Alessandra Mecozzi: Notizie dalla striscia di Gaza

| 4 Settembre 2020 | Comments (0)

 

 

 

E’ disponibile la relazione di attività di Cultura è Libertà 2019, che è stato un anno particolarmente ricco di iniziative e fruttuoso per il progetto GAZA. MUSICA PER BAMBINI/E CONTRO LA DISTRUZIONE. Seguirà, appena pronto, il bilancio.

Il 2020 sarà molto diverso: è cominciato con la cancellazione causa Covid19, dello spettacolo che avevamo previsto del gruppo palestinese di dabka, dalla Francia. Per ora impossibile pensare ad arrivi da fuori Italia. Almeno i rimborsi dei viaggi aerei hanno aiutato a rimpolpare il gruzzolo che mandiamo al Conservatorio Edward Said di Gaza per le lezioni online (SOS MUSICA SPERANZA PER GAZA), il piccolo progetto 2020.

Purtroppo la situazione pandemica a Gaza si è aggravata, c’è da sperare che la tregua Hamas-Israele regga e che possano almeno entrare medicine e attrezzature sanitarie indispensabili. Con questo augurio chiudo e vi mando un caro saluto

Alessandra Mecozzi presidente associazione Cultura è Libertà

 

 

 

1. Questi israeliani sotto il fuoco di Hamas pensano che Netanyahu sia più pericoloso

di Judy Maltz da HAARETZ 30 Agosto 2020

 

Le proteste settimanali anti-Netanyahu nella regione di confine con Gaza bombardata rappresentano un punto critico nella battaglia tra i “due Israele”

Moshe Kuperman, 89 anni, partecipa regolarmente alle proteste di sabato sera contro il primo ministro Benjamin Netanyahu che si tengono all’incrocio di Sderot, a pochi chilometri a est del confine di Israele con la Striscia di Gaza.

“Non sono sicuro se e quanto queste proteste serviranno a cambiare le cose, ma io sento il bisogno di farlo”, dice. Kuperman è uno dei circa 60 partecipanti alla cosiddetta protesta della bandiera nera in questo luogo sabato sera. Negli ultimi due mesi, ogni sabato sera, manifestanti anti-Netanyahu si riuniscono su circa 300 ponti e incroci in tutto il paese, sventolando le loro bandiere nere – e anche quelle israeliane – di fronte ai veicoli che passano.

Moshe Kuperman from Kibbutz Erez at the weekly protest against Prime Minister Netanyahu outside Sderot. "I feel that I need to do this."
Moshe Kuperman del Kibbutz Erez alla protesta settimanale contro Netanyahu fuori da Sderot.
Credit: Eliyahu Hershkovitz

 

Secondo molti partecipanti abituali, la folla di questa settimana fuori dall’ingresso di Sderot sull’autostrada 34, è più numerosa del solito. La maggior parte dei manifestanti è di mezza età e anche più anziana. Ma ci sono anche genitori con bambini piccoli. Circa una mezza dozzina di poliziotti sono stati inviati a proteggerli.

Uno stereo portatile situato in mezzo alla folla suona canzoni popolari di protesta, e molti dei manifestanti cantano, c’è anche chi balla. Un’energica adolescente, incaricata del megafono, guida i manifestanti con slogans anti-Netanyahu. Stasera quello di maggior successo è: “Netanyahu to Maasiyahu”, riferito a una prigione nel centro di Israele. Quando le auto di passaggio suonano il clacson per mostrare il loro sostegno, i manifestanti rispondono con entusiasmo.

Data la recente esplosione delle tensioni con Gaza, in questo momento e a questo incrocio, potrebbe essere il punto di ritrovo all’aperto più pericoloso in Israele. Solo sabato i palloni esplosivi lanciati da Gaza hanno provocato 25 incendi attraverso la zona di confine e più di 500 incendi nelle ultime settimane. Decine di razzi sono stati anche lanciati da Gaza contro i kibbutz e le città lungo il confine, scatenando attacchi di rappresaglia da parte dell’esercito israeliano. Lo scorso fine settimana una casa a Sderot è stata colpita direttamente.

