Simone Pieranni : La Cina e l’espandersi del sovranismo digitale

| 1 Novembre 2020 | Comments (0)

 

 

 

 

Diffondiamo da “Inchiesta” 209 luglio settembre 2020. Simone Pieranni è collaboratore del Manifesto. Autore di molti saggi e opere sulla Cina. Ha pubblicato recentemente “Red mirror . Il nostro futuro si scrive in Cina” Editori GLF Laterza

La Cina ha superato la pandemia di coronavirus, dilagata da Wuhan, una città cinese di 11 milioni di abitanti, grazie a due fattori: la mobilitazione di massa e l’intelligenza artificiale applicata all’emergenza sanitaria. Si tratta di due elementi in grado di raccontare l’attuale situazione della Cina, cogliendone tanto aspetto “interni” quanto “esterni” in grado di focalizzare le dinamiche sociali e internazionali del gigante asiatico. La mobilitazione di massa conferma la capacità del partito comunista di accendere interruttori invisibili in grado di attivare migliaia di persone per concorrere a un obiettivo comune. C’è chi segue i dettami perché ritiene siano giusti e basta, chi lo fa in nome di un maoismo che appare sfumato e invece è ancora radicato in larghe fasce sociali, chi perché inconsciamente confuciano: rimane il fatto che i cinesi si sono mobilitati perché hanno ritenuto fosse una cosa che andava fatta. Questo livello di mobilitazione sociale è anche uno degli aspetti spesso più ignorati dell’attuale società cinese, perché va a indagare l’architrave valoriale di una società che ha dimostrato di saper pescare dalla propria storia, grazie all’abilità del partito comunista di aggiornare messaggi e di ridisegnare traiettorie politiche precedentemente abiurate.

 

La mobilitazione di massa

Nella storia della Cina dal 1949 a oggi, il partito comunista ha più volte «mobilitato» organi dello stato, amministrazioni e popolazione, per ottimizzare le risposte in casi di emergenza e crisi improvvise, quei «cigni neri» (gli eventi inaspettati) da cui aveva messo in allerta Xi Jinping mesi fa. La risposta all’epidemia di Sars del 2003 e il terremoto del Sichuan nel maggio del 2008 sono esempi di quanto il Pcc intenda per «mobilitazione», considerata fondamentale per quello che viene definito il «successo nella ricostruzione». Una crisi, un’emergenza, possono creare dei meccanismi spinti dall’alto in grado di riporre il Pcc al centro della scena sociale in Cina, quale motore ed equilibratore di situazioni complicate anche nel tentativo di fare dimenticare le iniziali manchevolezze della macchina politico-amministrativa.

La mobilitazione (dongyuan) è infatti un concetto fondamentale nella politica contemporanea cinese. Come ricorda Li Zhiyu in Afterlives of chinese communism (Verso, 2019) il termine «indica l’uso di un sistema ideologico da parte di un partito o di un sistema politico per incoraggiare o costringere i membri della società a partecipare a determinati obiettivi politici, economici o sociali, al fine di raggiungere risultati e un corretto dispiegamento di risorse e persone su larga scala». È quanto accaduto con il coronavirus.

Rilevamento di temperatura ovunque, specie nelle entrate delle metropolitane. Pulizia costante dei mezzi pubblici, laddove non ne era stata bloccata la circolazione. Ogni città ha fatto il suo: in alcuni posti si sono ridotti gli orari di lavoro dei supermercati o dei centri commerciali per evitare rischi contagio, in altri – specie nei villaggi – tutti hanno cercato di aiutare come hanno potuto i medici incaricati di andare di casa in casa a rilevare febbre e segnalare eventuali contagi. Con il blocco dei mezzi molti privati si sono messi a disposizione di ospedali per trasportare materiali da un luogo all’altro, dedicando l’intera giornata a questo. Qualcuno ha raccontato di temere il contagio, ma di sentire altresì la necessità di dare una mano. Esercito, medici inviati sul posto ma anche la quarantena in quindici città, la più grande della storia.

