Paradossi del diritto di sciopero nella Repubblica popolare cinese

| 30 Marzo 2011 | Comments (0)

Da un paio di decenni ormai “Cina” e “lavoro” sono un binomio inscindibile, ai nostri occhi spesso declinato nei termini di sfruttamento, salari da fame, orari di lavoro sfiancanti, quando non addirittura aperta schiavitù.[1] Eppure, in poche occasioni la questione del lavoro in Cina ha ricevuto un’attenzione mediatica pari a quella della scorsa primavera, quando, uno dopo l’altro, i media di tutto il mondo hanno cominciato a riportare che nella “fabbrica del mondo” era in corso una vera e propria ondata di scioperi, un fatto inaudito per il lettore medio occidentale, da anni abituato a sentirsi descrivere il lavoratore cinese come un perfetto esempio di passività, lo schiavo mansueto per eccellenza.

Ancora prima che nella seconda metà di maggio i media internazionali riportassero i primi scioperi, il lettore cinese aveva già ricominciato a prestare attenzione ai problemi del lavoro. Sin da aprile si erano avute le prime avvisaglie del nuovo “vento di denuncia” che avrebbe spirato di lì a breve, quando il Nanfang Zhoumo, un influente settimanale della Cina meridionale, aveva ripreso un’indagine svolta da un’organizzazione non governativa internazionale e aveva descritto per esteso alcune gravi violazioni dei diritti dei lavoratori negli impianti di un fornitore della Microsoft a Dongguan.[2] La tempesta è scoppiata però solamente il mese successivo, quando la stampa cinese ha iniziato a riportare due nuovi casi, avvenuti pressoché contemporaneamente, aventi come protagonisti importanti aziende internazionali: la storia dei suicidi in serie tra i dipendenti della Foxconn e lo sciopero dei lavoratori della Honda di Foshan. Da allora si è scatenato il finimondo, con i media, soprattutto internazionali, che davano la caccia ad ogni minimo episodio di protesta operaia trasformandolo nel segnale di un epocale “risveglio” dei lavoratori cinesi, quando non addirittura il preludio di un’imminente rivoluzione.

Senza perdere troppo tempo sull’annosa polemica relativa al rapporto tra accademia e giornalismo, con il presente intervento si farà il punto della situazione riguardo alla questione del diritto di sciopero nella Repubblica popolare cinese, al fine di fornire ai lettori una chiave di lettura attraverso cui interpretare i recenti disordini operai in Cina. In particolare ci si soffermerà su alcuni banali interrogativi che non molti si sono posti nei mesi passati, quando ovunque si pontificava sull’imminente fine del cosiddetto “modello cinese”. Innanzitutto, ci si chiederà se la legislazione cinese riconosce ai lavoratori il diritto di sciopero, poi si prenderà in esame la realtà empirica delle proteste operaie. Si scoprirà così che alla radice degli scioperi in Cina ci sono alcuni fondamentali paradossi che rendono la situazione notevolmente più complicata rispetto alla “vulgata” che vuole che negli ultimi mesi, dopo decenni di silenzio, i lavoratori cinesi si siano finalmente “alzati in piedi”.

Il paradosso giuridico

Lo scorso giugno, mentre l’enfasi mediatica sugli scioperi era all’apice, il Nanfengchuang, una rivista cinese a diffusione nazionale, pubblicava un contributo di Yu Jianrong, il massimo specialista cinese nel campo degli incidenti di massa, accademico di primo piano dell’ufficialissima Accademia delle scienze sociali. Il titolo era sorprendentemente franco: “Se i lavoratori non hanno il diritto di sciopero, non sono rispettati” (zhigong meiyou bagongquan jiu meiyou zunyan).[3] Il pezzo era in buona compagnia, accompagnato com’era da altri commenti, altrettanto critici, sulla crisi di rappresentatività del sindacato ufficiale cinese e addirittura appelli al rafforzamento delle organizzazioni operaie in Cina. Quello che per decenni si era svolto in sordina nei corridoi delle istituzioni, dietro alle quinte dei palazzi del potere, oppure su polverose pubblicazioni giacenti negli archivi delle biblioteche, veniva improvvisamente portato con prepotenza all’attenzione dell’opinione pubblica cinese, senza più pudori di sorta. Considerati i rigidi limiti in cui i media cinesi si trovano ad operare, difficilmente questa improvvisa baldanza può essere attribuita al gesto isolato di qualche redattore coraggioso, piuttosto in essa è inevitabile leggere il segnale di una precisa volontà politica.