A house in Sderot after taking a direct hit from a rocket fired from Gaza, August 21, 2020.
Casa di Sderot colpita da un razzo lanciato da Gaza
Credit
: Eliyahu Hershkovitz

 

Esattamente una settimana fa, proprio a questo incrocio, un allarme rosso – che segnalava un razzo in arrivo – è suonato mentre i locali stavano tenendo la loro protesta settimanale. In un luogo così vicino al confine, chi si trova lì, ha solo 15 secondi per correre ai ripari dopo il lancio del razzo. Quando hanno sentito il temuto avvertimento, i manifestanti all’incrocio si sono semplicemente buttati a terra e si sono coperti la testa con le braccia. Alla domanda se ha paura di rischiare un altro Allarme Rosso questa settimana, Kuperman ridacchia. “Vivo in questa parte del paese da quasi 70 anni”, dice. “Ti abitui a queste cose. Ma se vuoi sapere cosa mi spaventa davvero, è quanto i sostenitori più fanatici di Netanyahu odino le persone come me. Non riesco a capirlo. “

Forse da nessuna parte in Israele il divario politico menzionato da Kuperman è più evidente che in questo particolare incrocio. Da un lato c’è Sderot, una città in gran parte operaia, conosciuta come una roccaforte chiave del partito Likud di Netanyahu. Nelle ultime elezioni, tenutesi il 2 marzo, più della metà degli elettori di Sderot ha votato per il Likud, rispetto a poco meno del 30% a livello nazionale. La maggioranza dei residenti di Sderot sono ebrei mizrahi, le cui famiglie sono immigrate in Israele dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Intorno a Sderot e lungo tutto il confine di Gaza ci sono più di una dozzina di kibbutz, forse gli ultimi baluardi della sinistra Ashkenazi in Israele.

Nel Kibbutz Nir Am, dall’altra parte della strada, i partiti di centrosinistra hanno ricevuto più del 75 per cento dei voti nelle ultime elezioni, mentre il Likud ha ottenuto solo il 13 per cento. Nel vicino Kibbutz Kfar Aza, il Likud ha avuto risultati ancora peggiori, raccogliendo solo il 6 percento dei voti. La battaglia tra questi due Israele, per così dire, si svolge qui ogni sabato sera, mentre i devoti di Netanyahu, che passano nelle loro auto entrando e uscendo da Sderot, si confrontano con i manifestanti. Poco più di un mese fa è finita male: un residente di Sderot ha accoltellato al collo uno dei manifestanti in un incrocio a circa un chilometro da qui. Quel manifestante, il 40enne Nir Saar del Kibbutz Gevim, ha riportato ferite lievi dopo aver tentato di aiutare un altro amico che era stato aggredito.

A blaze caused by an incendiary balloon launched from Gaza at Kibbutz Alumim on the border, August 28, 2020.
Incendio causato da un pallone incendiario lanciato da Gaza al kibbutz Alumim sul confine August 28, 2020. 
Credit: Eliyahu Hershkovitz

 

Alcuni rituali si sono sviluppati negli ultimi mesi. I sostenitori di Netanyahu che passano nelle loro auto rallentano, abbassano i finestrini e mostrano il dito medio ai manifestanti, gridando: “Bibi”. I manifestanti rispondono: “In prigione”. La scorsa settimana, e i sabato sera precedenti, i manifestanti sono stati definiti “puzzolenti di sinistra”, “traditori”, “nazisti” e anche peggio.

“Sono stata chiamata puttana e mi hanno detto di tornare al bordello”, dice Dvora Galiani, una nonna di 70 anni di Nir Am. Galiani, il cui marito è disabile, dice che per lei è difficile allontanarsi anche solo per un’ora perché è colei che lo assiste principalmente. “Ma mi preme venire qui ogni settimana perché è quel poco che posso fare”, dice. “Sento che, dopo tutto quello che ho dato a questo paese – tutti i miei figli hanno prestato servizio in unità di combattimento, e ora il mio nipote maggiore sta per arruolarsi – stanno cercando di prendermi in giro”.

A passerby responds to the anti-Netanyahu protest at the entrance to Sderot, August 29, 2020.
Un passante in auto risponde alle proteste anti-Netanyahu all’entrata di Sderot, August 29, 2020.
Credit: Eliyahu Hershkovitz

 

Galiani si ferma un attimo e annusa. “Lo senti?” lei chiede. “Questo è un altro incendio che scoppia. Il mio naso può già rilevarli a miglia di distanza”. Alla domanda se non ha paura di stare all’aperto con palloncini in fiamme provenienti da Gaza che fluttuano nell’aria, lei risponde: “L’unica cosa di cui ho paura è per il futuro di questo paese”. Quasi tutti i manifestanti riuniti a questo incrocio provengono dai vicini kibbutzim. Ariella Elbaz, una 53enne residente a Sderot, è un’eccezione. Viene ogni settimana con sua figlia.

“Sono sempre stata a sinistra”, dice Elbaz. “Ma nonostante quello che pensano molte persone, ci sono molti altri che la pensano come me a Sderot. A dire il vero, non sono la maggioranza, ma sicuramente esistono. ” Elbaz, che lavora in un asilo nido in uno dei kibbutzim della regione, porta un cartello fatto in casa con la scritta “Primo ministro o mercante di armi?” “Netanyahu ha già approvato la vendita di sottomarini in Egitto e solo di recente ha approvato la vendita di aerei da combattimento ad Abu Dhabi”, spiega. “Quindi penso che questa sia una domanda molto legittima.”

