Pierpaolo Mittica: Le ceneri del mondo e l’arte della memoria urgente

| 1 Dicembre 2014 | Comments (0)

 

Fino all’11 gennaio 2015  nella Galleria Herry Bertoia, Corso  Emanuele 60 di PORDENONE è possibile visitare la mostra del fotografo Pierpaolo Mittica dal nome “Ashes/ceneri. Racconti di un fotoreporter”. Mittica ha scelto di documentare 10 ordinarie emergenze:  Balcani: dalla Bosnia al Kosovo, 1997-1999, Incredibile India, 2002-2005; Chernobyl l’eredità nascosta 2002-2007; Vite riciclate, 2007-2008; Kawah Ijen – Inferno, 2009; Piccoli schiavi, 2010; Fukushima No-Go Zone, 2011-2012; Karabash, Russia, 2013; Mayak 57, Russia 2013; Magnitogorsk, Russia 2013.

 

 

Luciano del Sette: Le ceneri del mondo in dieci capitoli

Il Manifesto 18 ottobre 2014


Dopo, la sen­sa­zione è di sen­tirti addosso sfi­ni­mento e oppres­sione. Annu­sando l’aria sem­brano entrarti nel naso odori insop­por­ta­bili, dei quali non avevi prima cono­scenza. Gli occhi non vedono la vita quo­ti­diana che abi­tual­mente met­tono a fuoco. Guar­dano ancora altrove, ai grandi ret­tan­goli appesi den­tro le stanze dove è stata alle­stita la mostra Ashes/Ceneri, di cui, fino a un istante fa, sei stato spet­ta­tore. Ed è pro­prio a lei, alla mostra, che va attri­buita la colpa, anzi il merito, di tro­varti in que­sto stato d’animo. Cen­to­cin­quanta foto­gra­fie; dicias­sette anni di repor­tage tra Bal­cani e Giap­pone, India e Ban­gla­desh, ex Unione Sovie­tica. Una sola firma: Pier­paolo Mit­tica, qua­ran­tenne, den­ti­sta e foto­grafo; oppure, e già da tempo è così, foto­grafo e den­ti­sta. Le ceneri fis­sate da Mit­tica su pel­li­cola, rare le con­ces­sioni al digi­tale, sol­tanto quando l’uso del colore si è rive­lato neces­sa­rio, sono sparse su dieci luo­ghi diversi del pia­neta. Le ha rac­colte il per­corso espo­si­tivo che Por­de­none, negli spazi della nuova Gal­le­ria comu­nale Harry Ber­toia, pro­pone fino all’11 gen­naio 2015. Pur nella diver­sità di que­sti luo­ghi, il rac­conto diventa unico, sot­teso dalla guerra distrut­trice di una città o di una nazione, dalle tra­ge­die ambien­tali che annien­tano una col­let­ti­vità o con­dan­nano a morte senza appello un intero ter­ri­to­rio e la sua gente, dalla mise­ria più estrema e (per noi) impen­sa­bile, dalla schia­vitù in ver­sione aggior­nata ai tempi moderni, da lavori ter­ri­bili pagati meno di un micro­sco­pico pugno di soldi. Va pre­messo: Mit­tica ha tra­sfor­mato in foto­gra­fia il rac­conto senza cedere di un mil­li­me­tro al pru­rito della spet­ta­co­la­riz­za­zione, si è rifiu­tato di imbrac­ciare l’arma così maneg­ge­vole del pie­ti­smo; ha tenuto a debita distanza di sicu­rezza tutto ciò che i media vogliono e impon­gono sovente a repor­ter e gior­na­li­sti quando si tratta di ‘ven­dere’ sof­fe­renza, spe­cie se l’argomento riguarda il Terzo Mondo. Altra pre­messa: guida pre­ziosa è un libretto gra­tuito, all’ingresso della mostra. Nelle sue pagine, Pier­paolo rac­conta i luo­ghi in cui si è mosso, cosa è acca­duto e lo ha spinto ad andare lì. Pre­messa finale una delle intro­du­zioni al cata­logo, a firma dello scrit­tore Luis Sepúl­veda. Porta il titolo ‘L’arte della memo­ria urgente’, eccone un passo «Le imma­gini di Pier­paolo Mit­tica hanno la forza della con­tem­po­ra­neità, ci dicono che non dob­biamo atten­dere che la sto­ria uffi­ciale passi al setac­cio tutto ciò che, invece, dob­biamo far urgen­te­mente diven­tare parte della nostra memo­ria recente». La nostra memo­ria tende ad appan­narsi e a dimen­ti­care con rapi­dità. Gli eventi dram­ma­tici si sus­se­guono, si acca­val­lano, si sovrap­pon­gono. Ciò che oggi foca­lizza l’attenzione e apre uno sce­na­rio sul quale riflet­tere, qual­che tempo dopo viene supe­rato da un altro evento. Gior­nali e tele­vi­sioni fanno la loro parte nell’oblio, salvo ripor­tare alle luce eventi quali il con­flitto dei Bal­cani, Cher­no­byl, Fuku­shima, quando ne cade l’anniversario. Poi torna il silen­zio. Ci siamo dimen­ti­cati della guerra dei Bal­cani, di Cher­no­byl, di Fuku­shima, oppure non ci ricor­diamo bene cosa avvenne. Mit­tica le rimette davanti al nostro sguardo. I Bal­cani sono mace­rie urbane e un uomo che ci cam­mina in mezzo, reso minu­scolo dalla pro­spet­tiva dello scatto; facce sper­dute die­tro i fine­strini di un bus urbano che su una fian­cata espone la pub­bli­cità mul­tiet­nica della Benet­ton; tre bam­bini, pistole — gio­cat­tolo in mano a fin­gere la guerra den­tro una guerra vera. Fango, acqua, nubi immense, quar­tieri e case disa­bi­tati per sem­pre, la vec­chia di nome Elena men­tre davanti alla sua casa guarda pas­sare una fila di ana­tre; la pic­cola Euge­nia, nove anni, amma­lata di leu­ce­mia, a mostrare dal letto la foto della bam­bina che era; la ruota e i seg­gio­lini del parco gio­chi Pry­piat che non girano più. Que­sta la Cher­no­byl di Pier­paolo tra il 2002 e il 2007. Di sobrietà potente le imma­gini di Fuku­shima, rea­liz­zate tra il 2011, quando il ter­re­moto dan­neg­giò i sistemi di sicu­rezza e di raf­fred­da­mento del reat­tore nucleare gestito dalla Tepco, e il 2012. Il repor­tage si muove tra i det­ta­gli: un giub­botto di pelle e accanto un vinile, abban­do­nati sul pavi­mento di una casa; un paio di infra­dito sotto un mobile; un calen­da­rio con la data fatale dell’11 marzo sulla parete di un uffi­cio ridotto a cumulo informe di com­pu­ter, scri­va­nie, divani, dos­sier; un super­mar­ket dopo un sac­cheg­gio; Mutzumi e altri resi­denti men­tre rac­col­gono le poche cose super­stiti della pro­pria abi­ta­zione prima di andar­sene per non tor­nare mai più; il signor Matzu­moto, con­trac­tor della Tepco, in pre­ghiera sulla tomba di fami­glia. Lacrime nasco­ste die­tro il velo di una masche­rina di protezione.