Come ha specificato He Qinghua, un funzionario della commissione nazionale sanitaria cinese, «Dobbiamo dare il massimo quanto alla capacità di mobilitazione delle comunità, specie quelle rurali, affinché tutti gli sforzi siano concentrati nel frenare la diffusione del virus». Nonostante il – grave – ritardo con cui la Cina ha cominciato ad affrontare il coronavirus e la sua diffusione, la popolazione cinese è parsa disposta a sostenere le decisioni arrivate dall’alto.

Il fatto che Li Keqiang, il numero due del partito nonché primo ministro, si sia recato a Wuhan e che Xi Jinping abbia incitato i cinesi ad affrontare l’evento «diabolico», hanno finito per iniettare nella popolazione una fiducia capace di mettere in secondo piano l’impasse dimostrata dalla burocrazia nell’affrontare l’emergenza. Li Keqiang, dopo il suo accorato appello direttamente da Wuhan, ha ricordato agli organi scientifici di dover «correre contro il tempo per scoprire l’origine e il meccanismo di trasmissione del nuovo coronavirus, la ricerca sullo sviluppo del vaccino e fornire supporto tecnologico per migliorare la diagnosi e il trattamento». In generale la politica ha fatto un chiaro riferimento alla popolazione invitando alla mobilitazione generale.

A partire proprio dagli abitanti di Wuhan che, tra qualche isterismo provocato da rumors velocissimi a diffondersi su WeChat e l’urlo liberatorio (Wuhan jiayou, forza Wuhan) nel cuore della notte di una città in quel momento completamente deserta, hanno affrontato l’imposizione della quarantena cercando di gestire al meglio la preoccupazione dovuta all’assenza di una prospettiva chiara della situazione di emergenza. Del resto in passato è andata più o meno nello stesso modo, ma i ritardi politici erano stati molto prolungati dando l’impressione di essere fatali. Nel caso del coronavirus la lentezza della risposta statale ha causato danni, ma sembra assodato che i cinesi in questo momento preferiscano dedicarsi alla ricerca di soluzioni anziché puntare il dito.

Nel sistema cinese ci sono tante difetti ma alcune certezze. Una di questa è la punizione dei funzionari ritenuti responsabili di atteggiamenti che hanno messo a rischio la salute della popolazione. Ugualmente consueta è la partecipazione alla «mobilitazione» da parte di miliardari e delle più importanti aziende del settore hi-tech o statali. Jack Ma, fondatore di Alibaba, ha annunciato che donerà 100 milioni di yuan (14,4 milioni di dollari) per sostenere la ricerca di un nuovo vaccino.

Oltre alla mobilitazione, in grado di rappresentare tante delle caratteristiche cinesi, c’è anche la corsa tecnologica dell’ex Impero celeste: lo sviluppo di Intelligenza artificiale e robotica hanno aiutato la popolazione e l’autorità a gestire la pandemia, aprendo però un contenzioso sempre più serrato con gli Stati Uniti. Per capire oggi la postura cinese e le sue capacità di sviluppo di nuove tecnologie, dunque, è necessario analizzare il rapporto complicato con l’altra potenza mondiale, gli Usa.