Gil Yasur, 50 anni, vive a Sderot da 25 anni. “Sono qui [alla protesta] perché non credo che un criminale dovrebbe fare il primo ministro”, dice Yasur, un economista di professione. “Penso che ci siano molte persone a Sderot che condividono questa convinzione anche se hanno problemi con la sinistra”.

Ciò non includerebbe Alon Davidi, il sindaco della città e un schietto sostenitore di Netanayahu. Parlando domenica con un giornalista dell’emittente pubblica israeliana, ha affermato che, nonostante le sue riserve sulla gestione del conflitto con Gaza da parte del governo, voterebbe comunque per Netanyahu se domani si tenessero le elezioni. “Non direi che ha fallito e sostengo il Likud a causa di una serie di valori in cui credo”, ha detto Davidi a Kan News.

Sono passati quasi 30 anni da quando Gonen Samid ha partecipato a una protesta. Ma il 51enne ci tiene a presentarsi ogni settimana a questo incrocio con le sue bandiere bianco-blu e nere. Questa volta, ha persino convinto suo figlio adolescente Alon a unirsi a lui. Samid ha in mano un cartello di cartone scritto a mano che dice: “Licenziate Bibi”. “Ritengo Bibi responsabile di tutto ciò che è andato storto in questo paese, e questo comprende lo stato della sicurezza qui nel sud”, dice. “Ho una figlia in cura adesso per attacchi di ansia, e lo biasimo per averci portato a questa situazione.”

Era un membro del suo kibbutz Gevim che è stato attaccato al vicino incrocio il mese scorso. Non solo questo non ha scoraggiato Samid dal venire alle proteste, dice, ma in realtà lo ha motivato maggiormente a partecipare. “Non dirò che qui mi sento sempre al sicuro”, dice. “La settimana in cui Nir è stato accoltellato, ho chiesto a un poliziotto di accompagnarmi alla macchina. Sono stato anche picchiato un po ‘quel giorno. I guidatori ci sono venuti molto vicini, non indossavano mascherine e io mi sono sentito molto minacciato. Ma ora che ci sono più poliziotti che ci sorvegliano, mi sento meglio riguardo alla situazione. “

Accanto a lui ci sono Ilan ed Eitan Arad, due fratelli, entrambi sulla cinquantina, cresciuti con lui a Gevim. Hanno in mano un grande striscione con la scritta “Ministro del crimine”. È anche il nome di uno dei gruppi che organizzano le proteste anti-Netanyahu. Un uomo anziano che si unisce alle proteste riceve un caloroso saluto dal gruppo di Gevim. “Era il nostro insegnante di educazione civica al liceo”, spiega Ilan.

Michah Ben-Hillel, l’insegnante in pensione, recupera un poster della bandiera israeliana dalla sua borsa. “Sono un patriota israeliano che teme per il destino del nostro paese”, dice, mentre procede a spiegarlo. Qualcuno gli chiede cosa pensa dello striscione “Ministro del crimine” che tengono in mano i suoi ex studenti. Non gli piace, dice. “In questo paese, sei ancora innocente fino a prova contraria”, spiega Ben-Hillel.

Sharon Stav, ex newyorkese, fa parte del vicino Kibbutz Dorot da quasi 50 anni. Avrebbe voluto unirsi ai suoi figli nella principale protesta del sabato sera a Gerusalemme, davanti alla residenza del primo ministro, ma pensa che sia meglio alla sua età evitare grandi folle durante una pandemia. “Venire a questo bivio è il minimo che posso fare”, dice Stav, 71 anni. “È l’unico modo per me di esprimere ciò che provo su ciò che sta accadendo in questo paese”.

A protester holds up a sign reading "Red Alert for democracy" at the anti-Netanyahu protest at the entrance to Sderot, August 29, 2020.
Manifestante con un cartello “Red Alert for democracy” alla protesta all’entrata di Sderot, August 29, 2020.
Credit: Eliyahu Hershkovitz

 

Molti dei cartelli e delle magliette in mostra fanno riferimento a questioni locali. Irit e Rafi Danan, una coppia del Kibbutz Erez, ad esempio, portano un cartello con la scritta “Allarme rosso per la democrazia”. Sempre di Erez, Mor Katzman, 41 anni, indossa una maglietta stampata con la scritta: “Prima la sovranità alle comunità di confine di Gaza”. È un riferimento al tentativo fallito di Netanyahu di estendere la sovranità israeliana agli insediamenti della Cisgiordania. (Il leader israeliano ha accettato di sospendere l’annessione, su richiesta degli Stati Uniti, in cambio della normalizzazione dei legami con gli Emirati Arabi Uniti.)