Il titolo dell’intervento di Yu Jianrong  – “se i lavoratori cinesi non hanno il diritto di sciopero, non sono rispettati” – lascia intendere in maniera piuttosto chiara che in Cina il diritto di sciopero non è riconosciuto. Ma è proprio così? Sì e no. Di fatto, la legislazione cinese non prevede il diritto di sciopero, ma neppure lo nega. Se le Costituzioni della Rpc adottate rispettivamente nel 1975 e 1978, politicamente un frutto degli anni della Rivoluzione culturale, riconoscevano esplicitamente il diritto di sciopero, questa novità non venne poi confermata nella Costituzione del 1982, tuttora in vigore, una decisione con ogni probabilità dovuta alle preoccupazioni causate dagli eventi polacchi, che nei primi anni Ottanta furono riportati con simpatia dai media cinesi. Da allora, il governo cinese continua a mantenere un atteggiamento cauto e ambiguo in materia di scioperi, alternando aperture apparenti a chiusure reali: ancora oggi il diritto di sciopero non compare nella legislazione cinese, non è previsto, ma non è neppure proibito. Semplicemente, appartiene ad un’area grigia del diritto ancora tutta da scrivere.

Eppure, da un punto di vista giuridico, non è così scontato che scioperare nella Repubblica popolare cinese sia illegale. Formalmente, la linea politica del Partito nei confronti degli scioperi va cercata in un documento adottato dal Comitato centrale nel lontano 1957, mai aggiornato o rinnegato.[4] Può essere che questo testo sia semplicemente caduto nel dimenticatoio, eppure basta fare un minimo sforzo per guardare oltre il suo asfissiante linguaggio politico e si ha modo di constatarne la straordinaria attualità. In questo documento i leader del Partito riprendono il celebre discorso di Mao “Sulla corretta risoluzione delle controversie in seno al popolo” per affermare il carattere non antagonistico delle dispute tra i lavoratori e la classe dirigente. In particolare essi ne riconducevano le cause al burocratismo e alle malversazioni della classe dirigente, riconoscendo – e in questo sta l’attualità del testo – che nel caso in cui le masse fossero state private dei diritti democratici e spinte all’esasperazione al punto da non poter fare a meno di adottare misure estreme quali gli scioperi, le astensioni dalle lezioni, i cortei e le petizioni, tali movimenti popolari fossero “non solo inevitabili, ma anche necessari, e quindi andassero permessi e non vietati.

Senza dover andare così indietro nel tempo, anche nell’ultimo decennio c’è stata qualche novità in questo senso. Nel 2001 il parlamento cinese ha ratificato il Patto sui diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni unite, il quale impegna gli Stati contraenti a garantire il diritto di sciopero, purché esercitato in conformità alle leggi di ciascun Paese. Nonostante questa tesi sia molto discutibile, alcuni accademici cinesi ritengono che, nell’attuale situazione di vuoto normativo, questa ratifica possa costituire la base giuridica per affermare la legalità del diritto di sciopero in Cina anche in assenza di un esplicito riconoscimento costituzionale. Un autentico passo avanti è invece rappresentato dalla modifica del 2001 all’articolo 25 della Legge sui sindacati, con il nuovo testo che afferma che in caso di “blocchi del lavoro” – tinggong,  una sottile differenza lessicale rispetto al termine bagong, caratterizzato da una connotazione politica più forte – il sindacato è tenuto a negoziare con l’azienda per conto dei lavoratori, presentando le opinioni e le richieste di questi ultimi, mentre il datore di lavoro è tenuto a soddisfare le richieste, ove queste siano ritenute “ragionevoli”.[5] Ulteriore segno di apertura è poi la Legge sulla produzione sicura del 2003, ove si riconosce ai lavoratori delle imprese statali che nel lavoro incontrano una situazione rischiosa per la loro sicurezza personale il diritto di rifiutarsi di eseguire gli ordini così come di smettere di lavorare e abbandonare il posto di lavoro senza per questo subire alcuna ritorsione.