La corsa tecnologica: lo scontro con gli Usa La storia tecnologica cinese parte da lontano e ha avuto come costante il confronto con gli Stati Uniti. Se negli anni del maoismo l’entusiasmo per il primo transistor provocò il lancio di progetti per una sorta di via nazionale alla tecnologia, nel medio periodo non diede i risultati sperati, poiché basato su una valutazione errata. I maoisti pensavano che scienza e tecnologia avrebbero da soli garantito crescita economica e industriale, esattamente come avevano pensato in Unione Sovietica. Mao, inoltre, riteneva che avendo bollato il confucianesimo di «vecchiume» e di conseguenza come contro rivoluzionario, anche le barriere filosofiche che non avevano mai indagato scetticismo e sperimentazioni, sarebbero saltate. Il passaggio da ricerca a sviluppo si rilevò fallimentare e quando Mao abbandonò il modello sovietico per imporre il suo, fu ancora peggio. Durante la Rivoluzione culturale anche quel poco che funzionava crollò: gli scienziati finirono nel mirino delle guardie rosse, accusati di vivere nella «torre d’avorio»; la scienza venne riservata a dilettanti «vicini alle masse». Infine via via università e istituti chiudevano per riaprire solo nel 1976, alla morte di Mao. Ma era troppo tardi, bisognava ripartire da zero.

È quanto fece Deng Xiaoping con le aperture e le riforme, chiedendo aiuto all’ex peggiore nemico, l’America. Le riforme e le aperture di Deng significarono accordi con gli Usa, joint ventures, studenti mandati all’estero nelle migliori università americane e giapponesi e ingresso – con grande soddisfazione di Washington – della Cina nel Wto (nel 2001): nasceva così la «fabbrica del mondo» nelle zone costiere sud orientali del paese. Contemporaneamente la Cina – mentre produceva manifattura per tutto il mondo – cominciava a finanziare in modo pesante ricerca e sviluppo tecnologico. L’obiettivo, colmare il divario con gli Usa.

A gestire la fase determinante dell’attuale posizionamento hi-tech cinese dal 2002 al 2012 è stato il segretario del partito comunista e presidente della Repubblica popolare Hu Jintao a capo della generazione di tecnocrati che per un decennio proseguono nelle riforme di Deng, consegnando a Xi Jinping un paese completamente rinnovato e pronto a fare concorrenza agli Usa sui mercati internazionali.

Xi Jinping ci mette del suo: lancia il progetto Made in China 2025, la nuova via della seta e soprattutto, senza fanfare e troppo rilievo mediatico, chiede alle aziende cinesi di andare all’esterno e conquistare mercati. L’arma è quella degli investimenti diretti: si acquisiscono aziende straniere per strappare know how. Oggi la Cina è il paese deputato a diventare leader mondiale nell’Intelligenza artificiale, a sviluppare per primo centinaia di smart city e a diffondere sul proprio territorio le reti 5G: minor latenza, internet delle cose, città futuriste e totalmente sotto controllo del partito comunista cinese.

Una simile postura non poteva che incrociare, ancora una volta, i destini degli Stati Uniti. A provare – per primo – a ostacolare il percorso cinese, però, non è stato Donald Trump, bensì Obama. Nell’ottobre del 2012, a seguito di un’indagine durata un anno circa, il Comitato permanente sull’intelligence della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti era giunto alla conclusione che le aziende cinesi, Huawei Technologies e Zte Inc., rappresentassero una minaccia alla sicurezza nazionale «a causa dei loro tentativi di ottenere informazioni sensibili dalle aziende americane e della loro lealtà nei confronti del governo cinese». Obama tornò poi sull’argomento anche nel 2014: poco prima di incontrare Xi Jinping, difese le attività della National Security Agency volte a tenere sotto controllo il colosso cinese, rendendo così evidente come il sentimento di sospetto nei confronti dell’azienda fondata a Shenzhen nel 1987 da Ren Zhengfei, ex vicedirettore del genio militare cinese, fosse completamente bipartisan. La complicata relazione tra Stati Uniti e Cina, con la Huawei spesso a rappresentare l’acme di questa diatriba, parte da quegli anni.

Il resto è storia recente e inizia nel marzo del 2018, quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump decide di affrontare di petto il disavanzo economico americano con la Cina sanzionando prodotti cinesi. Si tratta di misure ben congegnate dal punto di vista americano che vanno a colpire per lo più la nuova produzione tecnologica cinese. Xi Jinping risponde a suo modo: il giorno dopo l’annuncio delle sanzioni americane, si fa fotografare da tutti i media nazionali mentre visita un’azienda che lavora le terre rare, minerali fondamentali per l’industria tecnologica di cui la Cina ha ampie riserve. Il messaggio è chiaro: alle sanzioni americani possiamo rispondere.

