Riccardo Petrella: I beni comuni pubblici mondiali. I nodi da sciogliere

| 18 Luglio 2014 | Comments (0)

 

 

 

 

Diffondiamo questo articolo di Riccardo Petrella, promotore dell’Università del bene comune e della campagna “Dichiariamo illegale la povertà” scritto per la rivista “Solidarietà internazionale” del CIPSI

 

Il concetto di “beni comuni” è diventato assai popolare nel corso degli  ultimi 15-20 anni. Nel mondo, – ricordiamo, per esempio,  la “battaglia per l’acqua” a Cochabamba (Bolivia) nel 2000  o la lotta di milioni  di contadini in India e in America latina contro l’appropriazione privata dei semi –  ciò’ è accaduto in reazione all’ondata di mercificazione e di privatizzazione di tutti i beni ( servizi annessi) considerati nel passato come “beni sociali”, “beni della comunità”. In Italia,  la popolarità si deve soprattutto ai  due referendum abrogativi del 2011 approvati da 27 milioni di Italiani contro la mercificazione dell’acqua e la privatizzazione dei servizi idrici.  La battaglia referendaria ha permesso di portare “i beni comuni” all’ordine del giorno dell’agenda politica italiana. Nell’esempio dell’acqua, la popolarità del concetto si manifesta principalmente a livello dell’opinione pubblica, molto meno in seno alle classi politiche ed economiche dirigenti. Nella maggioranza dei paesi esse sono  favorevoli alle tesi sull’acqua come ‘bene economico”, merce, vendibile, appropriabile a titolo privato, sottomessa alle “leggi” del mercato ed alle “logiche” finanziarie.

Il successo non ha, pero”, eliminato una serie di nodi concettuali e politici la cui permanenza spiega anche le ragioni per le quali “i beni comuni” non figurino, salvo in alcuni paesi dell’America latina, al vertice delle priorità “politiche” né nazionali né continentali, né mondiali ma solo, in misura minore,  a livello locale.

 

1. Il primo nodo è la banalizzazione del concetto, in particolare dell’aggettivo pubblico.

 

(Quasi) tutto è diventato “un bene comune”. Non solo l’aria, l’acqua, la conoscenza, l’energia solare, l’alimentazione, la salute, l’informazione…… ma  la lista tende a diventare senza fine. Così si parla di “beni comuni” in riferimento ad un prodotto agricolo tipico locale, ad un dipinto di Picasso , ad una specie di margherita, ad  un’opera di ingegneria o di architettura come la Torre Eiffel a Parigi,  l’Empire State Building di New York,. Recentemente un  partito politico del nostro paese, il PD per non menzionarlo, ha usato lo slogan “Italia, bene comune”. Si è giunti anche a considerare il lavoro salariato, mercificato, e persino precario, senza diritti, come un “bene comune” tanto che  molte persone preferiscono avere un siffatto lavoro anziché perdere l’impiego e così diventare impoveriti, perché “senza lavoro”.   Penso che Il fenomeno, incontestabile, sia dovuto a due fattori principali.

Da un lato, l’esistenza di beni comuni appartenenti a soggetti collettivi ma privati, cioè che non posseggono le proprietà specifiche di soggetti pubblici, “nati” e creati per funzioni e responsabilità comuni a tutti, d’interesse generale. I beni di una cooperativa o di una congregazione religiosa sono “comuni”  ai loro membri e, quindi, appartenenti ad una collettività, ma non per questo possono essere considerati “pubblici”, inerenti alla società in quanto tale. E’ importante riconoscere che ci sono “beni comuni privati”. Il problema è identificare i “beni comuni pubblici”.