Da anni, il mondo accademico cinese è pressoché unanime nel richiedere il riconoscimento del diritto di sciopero. Le opinioni variano solamente nei metodi da adottare, con alcuni che sostengono un approccio graduale a partire dal basso della piramide legislativa ed altri che invece ritengono più opportuno un emendamento costituzionale.[6] Lo stesso sindacato da anni fa una pressante azione di lobbying perché gli venga concesso il diritto di proclamare gli scioperi, l’unica arma che forse potrebbe risollevarlo dalla sua pesante crisi di rappresentatività che sta attraversando. E il Partito che fa? Per ora tace. In occasione del dibattito che ha preceduto la grande riforma del diritto del lavoro del 2008 la questione del diritto di sciopero è passata sotto silenzio e infatti nelle tre nuove leggi adottate in quell’occasione non ce n’è traccia. Nel giro di qualche mese dovrebbe essere approvato un emendamento alla Legge sui sindacati – il terzo dopo quelli del 1992 e 2001 – e allora si vedrà se esiste una reale disponibilità in questo senso. Fino al momento in cui non ci sarà un esplicito riconoscimento, questa ambiguità legislativa continuerà a costituire ciò che definisco il “paradosso giuridico” del diritto di sciopero nella Rpc.

Il paradosso empirico

Per comprendere la vera natura degli scioperi in Cina è tuttavia necessario spostarsi dal piano teorico a quello pratico, prendendo in esame alcune caratteristiche della mobilitazione operaia così come si è presentata nella Rpc negli ultimi anni. Nonostante alcuni giornalisti poco informati abbiano scoperto solamente ora che in Cina esistono gli scioperi, sono anni che la stampa internazionale e il mondo accademico raccontano come la società cinese sia un gigantesco “vulcano sociale” pronto ad esplodere a causa delle crescenti contraddizioni e ineguaglianze. I dati ufficiali sulle proteste sembrerebbero confermare l’esistenza di questa sotterranea tensione: se nel 1993 gli incidenti di massa erano stati appena 8.700, nel 2006 le autorità cinesi ne contavano oltre novantamila, con uno studio su dati parziali del 2005 che evidenziava come il 60% delle dimostrazioni di quell’anno avesse visto la partecipazione di oltre 500 persone.[7] Stando a fonti ufficiali, anche nel 2009 poi si sarebbe registrata una  preoccupante tendenza in crescita, anche se nel complesso la società sarebbe rimasta sostanzialmente stabile.[8]

Stando ad un’indagine condotta nel 2004 da specialisti di Harvard e dell’Università di Pechino, nonostante la maggioranza dei cinesi consideri “giusta” la società in cui vive, esisterebbero comunque sostanziali minoranze insoddisfatte.[9] Ecco alcuni dati: nel 2004 il 26,1% dei cinesi prevedeva che nei cinque anni successivi la proporzione dei poveri nel paese sarebbe cresciuta; il 27,9% riteneva che le diseguaglianze esistenti fossero in conflitto con i principi del socialismo; il 17,4% era convinto che la disonestà fosse un fattore importante o molto importante per determinare chi si arricchiva, mentre il 26% attribuiva questo all’ingiustizia della struttura economica; il 29,1% riteneva che sarebbe stato giusto distribuire i redditi e la ricchezza in maniera equa; il 33,8% pensava che il governo avrebbe dovuto porre dei limiti ai redditi; il 27,6% avvertiva come ingiusto il fatto che i ricchi potessero godere di migliori cure mediche; il 38,5% percepiva conflitti grandi o molto grandi tra ricchi e poveri; il 34,4% affermava che era inutile parlare di giustizia sociale perché il sistema esistente non poteva essere sfidato o cambiato. Numeri ridotti, se confrontati con quelli riscontrati in altri paesi post-comunisti dell’Europa orientale, ma comunque potenzialmente destabilizzanti, visto che, come notava Martin King Whyte, il curatore dell’indagine, “l’instabilità politica solitamente non è il prodotto di una generale insoddisfazione della popolazione, ma piuttosto di minoranze arrabbiate e mobilitate”.