Il recu­pero della memo­ria è, tut­ta­via, solo una parte, indub­bia­mente signi­fi­ca­tiva, del lavoro di Mit­tica. Altret­tanto signi­fi­ca­tiva, infatti, è la ricerca com­piuta dal foto­grafo per togliere il velo a cata­strofi igno­rate o nasco­ste, allo sfrut­ta­mento di uomini e bam­bini, a una povertà di cui non riu­sci­remo mai ad essere pie­na­mente con­sa­pe­voli. Il dramma della povertà aleg­gia in tutti gli spazi della mostra. La sua tra­du­zione nella richie­sta di ele­mo­sina è immor­ta­lata nella foto scat­tata da un taxi di Mum­bai, mega­lo­poli indiana, sedici milioni di abi­tanti. Un uomo con la barba, tur­bante in testa, pro­tende un brac­cio, la mano spa­lan­cata, all’interno dell’auto. I suoi occhi sono sbar­rati. Pier­paolo descrive così quello scatto «Ero a bordo del taxi, fermo nel traf­fico. Il men­di­cante si affac­cia al fine­strino, tende la mano, io cerco in tasca qual­che moneta, il taxi si rimette in moto. E allora l’uomo assume un’espressione dispe­rata. Sta per­dendo gli spic­cioli della carità. Sono riu­scito lo stesso a dar­gli i soldi. La foto ha per me un valore aggiunto: in quel momento e da quell’episodio, ho comin­ciato a capire cosa fosse, e con­ti­nui ad essere, l’India dei senza nulla, del fango, degli slum». Due sale suc­ces­sive fanno entrare il visi­ta­tore in altret­tanti mondi per lui incon­ce­pi­bili. A Mum­bai, un quar­tiere di Dha­ravi, la più grande bidon­ville di tutta l’Asia, si chiama Com­pound 13; a Dhaka, capi­tale del Ban­gla­desh, oltre ses­san­ta­mila bam­bini soprav­vi­vono in strada e sono stati sopran­no­mi­nati tokai. ‘Tokai kora’ signi­fica, in lin­gua ben­gali, ‘rac­co­gliere rifiuti’. È il destino che spetta ai pic­coli di Dhaka e di Com­pound 13, arram­pi­cati per ore e ore sulle pen­dici delle disca­ri­che urbane, tra mia­smi pesti­len­ziali, pla­stica e ferro, mate­riali in decom­po­si­zione. A Dha­ravi rac­col­gono ogni giorno oltre 600 ton­nel­late di pla­stica desti­nata al rici­clo. Quanto gua­da­gnino non è dato sapere, ma di certo lo sfrut­ta­mento più igno­bile è la base su cui pog­gia il com­penso. Un’immagine emble­ma­tica: lui potrà avere dieci anni, guarda verso il basso. Reg­gendo in una mano un sacco, con un bastone nell’altra fruga in mezzo ai rifiuti. A far­gli com­pa­gnia sol­tanto il volo di grandi uccelli che aspet­tano di indi­vi­duare qual­cosa di cui nutrirsi. Dalla cima delle disca­ri­che alla cima e alle viscere di un vul­cano, il Kawah Ijen, sud dell’isola di Java, Indo­ne­sia. Mit­tica docu­menta con l’uso del colore l’inferno in cui si calano, due volte al giorno e per un mas­simo di due ore con­se­cu­tive, gli schiavi dello zolfo. Sal­gono fino alla som­mità del vul­cano, entrano nel cono rove­sciato invaso da esa­la­zioni e vapori, riem­piono di mine­rale una cesta, risal­gono, si cari­cano in spalla la cesta e, a piedi, rag­giun­gono il cen­tro di lavo­ra­zione. L’equivalente di sei euro è il com­penso gior­na­liero. La morte, le malat­tie pol­mo­nari, la cecità sono casi di ordi­na­rio accadimento.