Katzman, che ha portato con sé i suoi due figli, di 8 e 10 anni, porta un cartello che dice: “Anche le comunità di confine con Gaza fanno parte di Israele”. I membri di questo governo, dice, non hanno mostrato alcuna solidarietà con i residenti del sud, che ora vivono sotto la rinnovata minaccia di attacchi missilistici e palloni incendiari. “Hanno persino paura di venire qui e incontrarci”, dice.

Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi da https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-these-israelis-under-fire-from-hamas-think-netanyahu-is-a-bigger-risk-1.9113808?

 

 

2. Covid 19 in Cisgiordania e Gaza – la seconda ondata

di Yara Hawari da Middle East Institute 29 luglio 2020

Al 29 luglio, sono stati registrati più di 16,5 milioni di casi di COVID-19 in tutto il mondo, e circa 655.000 decessi. Dopo molti mesi di blocco, i paesi sono costretti ad aprirsi nonostante i timori che una seconda ondata sia all’orizzonte e in molti luoghi sia già in corso. In Cisgiordania palestinese, una seconda ondata brutale è iniziata più di un mese fa con un aumento di oltre 20 volte delle infezioni, mettendo a dura prova il sistema sanitario. Questa pressione, tuttavia, va vista nel contesto della continua violenza del regime coloniale israeliano. I palestinesi sono stati costantemente privati dei fondamentali diritti alla vita, tra questi l’assistenza sanitaria. Israele, quindi, deve essere visto come un regime di comorbilità – in altre parole non si limita ad esacerbare le condizioni, ma piuttosto è direttamente responsabile dell’aumento delle infezioni e dell’incapacità del sistema sanitario di trattare adeguatamente i pazienti.

Coprifuoco e lockdown

Al 19 giugno, c’erano solo 567 casi registrati di COVID-19 in Cisgiordania e 72 a Gaza. Questo numero relativamente basso è stato attribuito al fatto che l’Autorità Palestinese (AP) aveva adottato misure preventive tempestive e drastiche contro il virus. Ciò ha comportato l’annuncio dello stato di emergenza il 5 marzo e la chiusura di spazi pubblici, compresi bar, ristoranti, scuole e palestre. Il 22 marzo è stato imposto un coprifuoco che non è stato revocato fino all’inizio di giugno. Quando le cose hanno cominciato ad aprirsi in Cisgiordania per tutto giugno, c’è stata una drammatica ondata di casi, che ha spinto l’Autorità Palestinese ad annunciare ancora una volta un lockdown.

Al 29 luglio, c’erano quasi 14.500 casi registrati in Cisgiordania, di cui circa 6.100 erano attivi, mentre il numero a Gaza è leggermente aumentato. La maggior parte delle infezioni in Cisgiordania sono concentrate nel Governatorato di Hebron e sono state attribuite a grandi raduni come matrimoni e funerali. Al momento l’Autorità Palestinese sembra non avere alcuna strategia per affrontare il virus, a parte l’imposizione di vari gradi di confinamento nelle aree sotto il suo controllo. Nel frattempo, deve affrontare una profonda crisi finanziaria non solo a causa del blocco e della chiusura delle imprese, ma anche per la impossibilità di pagare stipendi interi ai dipendenti pubblici a causa della sospensione del coordinamento con Israele (che attualmente comprende la raccolta delle entrate fiscali) conseguente ai suoi piani di annessione.

Occupazione militare e assedio

Mentre c’è un parallelismo tra la situazione in Palestina e quella in altri paesi del mondo che lottano per tenere sotto controllo il numero di contagi, il contesto dell’occupazione militare e dell’assedio in Cisgiordania e Gaza rappresenta una sfida particolarmente pesante. In effetti, dal 1967 il regime coloniale dell’insediamento israeliano ha posto questi due territori palestinesi sotto occupazione militare, con Gaza che ha subito un assedio dal 2007. Questo regime di controllo assoluto ha avuto un effetto diretto e dannoso non solo sull’accesso palestinese all’assistenza sanitaria, ma anche sulla qualità delle cure stesse.

Le manifestazioni dell’occupazione militare israeliana e dell’assedio sul sistema sanitario includono la negazione e la restrizione di forniture mediche e attrezzature per trattamenti come la chemioterapia e la radioterapia, rendendo impossibile curare i malati di cancro a Gaza, mentre la Cisgiordania ha capacità limitate. In questi casi i palestinesi sono alla mercé delle autorità israeliane, che decideranno se possono ottenere un permesso per la cura di cui hanno bisogno. Comprende inoltre attacchi a strutture mediche, personale e pazienti; ad esempio, tra il 2008 e il 2014, i successivi bombardamenti israeliani di Gaza hanno visto 147 ospedali e cliniche di salute di base e 80 ambulanze danneggiate o distrutte e 145 operatori sanitari feriti o uccisi. Pazienti palestinesi sono stati persino portati via dai loro letti d’ospedale dalle forze armate israeliane.