E i lavoratori? Essi sono tra i gruppi sociali più attivi nel manifestare il proprio scontento. Non si può dimenticare che i lavoratori cinesi sono stati le vittime di una delle più dolorose ristrutturazioni economiche dell’epoca moderna, quando, a partire dalla metà degli anni Novanta, il settore statale e collettivo dell’economia cinese è stato smantellato. Basta dare un’occhiata agli annuari statistici per vedere che tra il 1993 e il 2006 le imprese statali e collettive hanno registrato un tracollo di oltre 72 milioni di posti di lavoro, un numero superiore all’intera popolazione italiana.[10] Non c’è dunque da stupirsi se nell’ultimo decennio i lavoratori cinesi si sono mostrati inquieti, dando vita a volte a clamorose proteste, come quella di Liaoyang nel 2002, quando circa trentamila lavoratori e cittadini da una decina di fabbriche sono scesi in strada per chiedere la rimozione dei vertici aziendali e di alcuni leader politici locali.[11] Stando ad uno studio dell’Accademia cinese delle scienze sociali, nel solo 2003 hanno avuto luogo circa 58.000 incidenti di massa, con il coinvolgimento di oltre tre milioni di persone: in quell’occasione il gruppo sociale più rilevante era stato quello dei lavoratori (inclusi i pensionati), per un totale di circa 1.660.000 persone, il 46,9% dei partecipanti.[12] Basta poi dare un’occhiata alle statistiche ufficiali sulle dispute sul lavoro risolte per via ufficiale per rendersi conto di come negli ultimi quindici anni la conflittualità sul lavoro sia enormemente aumentata: da appena 48.121 dispute sul lavoro registrate per l’arbitrato nel 1996, ad oltre 693.000 arbitrati nel 2008, senza contare i circa 237.000 casi di mediazione.[13] Le ragioni di queste dispute risultano essere principalmente economiche, con problemi legati al mancato pagamento dei salari saldamente al primo posto.

La natura economica delle proteste dei lavoratori cinesi spesso sfugge agli osservatori stranieri, ansiosi di leggere nella situazione cinese delle “sane” aspirazioni verso una democrazia sul modello occidentale. Eppure è così: i lavoratori cinesi molto di rado si mobilitano per ragioni politiche. Al contrario, spesso nelle loro manifestazioni si servono di slogan cari al Partito, vere e proprie captatio benevolentiae come quella che si è vista recentemente in un’azienda tessile di Pingdingshan nello Henan. In quell’occasione i lavoratori in sciopero hanno appeso sull’ingresso della fabbrica uno striscione con la scritta: “Dipendenti della fabbrica, mobilitatevi, preghiamo nostra madre il Partito (gongchangdang muqin) di darci da mangiare, di pagarci i soldi dovuti per la bancarotta, per la vendita dei terreni e i salari dei dipendenti ancora al lavoro”. Ching Kwan Lee ha messo in luce come questo tipo di retorica sia molto comune tra i lavoratori della vecchia generazione, soprattutto dipendenti di aziende statali e collettive, mentre difficilmente si ritrova nelle proteste dei giovani migranti – un gruppo sociale che a causa dell’età e del proprio background culturale preferisce avvalersi del linguaggio dei diritti.[14] Resta il fatto che, indipendentemente dal gruppo sociale, le proteste dei lavoratori cinesi sono largamente apolitiche. È questa la ragione per cui il fatto che recentemente alcuni lavoratori – si è visto ad esempio nel caso della Honda – abbiano iniziato a richiedere un sindacato più forte ha fatto tanta sensazione.