Dall’altro lato, v’é stato in questi  ultimi anni un’influenza notevole esercitata nel mondo occidentale sulla concezione e la pratica dei beni comuni  da parte delle tesi espresse dal premio Nobel dell’economia del 2009, l’americana Ellinor Ostrom, attribuitole proprio per i suoi lavori sui beni comuni.in particolare i beni “ambientali” quali l’aria, l’acqua, il suolo. Ella ha realizzato un lavoro considerevole e prezioso sulle diverse forme alternative di governo (Ostrom parla piuttosto, e non a caso,  di “governance” ) dei beni comuni: dalla gestione pubblica diretta alla privatizzazione, dalla regolazione amministrativa alle politiche di tassazione, evidenziando meriti e rischi delle diverse soluzioni istituzionali. La conclusione per Elinor Ostrom, influenzata dalla forte tradizione culturale americana antistatalista in economia,  è che un bene comune è tale allorché vi sono degli qppropriators (“appropriatori”), pubblici e privati,  che considerano il bene da loro appropriato individualmente e collettivamente come un bene comune e, che  per queste ragioni, inventano un’ingegneria di “governance” fondata su sistemi misti di proprietà e di gestione individuale e collettiva. La mistura consentirebbe una  “governance” partecipata e solidale. In Europa, le tesi della Ostrom sono state valorizzate in favore delle tesi sulla “terza via” tra Stato e mercato, sul ruolo crescente della privatizzazione “efficientista” della gestione di beni comuni affidata a soggetti “pubblici non statali” ,  e sull’importanza della gestione “partecipativa” fondata sui “portatori d’interesse” (appropriatori). Mi sembra che dette tesi , lungi dal chiarire le cose, le abbiano oscurate rendendole più variabili e “assoggettate ” alla libertà e “alleanza ” tra gli ” appropriato” pubblici e privati. Il nodo di cosa si debba intendere per “beni comuni pubblici” resta così intatto.Sciogliere questo nodo è pregiudiziale per poter risolvere il secondo nodo.

 

2. Il secondo riguarda il carattere essenzialmente “mondiale” o non dei beni comuni pubblici.

 

La questione nasce dal fatto che finora, la visione e la pratica del governo dei beni comuni “pubblici” è stata legata alla sovranità degli Stati. Secondo i principi universalmente oggi condivisi, i proprietari titolari – gli appropriatori – dei beni comuni sono gli Stati . Tutti i beni “ambientali” sono considerati “naturalmente” proprietà degli Stati (“beni comuni della nazione”, “beni comuni del popolo”) sottomessi alla loro sovranità, a sua volta legittimata dalla responsabilità/obbligo da parte degli Stati di assicurare la “sicurezza” delle loro popolazioni (sicurezza alimentare, sicurezza idrica, sicurezza energetica, sicurezza del territorio….). Ora, la sovranità statuale e la sicurezza nazionale rappresentano oggi uno dei principali ostacoli strutturali ad una visione ed ad una pratica di  governo dei beni comuni pubblici a livello mondiale nell’interesse dell’umanità intera e dell’integrità della vita sul pianeta Terra. Anche i concetti e le pratiche di una effettiva e reale cooperazione internazionale intergovernativa sono fortemente penalizzati  dal mantenimento dei principi di sovranità e di sicurezza nazionali. Si pensi, ad esempio,  alle difficoltà di  governo dei bacini idrografici transazionali nell’interesse comune od alla cooperazione in materia di riduzione delle cause del cambiamento climatico e di mitigazione degli effetti.

Dietro il paravento e l’alibi della sovranità e della sicurezza di ciascun popolo, quel che prevale ancora oggi  è la pratica dell’accaparramento dei beni del pianeta da parte dei grandi gruppi multinazionali privati industriali, commerciali e finanziari  con la complicità ed il sostegno dei “loro ” Stati. Così,  malgrado la coscienza diffusa su scala globale della gravità e drammaticità delle grandi crisi ambientali, economiche, sociali, umane  e politiche attuali, rari sono gli esempi di azioni comuni mondiali efficaci prese ad opera dei poteri pubblici per la salvaguardia del diritto alla vita per tutti e del diritto della vita della Terra. La pretesa realizzazione degli obiettivi del Millennium 2015 dell’ONU  e della Banca Mondiale rispecchia una deliberata volontà di mistificazione. Le guerre, i fenomeni di dominio/sfruttamento e di ineguaglianza tra gli esseri umani rispetto ai diritti sono cresciuti in maniera drammatica.