De-sviluppo

Questa violenza di stato è stata accompagnata anche da un’altra forma di violenza più insidiosa: il de-sviluppo, un processo per cui, secondo la studiosa Sara Roy, un’economia “è privata della sua capacità di produzione, trasformazione strutturale razionale e riforma significativa”. Implica lo “smembramento deliberato, sistematico e progressivo di un’economia indigena da parte di un’economia dominante, in cui il potenziale economico – e per estensione sociale – non solo è distorto ma negato”. Per dare un esempio di come questo de-sviluppo abbia influenzato il settore sanitario, dal 2000 la popolazione a Gaza è raddoppiata e tuttavia il numero delle strutture di assistenza sanitaria primaria è sceso da 56 a 49. Allo stato attuale, ci sono solo 255 posti letto di terapia intensiva in Cisgiordania per una popolazione di 3 milioni e solo 120 a Gaza per una popolazione di 2 milioni. In totale ci sono 6.440 posti letto ospedalieri tra i due territori.

Oltre a questa lenta ma costante violenza contro il sistema sanitario in Cisgiordania e Gaza, il regime israeliano si è anche impegnato in attacchi più insidiosi contro i tentativi palestinesi di affrontare il virus. A metà aprile, ad esempio, le autorità israeliane hanno fatto irruzione e chiuso una clinica nel quartiere di Silwan a Gerusalemme est e hanno arrestato i loro lavoratori perché stavano conducendo test COVID-19 che erano stati donati dall’Autorità Palestinese. Altre cliniche sono state completamente distrutte, come una nella Valle del Giordano a fine marzo e un’altra a Hebron a fine luglio, il governatorato della Cisgiordania più colpito. Le autorità israeliane hanno anche arrestato volontari palestinesi che tentavano di distribuire rifornimenti alle comunità povere di Gerusalemme est.

In tutto il mondo è chiaro che la pandemia non sta servendo come agente di uguaglianza; al contrario, sta mettendo in luce strutture di potere e oppressione che privilegiano la salute di alcuni rispetto ad altri. Per i Palestinesi è certamente così, in particolare in Cisgiordania e Gaza, dove il regime coloniale israeliano ha un impatto negativo diretto sulla loro salute e sull’accesso all’assistenza sanitaria. In effetti, la pandemia aggiunge un ulteriore livello di precarietà alle loro vite già insicure a causa della continua violenza del regime israeliano.

 

La dott.ssa Yara Hawari è Senior Palestine Policy Fellow di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi da https://www.mei.edu/publications/covid-19-west-bank-and-gaza-second-wave-under-military-occupation-and-siege

 

 

 

3. Akram Al-Waara – Betlemme, Cisgiordania occupata

domenica 16 agosto 2020 – Middle East Eye

In tutti i territori i palestinesi ritengono che questo patto incoraggi l’occupazione israeliana a danno dei loro legittimi diritti.

In questi giorni nei territori palestinesi occupati l’annuncio dell’accordo di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) è stato sulle prime pagine dei giornali locali: i palestinesi e i loro dirigenti vi esprimono la propria indignazione di fronte a quello che considerano un “tradimento” da parte di un altro Paese arabo.

L’accordo, annunciato giovedì sera, è stato negoziato dal presidente americano Donald Trump e stabilisce che Israele sospenderà l’annessione di alcune parti della Cisgiordania in cambio di relazioni diplomatiche con gli EAU.

Se gli EAU sono il primo Stato arabo del Golfo a raggiungere un tale accordo pubblico con Israele, da molto tempo il Paese, come la vicina Arabia Saudita, si dimostra amichevole nei confronti di Israele e ha messo in pratica una normalizzazione “nascosta”.

Un comunicato congiunto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed ben Zayed (MBZ) ha celebrato questa decisione definendola “un progresso diplomatico storico” in grado di far avanzare la pace nella regione mediorientale. Tuttavia i palestinesi ritengono che questo nuovo accordo otterrà l’effetto contrario.

“È una decisione pericolosa che non porterà che ulteriori persecuzioni contro i palestinesi,” garantisce a Middle East Eye Iyad Nasser, segretario generale di Fatah nel sud della Striscia di Gaza. Egli dice a MEE che, come tutti i palestinesi, giovedì, all’annuncio di questo accordo, gli abitanti della Striscia di Gaza assediata da Israele sono stati sopraffatti da disillusione e frustrazione.