Qual è l’atteggiamento degli amministratori locali nei confronti degli scioperanti? Di fronte a lavoratori che parlano la loro stessa “lingua” e che spesso dichiarano a gran voce la propria fedeltà ai principi fondanti del sistema politico, le autorità difficilmente possono permettersi di ricorrere alle maniere forti senza affrontare una crisi di legittimazione potenzialmente catastrofica. Non bisogna poi dimenticare che i vari livelli di governo perseguono finalità a volte sostanzialmente differenti: se a livello locale si tende a privilegiare l’aspetto della competitività economica, misurato prevalentemente in termini di investimenti e produzione, al centro ci si preoccupa prevalentemente della legittimità e della stabilità sociale. In un periodo di crisi profonda quale il presente, i livelli più elevati del governo hanno tutto da guadagnare dal contenimento e localizzazione delle proteste operaie. Di fatto, quello della repressione violenta degli scioperi è un altro luogo comune sulla Cina da sfatare. Se la risposta varia in funzione del numero delle persone coinvolte e dell’onerosità (economica e politica) delle richieste degli scioperanti, in genere le autorità locali preferiscono mediare ed, eventualmente, ricorrere a sanzioni mirate nei confronti dei leader delle proteste. Il sindacato gioca un ruolo particolarmente importante in questo processo di mediazione, con Chen Feng, uno specialista in questioni sindacali cinesi, che scrive addirittura di aver riscontrato personalmente come, nel caso di proteste, i quadri sindacali siano i primi a giungere sul posto per persuadere i lavoratori a tornare al lavoro.[15] La soluzione pacifica naturalmente può avvenire solamente a due condizioni: che la manifestazione non abbia contenuti politici e che i partecipanti provengano da una sola unità di lavoro. Le proteste politiche che coinvolgono i lavoratori di più di un’azienda non sono assolutamente tollerate.

Il fatto che nella Cina di oggi gli scioperi esistano, siano numerosi e siano tollerati, pur nel silenzio dei media, delle autorità e dei legislatori, è ciò che definisco “paradosso empirico”.

Come leggere la recente ondata di scioperi?

I due paradossi illustrati finora ci permettono di giungere ad una conclusione: nella Cina di oggi scioperare non è legale, ma è legittimo. Decenni di retorica – prima maoista, con l’enfasi sul zhurenweng, la padronanza dello Stato da parte dei lavoratori, poi post-maoista, con l’accento sullo Stato di diritto e sul “servirsi della legge come un’arma”[16] – hanno impregnato i lavoratori cinesi con un forte senso di titolarità dei diritti, un sentimento che a sua volta si traduce in frequenti proteste e rivendicazioni. Particolarmente significativo è il fatto che lo stesso Partito nel 1957 abbia riconosciuto il diritto dei lavoratori a ribellarsi di fronte ai soprusi dei funzionari. Certo, rimangono notevoli problemi – primi fra tutti un sindacato debole e succube delle autorità e un sistema giudiziario che non esita a comminare punizioni selettive nei confronti dei leader operai – ma questo non ha mai scoraggiato i lavoratori cinesi dall’alzare la voce e dal scendere in piazza a reclamare i propri diritti. Di fronte a dinamiche complesse come quelle descritte finora, ha dunque ancora senso riferirsi ai fatti della scorsa primavera nei termini di un’”ondata di scioperi” o di un “risveglio” dei lavoratori cinesi? A mio avviso no.