 

3. I principi fondatori dei beni commi pubblici mondiali.

 

Alla luce di quanto precede è possibile proporre una visione ed una politica di governo della vita sul pianeta Terra e dei suoi abitanti, fondate sulla salvaguardia, la promozione ed il governo dei “beni comuni pubblici mondiali” (BCPM).

Il punto di partenza è costituito dai diritti umani (universali, indivisibili ed imprescrittibili) ad una vita degna nel contesto di un buon vivere insieme, e dai diritti della natura, quest’ultima essendo anch’essa riconosciuta come titolare del diritto di vita intesa nel senso di “buono stato ecologico di rigenerazione”. Cio’, in sintonia con una visione ed una cultura della diversità ed integralità vita che supera la vecchia ed ingiustificata separazione/opposizione tra gli esseri umani e la natura.

E’ ragionevole e pertinente sostenere che un bene comune pubblico mondiale (BCPM) si definisce sulla base dei criteri seguenti, l’assenza di uno o più di detti criteri essendo determinante per l’esclusione di un bene dalla categoria (ciò’ vale anche , con le debite qualificazioni, per i “servizi comuni pubblici mondiali”):

 

(1) Anzitutto, quel che conta è l’essenzialità e l’insostituibilità del bene per la vita ed il vivere insieme. I BCPM  sono essenziali ed insostituibili per la soddisfazione e la concretizzazione dei diritti umani  e dei diritti di vita della natura. Il nesso tra diritti universali e beni (e servizi) comuni pubblici mondiali è indissociabile. Per esempio, il diritto all’acqua, alla salute, …passa dalla salvaguardia universale del bene acqua, della sua disponibilità ed accessibilità nella quantità e qualità idonea per la vita in condizioni buone di salute, dalla partecipazione dei cittadini al suo governo.

Alcuni beni “naturali “(che non hanno unicamente una valenza ambientale) rispondono a questo criterio. E’  evidente che l’energia solare, l’aria, l’acqua (in tutti i suoi stati), la terra, l’atmosfera, le foreste primarie  sono dei beni comuni pubblici mondiali e che non possono essere appropriati a titolo privato da nessun soggetto, Stati compresi.

L’appropriazione patrimoniale di detti beni da parte degli Stati ( e delle varie comunità politiche  territoriali quali le regioni, i comuni,…) fa cadere l’aggettivo “mondiale” ed introduce una riduzione significativa alla valenza dell’aggettivo “pubblico” . Mantiene salvo invece  l’aggettivo “comune”.

Già nel “Manifesto dell’acqua” (prima edizione in francese del 1996) ho sostenuto che gli Stati non possono considerarsi proprietari dell’acqua ma soggetti fiduciari e responsabili del bene acqua in nome dell’umanità e della natura. Il concetto di “bene pubblico”  è essenzialmente legato non solo alla proprietà ma  soprattutto alla responsabilità collettiva del bene in ragione della natura pubblica del suo “valore” e dei suoi usi . Il regime  pubblico di proprietà non è  sufficiente per caratterizzare un bene comune come pubblico.

Inoltre, non tutti i beni naturali sono essenziali ed insostituibili per la vita ed il vivere insieme , specie su scala mondiale . Il petrolio , per esempio, la canna da zucchero, il caffè, le zone aride e desertiche, l’oro…. non lo sono. Il mondo ha vissuto senza petrolio per secoli e verosimilmente vivrà senza nei secoli e millenni futuri. Ma mai  nessuna specie vivente ha potuto vivere e vivrà senza acqua.

Nel campo dei beni “artificiali” si possono considerare essenziali ed insostituibili  la conoscenza (ricerca, educazione),  l’alloggio, l’alimentazione, la salute (igiene, sanità,… )  l’informazione/comunicazione , la creatività (arti, beni culturali…). In effetti  nessuna forma vita può’ mantenersi in assenza di conoscenza, di comunicazione e d’informazione. Lo stesso vale per il cibo e per l’alloggio. Tutti devono abitare un luogo. Per questo la città è un luogo di vita (oikos) pubblico,  e privilegiato quando il modo di vita è “sostenibile”.  Da qui,  fra l’altro,  “il diritto alla città”.