“Si percepiva nell’aria la sensazione di essere stati traditi dai nostri fratelli,” racconta. “Con questa decisione gli EAU non tradiscono solo il popolo palestinese, ma l’insieme degli arabi e persino la loro stessa popolazione.”

A Gerusalemme est occupata, Jawad Siyam, direttore del centro d’informazione Wadi Hilweh nel quartiere di Silwan, esprime un’opinione simile: “La normalizzazione è un tradimento. Nient’altro che questo.”

Se per lui come per molti altri il momento scelto per annunciare questa decisione è una sorpresa, Siyam precisa che la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti era prevista da molto tempo. “Bisognava essere ciechi per pensare che non sarebbe successo,” afferma Jawad Siyam. Secondo lui “da anni si poteva vederli agire insieme. Non sono solo gli Emirati, ci sono l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo. Sono i servi di Israele e degli Stati Uniti.”

A Betlemme, città della Cisgiordania occupata, gli effetti dell’occupazione israeliana sono assolutamente visibili. Circondati da muri e colonie in espansione, i palestinesi che vi abitano vivono con il ricordo costante che Israele controlla le loro vite.

George Zeidan, 30 anni, attivista locale e cofondatore del gruppo “Diritto di Muoversi”, dichiara a MEE che l’annessione è una “realtà quotidiana per i palestinesi in Cisgiordania. Utilizzare l’annessione come giustificazione per la normalizzazione è scandaloso,” ritiene l’attivista, in riferimento alla presunta promessa di Israele di sospendere questa politica in cambio delle relazioni diplomatiche con gli EAU.

“L’annessione è una pratica illegale,” afferma. “Quindi il congelamento di una politica illegale non dovrebbe concedere ad Israele la pace con le Nazioni arabe. Non è una cosa per la quale dovrebbe essere ricompensato.”

D’altra parte, secondo George Zeidan l’idea che l’annessione sia stata congelata in conseguenza di questo accordo è una farsa: “Solo un’ora o due dopo questo annuncio, Netanyahu ha chiaramente promesso che non smetterà di perseguire l’annessione. È veramente patetico. Per ottenere questo rapporto diplomatico Israele non ha ceduto su niente.”

“Tutti amano la pace,” continua. “Ma questa non è la pace. È la normalizzazione di un’occupazione. È un’occupazione quotidiana sul terreno, con la quale Israele continua a umiliare tutti i giorni la popolazione palestinese nei territori occupati.”

Una farsa”

Se l’annessione ufficiale della Cisgiordania è stata sospesa, il furto e l’appropriazione continui delle terre palestinesi non sono cessati, sottolinea, aggiungendo che l’annessione era stata ufficialmente rimandata parecchi mesi fa.

George Zeidan, Iyad Naser e Jawad Siyam hanno espresso la stessa opinione: che gli EAU si attribuiscano il merito della sospensione dell’annessione è una farsa.

“È demoralizzante vedere che gli EAU utilizzano l’annessione per mascherare le loro iniziative di normalizzazione,” insiste Jawad Siyam con MEE. “Cercano di mostrare che attraverso questo accordo sostengono la Palestina, ma si capisce chiaramente il loro gioco.”

“Si sa che non è così. Con questo accordo gli EAU hanno offerto a Trump e a Netanyahu un regalo per aiutarli a realizzare il loro programma politico,” spiega.

“Trump utilizza questo successo per la sua campagna elettorale e Netanyahu per portare avanti le sue politiche nei territori occupati,” continua Jawad Siyam. “Da quando in luglio ha sospeso ufficialmente l’annessione, Netanyahu è soggetto ad una forte pressione da parte della destra israeliana, così questo accordo lo aiuta a tenersi a galla.”

Iyad Naser sottolinea che alla fine l’annessione non è stata ufficialmente annunciata come previsto il primo luglio a causa della crescente pressione internazionale, delle minacce di condizionare l’aiuto a Gerusalemme da parte del Congresso americano e della posizione dei cittadini palestinesi e dei loro dirigenti.

“Con l’aiuto della comunità internazionale abbiamo fatto pressione su Israele e sugli Stati Uniti per bloccare l’annessione,” dice. “Gli emirati non hanno fatto niente. Non gli permetteremo di usarla come scusa per mascherare la loro vergogna.”

Iyad Naser ricorda l’iniziativa di pace del 2002, che offriva un più ampio riconoscimento di Israele se quest’ultimo si fosse ritirato all’interno delle frontiere del 1967 e avesse risolto il problema dei rifugiati palestinesi.

Nel quadro dell’iniziativa di pace araba la normalizzazione con Israele avrebbe dovuto essere l’ultima tappa di questo processo,” insiste. “Prima avrebbero dovuto essere garantiti i diritti dei palestinesi, restituite le loro frontiere e le loro terre, la loro libertà, poi sarebbe venuta la normalizzazione. E non il contrario.” 