Come dovremmo leggere i recenti avvenimenti? Come accennavo in precedenza, tanta enfasi da parte dei media cinesi sembra essere il segnale di una precisa strategia politica. Di fatto, gli scioperi in Cina non necessariamente vanno contro gli interessi del Partito, per almeno tre ordini di ragioni. In primo luogo, le autorità centrali sono perfettamente in grado di manipolare gli scioperi per incrementare la propria legittimità agli occhi della popolazione, come ha fatto ad esempio il premier Wen Jiabao, lanciandosi in una simpatetica apologia dei lavoratori migranti, o il Quotidiano del popolo, con i suoi editoriali in cui ha richiamato l’attenzione sulla necessità di alzare i salari.[17] In secondo luogo, gli scioperi possono essere funzionali al miglioramento delle condizioni lavorative e salariali dei lavoratori cinesi, un passo fondamentale per quell’aumento dei consumi interni che dovrebbe sostenere la crescita cinese nel prossimo futuro. Infine, il riconoscimento del diritto di sciopero, che i recenti avvenimenti sembrerebbero preludere, potrebbe garantire una “valvola di sfogo” allo scontento operaio e favorire così – paradossalmente – la stabilità sociale, mentre lo Stato si ritira dietro le quinte delle relazioni industriali, non più attore interessato, ma arbitro nei conflitti tra lavoro e capitale. Nessuna rivoluzione in vista dunque, anzi, al contrario, è probabile un ulteriore rafforzamento dell’autorità del Partito. Con buona pace dei nostri giornalisti.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

– Yongshun Cai, Collective Resistance in China: Why Popular Protests Succeed or Fail, Stanford University Press, Stanford 2010.

– Anita Chan, China’s Workers Under Assault, M.E. Sharpe, New York 2001.

– Mary Gallagher, Contagious Capitalism, Princeton University Press, Princeton 2005.

– Martin King Whyte, Myth of the Social Volcano, Stanford University Press, Stanford 2010.

– Ching Kwan Lee, Against the Law: Labor protests in China’s Rustbelt and Sunbelt, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 2007.

– Kevin O’Brien (a cura di), Popular Protest in China, Harvard University Press, Cambrigde Massachuttes 2008.

-Elizabeth Perry, Merle Goldman (a cura di), Grassroots Political Reform in Contemporary China, Harvard University Press, Cambridge Massachuttes 2007.

[Questo testo è stato pubblicato in Inchiesta  171, 2011, all’interno del Dossier curato da Laura de Giorgi  “Diritto e diritti umani nella Cina contemporanea; sulla Cina sono stati pubblicati in Inchiesta  il Dossier “Continuità e discontinuità in Cina” , 168, 2010 e il Dossier “Ambiente e agricoltura in Cina”, 166, 2009]


[1]              Per una panoramica delle violazioni dei diritti dei lavoratori più comuni in Cina si veda Anita Chan, China’s Workers Under Assault, M.E. Sharpe, New York, 2001.

[2]              Si veda Ding Tingting, Weiruan Daigongchang de Xuelei (Le lacrime di sangue nella fabbrica che rifornisce la Microsoft), Nanfang Zhoumo, 22 aprile 2010, disponibile in rete su <http://www.infzm.com/content/44159>.

[3]              Cfr. Yu Jianrong, Zhigong meiyou bagongquan jiu meiyou zunyan (Se i lavoratori non hanno il diritto di sciopero, non sono rispettati), Nanfengchuang, n. 13 del 16 luglio 2010, pp. 36-38.

[4]              Comitato centrale del Partito comunista cinese, Zhonggong Zhongyang guanyu Chuli Bagong, Bake Wenti de Zhishi (Indicazioni del Comitato Centrale del PCC sul Trattamento degli Scioperi e delle Astensioni dalle Lezioni), 25 marzo 1957, in Jianguo yilai Zhonggong Zhongyang guanyu gongren yundong wenjian xuanbian, Gongren Chubanshe, Beijing 1989, vol. 1, pp. 507-515.

[5]        Per un’analisi su questo particolare articolo della Legge sui sindacati si veda Wang Quanxing e Wang Min, Gonghuifa 2001 nian xiugai de chenggong yu buzu, (I successi e le mancanze della modifica del 2001 alla Legge sui sindacati), in Huadong Falü Pinglun, 2002 n.1, pp. 114-138.