In realtà la prima contro-manovra cinese sarà più politica, perché Pechino decide di bloccare le importazioni di soia e di bestiame dagli Usa, andando a peggiorare la condizione dei tanti allevatori del Midwest che avevano votato Donald Trump alle presidenziali del 2016. A fine novembre 2018 c’è il G20, con l’incontro tra Xi Jinping e Trump: sotto al tavolo c’è il 5G. Alla fine il compromesso arriva: Usa e Cina promettono di trovare un’intesa per scongiurare un aumento dello scontro commerciale nell’arco di 90 giorni. Ma tutto salta da lì a poco: in Canada viene arrestata Meng Wanzhou, figlia del fondatore di Huawei e boss finanziario dell’azienda. Viene fermata in Canada. Washington vuole estradarla. L’accusa è aver violato le sanzioni contro l’Iran. Inizia allora un procedimento legale che ancora non ha visto la sua conclusione.

Ma la vera posta in palio – come emerge sempre di più – è la sfida al 5G. Trump infatti non si ferma e nel maggio 2019 con un ordine esecutivo vieta la vendita di forniture americane alla Huawei, fortemente dipendente dagli Usa per quanto riguarda i microchip (tanto che oggi in Cina si sta discutendo se il colosso sarà in grado di reggere l’urto della controffensiva americana). L’accusa è sempre la stessa: l’installazione delle reti 5G da parte di Huawei, sostiene il Pentagono, mette a rischio la sicurezza nazionale americana a causa del rapporto tra azienda e governo cinese. Prove non ce ne sono ma basta l’intenzione: Huawei comincia a rischiare cospicui contratti anche in Europa, dove il pressing americano sugli alleati si fa sempre più forte. Ai paesi europei viene chiesto di bloccare l’ingresso sul mercato di Huawei.

Dopo l’anatema trumpiano Google si adegua al volo paventando il rischio che gli smartphone Huawei possano dover fare a meno del sistema operativo Android. Ma il vero fronte è quello delle forniture: lo stesso “blocco” aveva messo in ginocchio Zte l’azienda statale cinese competitors di Huawei. Pechino ha deciso allora di scaricare l’impresa connessa al 100 per cento con lo Stato cinese, puntando su Huawei, ufficialmente un’azienda privata.

 

L’ultima tappa, Tik Tok

Dopo Huawei è la volta di Tik Tok, popolare app di mini video, ramo americano della cinese ByteDance, la prima applicazione cinese che riesce a sfondare i mercati internazionali, conquistando milioni di adolescenti – e non solo – americani. Anche in questo caso Trump ripete le accuse già viste contro Huawei. Il problema sarebbero i dati raccolti dall’app, anch’essi a rischio di finire nelle mani del partito comunista cinese. Sia ByteDance sia Pechino hanno tentato di allontanare questa supposizione ma Donald Trump sembra avere proprio imparato dalla Cina come difendere il mercato interno. Con un ordine esecutivo nell’agosto 2020 la Casa Bianca obbliga l’azienda cinese a vendere a un compratore americano, pena l’esclusione dal mercato degli Stati Uniti. È un terremoto che conferma la spinta che arriva anche da una democrazia come quella americana verso una forma di “sovranismo digitale” che ricorda molto da vicino quanto Pechino fa da tempo. Fino ad oggi siamo stati abituati a osservare fenomeni di difesa dei confini digitali da parte di Stati considerati a diverso titolo «autoritari». Pechino in questo senso ha fatto scuola: il suo Great Firewall che blocca contenuti sgraditi e la censura nei confronti di prodotti stranieri, da un lato ha permesso al Partito comunista di controllare l’informazione, dall’altro ha fatto sì che le proprie aziende potessero fiorire senza la presenza di big occidentali: Tik Tok ma soprattutto WeChat sono il risultato di questo sovranismo digitale voluto e reso possibile in Cina. Su questa traiettoria nel tempo si sono indirizzati anche altri Stati, come ad esempio la Russia, la Turchia, l’Iran. Ma non solo perché nel mezzo di un confronto territoriale con Pechino, anche l’India ha bloccato l’utilizzo di decine di applicazioni e piattaforme cinesi (comprese Tik Tok e WeChat), segnando una svolta: per la prima volta un paese democratico, per quanto a tinte oscure quale è oggi l’India di Modi, seguiva l’operato della Cina. La decisione di Trump – dunque – segna un «momento Tik Tok» sia nell’ambito dello scontro con la Cina, sia in quello del mondo digitale, indicando una strada possibile anche per le democrazie.