In tutto lo spettro politico gli attivisti e i dirigenti palestinesi sono d’accordo sul fatto che questo accordo tra Israele e gli EAU costituisca un pericoloso precedente nella regione e a livello internazionale.

La Giordania, l’Egitto e ora gli EAU sono per il momento gli unici Paesi arabi ad avere ufficialmente relazioni diplomatiche con Israele. I palestinesi ritengono che questo nuovo accordo aprirà la strada ad altri Paesi della regione. 

“Questo accordo è pericoloso perché legittima l’occupazione dal punto di vista internazionale,” dice a MEE George Zeidan.

“Quando le persone vedranno che i Paesi arabi cominciano a firmare accordi con Israele sarà più difficile fare pressioni su Israele per porre fine alle sue violazioni dei diritti umani nei territori occupati.”

“Il sostegno alla nostra causa e alla liberazione tra gli Stati arabi verrà inevitabilmente indebolita,” prevede il responsabile di Fatah. “Oggi dirigenti come MBZ e MBS (il principe ereditario saudita Mohammed ben Salman) tradiscono le politiche dei loro nonni che appoggiavano la Palestina. E altri Paesi finiranno per seguire l’esempio degli Emirati.”

Nonostante un futuro che sembra oscuro e la possibilità di una normalizzazione regionale con Israele, i palestinesi dicono di sperare ancora che il sostengo alla loro causa si manifesterà tra i popoli di tutto il mondo.

“Malgrado il sostegno degli Stati del Golfo a Israele, abbiamo potuto constatare più volte che i popoli arabi sostengono sempre i palestinesi e la nostra lotta per la libertà,” nota Jawad Siyam.

“Anche se non abbiamo il sostegno dei loro dirigenti, speriamo che i popoli di tutto il mondo continueranno a sostenere i diritti dell’uomo e a fare pressione su Israele per mettere fine all’occupazione.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)

 

 

4. Appello per la Libertà per il difensore dei diritti umani palestinese, Mahmoud Nawajaa

18 agosto 2020

 

Egregio Signor Ministro,

Il 30 luglio, alle 3:30 del mattino, le forze di occupazione israeliane hanno arrestato il coordinatore generale del Comitato nazionale palestinese del BDS*, Mahmoud Nawajaa, nella sua casa vicino a Ramallah nei Territori Palestinesi Occupati (TPO). Hanno preso d’assalto la sua casa, lo hanno bendato e ammanettato, portandolo via da sua moglie e da tre bambini piccoli.

Il 2 agosto è stato deciso dal Tribunale militare israeliano il prolungamento dell’arresto per 15 giorni, senza accuse né prove.

Il trasferimento di Nawajaa, nella prigione di Jalameh, in Israele, dove è attualmente detenuto, costituisce un atto di deportazione illegale, una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra (articoli 49 e 147) e un crimine di guerra ai sensi dello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale (Articolo 8).

Nawajaa, 34 anni, è un giovane difensore dei diritti umani, che ha lavorato instancabilmente per potenziare l’organizzazione di base nei TPO.

L’arresto di Mahmoud avviene in un momento in cui la società civile palestinese richiede misure efficaci di responsabilizzazione da parte della comunità internazionale, compresa l’UE, per impedire l’annessione de jure, pianificata da Israele, del 30% della Cisgiordania occupata, che comprende insediamenti israeliani illegali e parti della Valle del Giordano, e per fermare l’annessione di fatto in corso e l’apartheid da parte di Israele.

Mahmoud Nawajaa non è l’unico palestinese sottoposto all’arresto arbitrario, alla detenzione e alla carcerazione da parte delle autorità israeliane. Per presunti reati contro la sua “sicurezza”, Israele attualmente detiene nelle sue carceri circa 4.700 palestinesi, compresi bambini, centinaia dei quali sono in detenzione amministrativa, senza accuse. Nelle attuali circostanze, con la diffusione del virus COVID19, la detenzione di massa aggrava i rischi per la salute e la sicurezza di tutti i detenuti, aggiungendosi alla pratica comune di torture e trattamenti degradanti e disumani per i prigionieri palestinesi.

Di fronte alla crisi COVID, le autorità israeliane hanno anche ignorato l’appello dell’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Michelle Bachelet a tutti i governi per rilasciare “ogni persona detenuta senza una base giuridica sufficiente”, compresi prigionieri politici e altri, detenuti per avere espresso opinioni critiche o dissenzienti.

La UE si è impegnata a sostenere e proteggere i difensori dei diritti umani nei paesi terzi, in conformità con le sue Linee guida sui difensori dei diritti umani e al fine di consentire loro di operare liberamente: di conseguenza, deve agire ora per garantire l’immediata liberazione di Mahmoud Nawajaa da parte di Israele.