Esi­stono, e siamo alla fine di un viag­gio che scuote la coscienza, altre Cher­no­byl. Ma chi le ha mai sen­tite nomi­nare? Si chia­mano Mayak e Kara­bash, disa­stri eco­lo­gici avve­nuti ben prima che il nome di Cher­no­byl si tra­sfor­masse in sino­nimo di cata­strofe. Tre gli ‘inci­denti’ della cen­trale nucleare di Mayak, Urali, pro­vin­cia di Che­lya­binsk, 1500 chi­lo­me­tri da Mosca, costruita nel 1948. Il primo avvenne tra il 1949 e il 1952, e riversò nel fiume Techa sco­rie ad alto livello radioat­tivo. Il secondo nel 1957, con l’esplosione di un ser­ba­toio di stoc­cag­gio di rifiuti radioat­tivi. Il terzo dieci anni dopo. Il lago Kara­chay, uti­liz­zato per river­sare le pol­veri nucleari della cen­trale, si pro­sciugò a causa di un’estate par­ti­co­lar­mente tor­rida. Un tor­nado sol­levò le pol­veri, con­ta­mi­nando un’area del dia­me­tro di 400 chi­lo­me­tri. Il conto, ad oggi, è di oltre un milione di per­sone con­ta­mi­nate, di cui il 78 per cento affette da leu­ce­mia o can­cro; il 30 per cento dei bam­bini nasce con mal­for­ma­zioni, il 50 per cento di uomini e donne è ste­rile, 25 vil­laggi sono stati eva­cuati e distrutti. La cen­trale con­ti­nua a fun­zio­nare. Kara­bash, ancora pro­vin­cia di Che­lya­binsk. Dalle note del libretto di Mit­tica «Kara­bash è uno dei luo­ghi più inqui­nati della Terra. In città opera una fon­de­ria di rame… Dal 1910, quando l’impianto ha comin­ciato a fun­zio­nare, più di 180 ton­nel­late di bios­sido di zolfo e di metalli pesanti sono state rila­sciate nell’aria ogni anno. Le fore­ste, i fiumi, la terra hanno un colore aran­cione a causa dei resi­dui della lavo­ra­zione del rame e del ferro, la cui con­cen­tra­zione è 500 volte supe­riore alla norma, Le immense emis­sioni di ani­dride sol­fo­rosa e il par­ti­co­lato atmo­sfe­rico sono rite­nuti respon­sa­bili della mag­gior inci­denza tra la popo­la­zione di malat­tie della pelle, can­cro, ictus e mal­for­ma­zioni con­ge­nite». Bianco e nero e colore si alter­nano nelle visioni spet­trali di un luogo ridotto ormai sol­tanto a un car­tello stra­dale; popo­lato di esseri umani desti­nati a morire, secondo le sta­ti­sti­che, media­mente intorno ai 45 anni; spez­zato a metà da una mon­ta­gna di detriti, bat­tez­zata ‘Black slag’, ‘Sco­ria nera’. Chiusa nel 1980 in seguito a forti pres­sioni di gruppi ambien­ta­li­sti, otto anni dopo la fon­de­ria è stata ria­perta. Lo hanno voluto gli abi­tanti di Kara­bash. Senza la pro­du­zione del rame assas­sino, qui non si vive. Ana­loga sto­ria passa attra­verso le imma­gini di Magni­to­gorsk, la città dell’acciaio, di nuovo Che­lya­binsk. «Nel ’94 ero in vacanza a Danang, Viet­nam, con amici. Giravo a fare foto. Per puro caso, capi­tai in una bidon­ville. Com­presi allora che non volevo rac­con­tare il mio viag­gio, ma il loro». Para­fra­sando: die­tro ogni grande foto­grafo c’è sem­pre una grande sen­si­bi­lità. È lei che con­ti­nua a spin­gere Pier­paolo Mit­tica fuori dalla sua Spi­lim­bergo, felice cit­ta­dina del Friuli, verso le più estreme e tra­gi­che peri­fe­rie del mondo e dei mondi.

 

 

Category: Fumetti, racconti ecc.., Osservatorio internazionale

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