Per quanto riguarda il primo punto, inoltre, bisogna considerare anche il comportamento dei big americani: quasi contemporaneamente all’ordine esecutivo di Trump su Tik Tok, lo scorso 29 luglio, gli amministratori delegati delle quattro big tech americane erano impegnati a rispondere a domande sulla loro posizione dominante nel mercato al Congresso Usa. Il più chiaro di tutti è stato Mark Zuckerberg di Facebook: di fronte alle spinte bipartisan a smembrare il suo impero ha ricordato che indebolire Facebook significa lasciare mano libera alla Cina, spauracchio – anch’esso – bipartisan. In questo senso si potrebbe allora leggere la volontà di bloccare WeChat, da sempre modello di business studiato da Zuckerberg: bloccare la piattaforma cinese significherebbe fare quanto la Cina ha fatto da sempre, ovvero favorire il mercato nazionale (in questo caso quello dei pagamenti elettronici).

In futuro dunque i casi Tik Tok potrebbero moltiplicarsi, con gli Usa impegnati a provare a bloccare l’accesso sul mercato americano a prodotti cinesi e la Cina tesa a complicare queste operazioni. Una specie di mondo capovolto rispetto a soli dieci anni fa, a testimonianza di come Pechino sia ormai parte integrante del nostro futuro.

 

Cosa aspettarsi?

L’ordine esecutivo e il potenziale tentativo di bloccare le operazioni «americane» delle «cinesi» Tik Tok e WeChat da parte di Trump che abbiamo descritto, pongono sul tavolo dell’attuale guerra fredda 2.0 tra Pechino e Washington più di un elemento da analizzare. Ci sono i dati, intanto, ci sono le questioni legate alla sicurezza informatica, ci sono i miliardi prodotti dalle piattaforme (anche Tik Tok e WeChat lo sono) e c’è, più di tutto, l’emergere definitivo del concetto di «sovranità digitale». Nel 2017 a un convegno sul futuro di internet il presidente cinese Xi Jinping aveva parlato chiaro a questo proposito, ponendo come obiettivo della Cina quello di garantire nell’immediato futuro la sovranità digitale della rete.

Fino ad oggi siamo stati abituati a osservare fenomeni di difesa dei confini digitali da parte di Stati considerati a diverso titolo «autoritari». Pechino in questo senso ha fatto scuola: il suo Great Firewall che blocca contenuti sgraditi e la censura nei confronti di prodotti stranieri, da un lato ha permesso al Partito comunista di controllare l’informazione, dall’altro ha fatto sì che le proprie aziende potessero fiorire senza la presenza di big occidentali: Tik Tok ma soprattutto WeChat sono il risultato di questo sovranismo digitale voluto e reso possibile in Cina (non a caso la rivista Quartz, molto attenta al tema del confronto tecnologico tra Cina e Usa ha titolato un suo articolo «Un blocco americano di Tik Tok è perfettamente in linea con il sogno cinese della sovranità digitale»).