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha confermato che la difesa della campagna BDS rientra nel diritto alla libertà di espressione protetta dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani.

Alla luce di quanto sopra, sollecitiamo fortemente il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano a:

1. Intraprendere tutte le azioni a sua disposizione per garantire l’immediata liberazione del difensore dei diritti umani palestinese Mahmoud Nawajaa da parte di Israele.

2. Condannare pubblicamente Israele per la sua politica di molestie e intimidazioni nei confronti dei difensori dei diritti umani che, come Mahmoud, sono soggetti ad arresto e detenzione arbitrari per la loro difesa attiva dei diritti umani del popolo palestinese.

Alla luce delle flagranti e sistematiche violazioni dei diritti umani da parte di Israele e sulla base delle raccomandazioni contenute nella relazione sulle politiche dell’UE in materia di difensori dei diritti umani (2010) al fine di migliorare la coerente politica europea in materia di diritti umani e protezione dei difensori dei diritti umani, sollecitiamo il Governo Italiano a:

• Sospendere gli accordi di cooperazione economica e agire in sede di Unione europea per interrompere l’Accordo di Associazione preferenziale tra l’UE e Israele per ripetute inosservanze dell’articolo 2 in materia di conformità e protezione dei diritti umani;

• Sospendere il commercio di armi e la cooperazione nel settore militare, in particolare l’accordo militare tra Italia e Israele regolato dalla Legge 17 maggio 2005 n° 94, gli accordi di collaborazione industriale, scientifica e tecnologica e gli accordi in materia di sicurezza;

• Mettere al bando gli scambi commerciali con gli insediamenti illegali israeliani e assicurarsi che le compagnie si astengano da o terminino i loro affari con le colonie illegali di Israele in Cisgiordania, inclusi a e Gerusalemme est;

• Garantire che gli individui e le imprese responsabili di crimini di guerra / crimini contro l’umanità nel contesto del regime israeliano di occupazione illegale e di apartheid siano assicurati alla giustizia.

* Il Comitato Nazionale Palestinese del BDS (BNC), la più grande coalizione nella società civile palestinese, guida il movimento globale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza. Il BDS è ampiamente ispirato al movimento anti-apartheid sudafricano e al movimento per i diritti civili degli Stati Uniti. Il movimento è rigorosamente non violento e antirazzista.

Associazione Giuristi Democratici, Associazione Cultura è Libertà e le Associazioni componenti il Gruppo di lavoro su Medio Oriente e Nord Africa , Fondazione Lelio Basso

Category: Osservatorio Palestina

About Alessandra Mecozzi: Alessandra Mecozzi Nata a Roma il 14 novembre 1945. Né marito né figli. Ho due sorelle, un fratello e un mucchio di nipoti, madre novantunenne. Liceo Tasso e Università La Sapienza di Roma. Laureata nel 1970 con una tesi sulla Cgil. All’Università ho conosciuto la politica e il movimento studentesco, incontrato per la prima volta il sindacato. Non iscritta a nessun partito, dopo 2 anni di FGCI. Dalla fine del 1970 alla Fiom nazionale. Dal 1974 al 1990 alla FLM prima, poi alla FIOM di Torino/Piemonte. Nel 1975, con il gruppo dell’Intercategoriale donne cgil cisl uil di Torino, conosco e pratico il femminismo, nel sindacato e alla casa delle donne. 1983: primo convegno internazionale su donne e lavoro “Produrre e riprodurre”; 1987 : costruiamo Sindacato Donna nella CGIL. La politica per la pace, la incontro a Gerusalemme e nei territori palestinesi occupati, nel 1988, con donne italiane, palestinesi e israeliane (“Donne a Gerusalemme”, Rosenberg&Sellier), dopo una breve esperienza nei campi profughi palestinesi in Libano, in seguito a un appello di Elisabetta Donini. Nel 1989, eletta nella Segreteria Nazionale della Fiom, torno a Roma. Dal 1996, responsabile dell’Ufficio internazionale e, successivamente, anche della rivista della fiom Notizie Internazionali. Contribuisco alla nascita di “Action for Peace” (2001) un progetto di molte associazioni, per la presenza di missioni civili in Palestina/Israele; dal 2002 nel Coordinamento Europeo per la Palestina (ECCP). Partecipo dal 2001 - Genoa Social Forum - al processo del Forum sociale mondiale e del Forum sociale europeo. Dal 2012, “libera dal lavoro”, sono volontaria con “Libera” per l'area medio oriente e maghreb-mashreq e presidente della associazione “Cultura è Libertà, una campagna per la Palestina”.

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