcuna consituency, come si diceva. Uno dei ragazzi che erano stati centrali dell’occupazione e che era stato tra i fondatori dei Weathermen saltò in aria mentre costruiva una bomba.

Il dopo occupazione a Columbia la situazione fu comunque triste in termini generali. L’Università ritirò la denuncia per l’occupazione, qualche giovane professore fu licenziato o scelse di andarsene altrove come per altro diversi studenti, molti di loro infine tornarono alla vita normale: “business as usual”. Tra chi insisteva a voler far politica ci furono tanti inutili litigi e rotture politiche che non avevano alcuna seria base. Ricordo la triste vicenda del Guardian, il settimanale che aveva legato i pezzi migliori della vecchia sinistra alla nuova sinistra giovanile, distrutto tra un litigio e l’altro.

Qualcun altro – e non furono certo i peggiori – aderì a qualche organizzazione marxista leninista più o meno filocinese. Tra di loro il mio più caro amico in America che andò per conto del Progressive Labor Party (stalinista) a lavorare in una miniera di Carbone in West Virgina (Harlan County) svolgendo dell’ottimo lavoro sindacale in un posto noto per la violenza padronale e dei vigilantes. Alla fine estate ci fu la contestazione alla convenzione democratica di Chicago che non fu un grande momento di saggezza politica e che esprimeva a mio avviso soprattutto lo sbandamento del movimento.

Infine una parte che si salvò, rientrando nei ranghi della classe borghese e in sostanza nell’ambiente familiare di provenienza, è stata quella che decise in qualche modo di aderire al partito democratico e nell’estate del ‘68 si mobilitò a favore di Eugene McCarty, il candidato più a sinistra nelle primarie democratiche. Si tagliarono un po’ i capelli e si vestirono meglio all’insegna del “clean for Gene”. Ed entrarono a far parte della borghesia democratica e progressista americana come c’era prima e c’è stata dopo.

Per la maggior parte invece, compresi alcuni di quelli che mobilitarono nel partito democratico, fu cocente la delusione per la sconfitta. Le mobilitazioni finirono l’utopia tramontò: la nuova sinistra americana degli anni Settanta era diventò progressivamente una pura e semplice realtà culturale, riducendosi e diventando anche più moderata. Mi colpì, quando tornai dopo dieci anni in America il fatto che la rivista che si chiamava Socialist revolution aveva cambiato il nome in Socialist review.

Ovviamente non ci fu solo quell’esito. Il movimento contribuì a costringere Johnson a non ripresentarsi alle elezioni e a iniziare le trattative per la fine della guerra in Vietnam. E la sinistra sul piano intellettuale si rinnovò anche in ambiente accademico: penso all’Urpe, Union for Radical Politcal Ecomics che pubblicò per un periodo una rivista. E anche nel sindacato successe qualcosa. Innanzitutto in California dove una organizzazione di base di lavoratori agricoli, in larga parte cicanos, messicani e americani, cominciò a crescere ottenendo un riconoscimento sindacale. Nel ’68 pubblicavano un giornale in due lingue, El malcriado, la voz del campesino e portavano avanti importanti scioperi tra i raccoglitori di pomodoro e di uva con la guida dell’United Farm Workers Organizing Commitee (che poi divenne United Farm Workers Union Afl-Cio). Molti studenti delle Università della California parteciparono negli anni successivi al ’68 alle loro mobilitazioni. E non fu l’unico caso. Finanche tra i Teamsters – il sindacato degli autotrasportatori (che controllavano anche i magazzini di stoccaggio, la logistica si direbbe ora) quello più di destra, corporativo e anche inquinato dalla malavita – nacque una corrente di sinistra (mi pare si chiamasse Teamsters for a Democratic Union).

Ho fatto un riferimento più esteso ai lavoratori agricoli della California, in larghissima parte immigrati, perché sono rappresentativi di una componente numericamente crescente e all’inizio tradizionalmente debole della classe operaia americana che proprio a partire dagli anni ‘60 e ’70 cominciò ad organizzarsi e a rappresentare uno degli elementi del processo di rivitalizzazione del sindacato americano che andò avanti con successo nei decenni successivi. Per finire ancora con un film ricordo quello raccontato da Ken Loch “Il pane e le rose” sulle lotte di venti anni dopo dei lavoratori (e lavoratrici) dei servizi in genere appartenenti a minoranze e alla loro avanzata.

Ma, tornando a Columbia e al dopo 68, si può dire che dopo la fine della ‘silent generation’ ci fu sostanzialmente una inversione di tendenza con un periodo di grande freddo durato diversi decenni. Insomma l’anno 1968 in America non vide un inizio ma il culmine di una grande ondata progressista e per molti versi l’inizio di una involuzione dalla quale l’America ancora non è uscita (salvo qualche apertura con la presidenza Obama). Tutto quello che di bello c’era stato – tutta la avanzata sociale e civile nel paese a partire dalla fine del Maccartismo – non era finito: era semplicemente avvenuto prima e si era in parte consolidato nella società.

Per quel che riguarda gli studenti del ’68 aveva contribuito a far crescere le aspettative, la speranza e l’utopia. Ma il massacro di Kent State, l’elezione di Nixon e la fine della Great Society rappresentarono per loro l’inizio del grande freddo.

 

 

 

Category: Guardare indietro per guardare avanti, Osservatorio Stati Uniti

About Enrico Pugliese: Enrico Pugliese (1942) è professore ordinario di Sociologia del lavoro presso la Facoltà di Sociologia della Sapienza-Università di Roma. Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell'Istituto di ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRPPS-CNR). La sua attività di ricerca ha riguardato principalmente l'analisi del funzionamento del mercato del lavoro e la condizione delle fasce deboli dell'offerta di lavoro, con particolare attenzione al lavoro agricolo, alla disoccupazione e ai flussi migratori. Si è occupato, inoltre, dello studio dei sistemi di welfare, con particolare attenzione al caso italiano e all'analisi delle politiche sociali. Tra le sue pubblicazioni recenti: L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (Il Mulino, 2006); Il lavoro (con Enzo Mingione, Carocci, 2010); L'esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con M. Immacolata Maciotti, Laterza, 2010); La terza età. Anziani e società in Italia (Il Mulino, 2011).

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