(2) Ecco perché il secondo criterio è costituito dalla responsabilità collettiva pubblica degli esseri umani a tutti i i livelli di organizzazione politica delle comunità umane, secondo il principio di solidarietà. La solidarietà non significa carità, generosità  o compassione nei confronti dei più deboli ma “responsabilità” (dalla figura giuridica del diritto romano “in solido“, in totalità, secondo la quale un membro di una comunità è responsabile in totalità e non in maniera limitata di quanto succede nella comunità).

L’esercizio della responsabilità deve essere effettuato secondo il principio di massima prossimità e visibilità. La responsabilità non può’ essere trasferita né delegata a soggetti privati. Essa può’ essere condivisa con soggetti pubblici non statuali solo in caso di necessità e  parzialmente per certe funzioni o servizi specifici, e sottomessa a controllo analogo. Ogni cittadino, individualmente e collettivamente,  é responsabile/ partecipa alla responsabilità comune, per esempio, del disastro climatico e della crisi  ambientale del Pianeta. I cittadini sono responsabili collettivamente della riduzione in corso della biodiversità, della rarefazione crescente dell’acqua buona per usi umani, della hyper-cementifcazione dei nostri territori, della sparizione graduale delle foreste primarie…… Si può certo affermare che i cittadini non hanno nessuna responsabilità perché sono stati manipolati, manovrati, e non sono stati correttemente informati e messi in grado di partecipare alle decisioni. E’ altrettanto corretto dire che, se si usa il criterio delle elezioni e dei rappresentanti eletti, i  cittadini  hanno aderito, entro i limiti rappresentati dalle elezioni “libere” e “democratiche”,  in qualche modo ai modo di vita generatore dei disastri sopra menzionati.

In realtà, il riconoscimento dei diritti umani e dei diritti della natura si traduce un un obbligo che la collettività assume di assicurare tutte le condizioni materiali ed immateriali (risorse finanziarie comprese) affinché  l’esercizio dei diritti possa essere effettivo grazie alla disponibilità ed accessibilità per tutti dei beni e servizi essenziali ed insostituibili per la vita ed il vivere insieme. . Le nostre classi dirigenti e l’insieme dei cittadini non possono consacrare nelle costituzioni degli Stati  e nei trattati internazionali vincolanti i diritti umani per poi non rispettare e realizzare gli obblighi corrispondenti.

A tal fine, terzo criterio,

(3)  i BCPM sono oggetto di un governo politico diretto, integrato (non segmentato) dal livello locale a quello (ancora raramente praticato)  supranazionale , fondato sulla gestione demaniale dei beni e la creazione di società pubbliche di servizio. Considerato lo stretto legame esistente tra diritti universali,  beni comuni pubblici mondiali e obblighi/responsabilità pubblica collettiva, il governo dei BCPM deve essere guidato dal principio dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani rispetto ai diritti e dal triplice imperativo della giustizia sociale, della sostenibilità ambientale e della partecipazione dei cittadini. Pur essendo raramente soddisfatto, anche a livello locale e nazionale –  non parliamo poi dei livelli sopranazionale e mondiale –  il requisito della partecipazione effettiva dei cittadini al governo dei BCPM  resta un “dasein”, un imperativo da realizzare nei prossimi anni. La sua assenza o debolezza manterrà i BCPM in uno stato d’incompletezza e di fragilità.

(4) Infine, la copertura finanziaria  governata dai principi dell’interesse generale e della buona gestione delle risorse finanziarie comuni pubbliche, deve essere assicurata e controllata da istituzioni ed organismi pubblici, sulla base della distinzione tra

– finanziamento dell’insieme dei costi relativi al bene ed ai servizi direttamente legati alla soddisfazione del diritto, di cui il bene/beni ed i  servizi sono strumentali

– finanziamento dell’insieme dei costi relativi alla salvaguardia, valorizzazione ed uso del bene non direttamente legati alla soddisfazione del diritto.