Su questo tracciato si sono mossi nel tempo altri Stati, come ad esempio la Russia, la Turchia, l’Iran. Alcune settimane fa, nel bel mezzo di uno dei confronti muscolari presso i confini contesi con la Cina, è stata l’India di Modi a bloccare l’utilizzo di decine di applicazioni e piattaforme cinesi (comprese Tik Tok e WeChat), segnando una svolta: per la prima volta un paese democratico, per quanto a tinte oscure quale è oggi l’India di Modi, seguiva l’operato della Cina. La decisione di ieri di Trump segna un «momento Tik Tok» nell’ambito del mondo digitale, indicando una strada possibile anche per le democrazie.

Sui motivi di Trump, razionali o dettati da meri calcoli elettorali, ci sarà tempo di indagare ma intanto una prima milestone è stata posta. Per quanto riguarda gli Usa, inoltre, esistono altri aspetti da indagare, legati a una mancanza di strategia «statale» sul ruolo delle piattaforme nell’ecosistema economico e politico. Non può sfuggire che quasi contemporaneamente agli anatemi contro le app cinesi, lo scorso 29 luglio gli amministratori delegati delle quattro big tech americane erano impegnati a rispondere a domande sulla loro posizione dominante nel mercato al Congresso Usa. Le piattaforme sono come Stati con un proprio Pil, proprie alleanze, visioni «imperiali» e sempre più spesso, in questo mondo che tende al sovranismo, hanno compreso come utilizzare il linguaggio della politica.

A questo proposito il più chiaro di tutti è stato Mark Zuckerberg di Facebook: di fronte alle spinte bipartisan a smembrare il suo impero ha ricordato che indebolire Facebook significa lasciare mano libera alla Cina, spauracchio – anch’esso – bipartisan. In questo senso si potrebbe allora leggere la volontà di bloccare WeChat, da sempre modello di business studiato da Zuckerberg: bloccare la piattaforma cinese significherebbe fare quanto la Cina ha fatto da sempre, ovvero favorire il mercato nazionale (in questo caso quello dei pagamenti elettronici). Per Tik Tok l’obiettivo di Trump rimane più nebuloso: provando a razionalizzare la decisione della Casa bianca, si dovrebbe allora seguire la pista dei Big Data. Con un eventuale blocco, Tik Tok, o almeno la sua parte cinese, non potrebbe più trasferire i dati americani in Cina, sempre che lo abbia mai fatto. Anche in questo caso Trump insegue la Cina: sia la legge sulla cybersecurity, sia la bozza di legge riguardo la gestione dei Big Data da parte di Pechino vanno in questa direzione, quella di non consentire ad aziende straniere di trasferire fuori dalla Cina i dati ottenuti al di là della Muraglia. Secondo uno studio di Technode compiuto sulla proposta di legge cinese, «entro il 2025 la somma di dati creati, collezionati o copiati in Cina aumenterà da 7,5 zettabytes (uno zettabyte equivale a circa 200 miliardi di Dvd) a 46,6 zettabytes, contando per il 27,8% dei dati di tutto il mondo. Nello stesso periodo i dati americani peseranno per il 17,5%». E i dati producono soldi.

Piattaforme, Big Data e sovranità digitale costituiranno i tre attori fondamentali del nostro prossimo futuro. Il nostro problema semmai è di adattamento: pensavamo che sarebbe stato l’Occidente a guidare un processo di razionalizzazione e ordine del capitalismo delle piattaforme e invece sta accadendo esattamente il contrario, con gli Stati occidentali a rincorrere la Cina. Solo che il modello cinese, secondo la stessa ammissione dei cinesi, è difficilmente replicabile: per questo il tentativo di guidare una sorta di «imitazione» non potrà che creare cortocircuiti di cui sarebbe bene avere coscienza, perché la benzina di questi sommovimenti apparentemente virtuali siamo noi, con i nostri dati.

 

Category: Osservatorio Cina, Osservatorio internazionale, Ricerca e Innovazione

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