Un chiaro esempio dell’importanza e necessità di tale distinzione è offerto dal bene acqua. Se la la collettività (in questo caso l’Organizzazione Mondiale della Salute e la FAO ) hanno stabilito che 50 litri al giorno per persona di acqua nella qualità buona per usi umani costituiscono il volume di acqua sufficiente per garantire ad ogni  essere umano il diritto all’acqua potabile ed ai servizi igienico-sanitari,  e che 1.700 m3 annui per persona per tutti gli usi vitali  rappresentano il livello di acqua minimo sufficiente affinché una comunità umana non si trovi in stato critico di stress idrico, ne consegue che

a) i costi del diritto all’acqua potabile ed ai servizi igienico-sanitari devono essere coperti dalla finanza pubblica, via la fiscalità diretta e specifica e

b) lo stesso vale per i costi relativi al diritto ad uno stato di sicurezza idrica collettiva (fuori stress idillico).

Concretamente questo principio si traduce nel fatto che il cittadino non deve “pagare il costo del diritto all’acqua” (anche se “aiutato” da tariffe dette “sociali” in caso di reddito basso o di impoverimento) ma che, invece,  ogni altro uso (non legato al diritto) per esempio l’acqua per le piscine o l’acqua per produrre pomodori fuori stagione per l’esportazione o l’acqua per la produzione di gas da scisti bituminose, deve essere sottomesso ad un pagamento anche elevato ma entro un massimo di uso sostenibile, al di là del quale l’uso non sostenibile è vietato.

 

4. Conclusione

 

Il sistema sopra descritto dice due cose. Primo: la soddisfazione del diritto è un obbligo collettivo, per cui l’accesso al diritto per ogni cittadino  deve essere gratuito dove per gratuità non s’intende assenza di copertura dei costi,  ma il fatto che i costi sono presi a carico dalla collettività grazie al sistema mutualista della fiscalità progressiva e distributiva (che è stata una delle conquiste sociali di giustizia le  più avanzate del 19° e del 20° secolo). Secondo: non si può’ lasciare al mercato (esempio : “chi consuma paga” e “chi inquina paga” ) la responsabilità di regolare l’uso dei BCPM fissandone le priorità e le modalità.  Anche se uno paga non può’ “consumare” né “inquinare” al di là dei limiti della sostenibilità e della sicurezza collettiva. Il denaro non può’ pagare la perdita della qualità della vita, né tantomeno la perdita della vita.

Fra tutti i problemi critici che sono sul tappeto, la concretizzazione dei diritti umani  hic et nunc costituisce la criticità principale. Il riconoscimento della natura mondiale e della responsabilità pubblica mondiale del governo cooperativo dei beni e servizi essenziali ed insostituibili per la vita e dil vivere insieme rappresenta il passaggio “politico” chiave risolutivo.

 

Category: Dichiariamo illegale la povertà, Osservatorio Europa, Osservatorio internazionale

About Riccardo Petrella: Riccardo Petrella .Presidente dell'Istituto Europeo di Ricerca sulla Politica dell'Acqua a Bruxelles, è professore emerito dell'Università Cattolica di Lovanio (Belgio) dove ha insegnato "mondializzazione". E' promotore dell'Università del Bene Comune a Verona con la quale ha lanciato nel 2012 in Italia insieme a numerose organizzazioni l'iniziativa internazionale "Dichiariamo illegale la povertà - Banning poverty 2018". E' considerato il pioniere dell'acqua pubblica in Europa da cui è nato il movimento dell'Acqua Bene Comune in Italia. Fra i principali esponenti dell'altermondialismo ha creato nel 1991 il Gruppo di Lisbona, il cui rapporto "Limiti alla competitività" è stato tradotto in 12 lingue. Ha insegnato Ecologia umana all'Accademia di Architettura a Mendrisio (Svizzera). Attualmente sta coordinando la campagna "Dichiariamo illegale la povertà", alla quale la rivista «Inchiesta» aderisce attivamente ed è candidato per la Circoscrizione Nord Est per la Lista Un altra Europa per Tsipras.

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