[6]              Chang Kai,  Bagongquan lifa wenti de ruogan sikao (Alcune riflessioni sulla legislazione sul diritto di sciopero in Cina), in Xuehai, 2005 n. 4, pp. 43-55

[7]              Lo studio in questione è Chung Jae-Ho, Hongyi Lai, Ming Xia, “Mounting challenges to governance in China: Surveying collective protestors, religious sects and criminal organizations”, The China Journal, n.56 del luglio 2006, pp. 1-31.              

[8]              Cfr. 2010 nian “shehui lanpishu” fabuhui wenzi shilu (Trascrizione della conferenza stampa sul “Libro blu della società” del 2010), 21 dicembre 2009, disponibile in rete su: <http://news.qq.com/a/20091221/001334_1.htm>.

[9]              Cfr. Martin King Whyte, Myth of the Social Volcano, Stanford University Press, Stanford 2010.

[10]             Ho approfondito l’argomento in un precedente studio, La disoccupazione nascosta dei lavoratori xiagang: un problema risolto?, Mondo Cinese, numero 135, aprile-giugno 2008, pp. 33-47.

[11]             Lo sciopero dei lavoratori di Liaoyang è probabilmente uno degli avvenimenti più studiati nel movimento dei lavoratori cinesi dell’ultimo decennio. Per un’analisi accademica si veda Ching Kwan Lee, Against the Law: Labor protests in China’s Rustbelt and Sunbelt, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 2007.

[12]             Si veda Qiao Jian, Jiang Ying, “Shichanghua guochengzhong de laodong zhengyi he laodong quntixing shijian fenxi” (Analisi delle dispute sul lavoro e degli incidenti di massa relativi al lavoro nel processo di transizione al mercato), in Ru Xin, Lu Xueyi, Li Peilin (a cura di), 2005 nian Zhongguo shehui xingshi fenxi yu yuce, Beijing, Shehui Kexue Wenzhai Chubanshe, 2004, pp. 296-314.

[13]             Cfr. Qiao Jian, “2009 nian Zhongguo zhigong zhuangkuang he laodong guanxi” (I rapporti di lavoro e la situazione dei lavoratori cinesi nel 2009), in Ru Xin, Lu Xueyi, Li Peilin (a cura di), 2009 nian Zhongguo shehui xingshi fenxi yu yuce, Beijing, Shehui Kexue Wenzhai Chubanshe, 2010, pp. 275-287. Per i dati statistici del 1996, si può far riferimento agli annuari statistici ufficiali del lavoro.

[14]             Si veda il volume di Ching Kwan Lee già citato alla nota 11. Per un’analisi critica di questo e altri tipi di frames utilizzati per studiare le proteste operaie in Cina si veda William Hurst, Mass Frames and Worker Protest, in Kevin O’Brien (a cura di), Popular Protest in China, Harvard University Press, Cambrigde Massachuttes, 2008, pp. 71-87.

[15]             Chen Feng, Between the State and labour: the conflict of Chinese trade unions’ double identity in market reform, in China Quarterly n.176 del dicembre 2003, pp.1006-1028. Per uno studio più recente del ruolo dei sindacati nelle proteste operaie si veda Chen Feng, Trade unions and the quadripartite interactions in strike settlement in China, The China Quarterly, vol. 201, marzo 2010, pp. 104-124.

[16]             Sulla questione della consapevolezza giuridica dei lavoratori cinesi si veda Mary Gallagher, Hope for Protection and Hopeless Choices: Labor Legal Aid in the PRC, in Elizabeth Perry, Merle Goldman (a cura di), Grassroots Political Reform in Contemporary China, cit., pp. 196-227.

[17]             Per l’editoriale del Quotidiano del Popolo si veda, Renmin Ribao Tan Zuidi Gongzi Shangtiao: Zhengce Song Fuyin, Luoshi You Zayin (Il Quotidiano del Popolo parla dell’innalzamento dei salari: la politica è una melodia, l’applicazione solo rumore), Wangyi, 9 giugno 2010, <http://news.163.com/10/0609/07/68NHG35A000146BC.html>. Sul discorso di Wen Jiabao, si veda Wen Jiabao Zongli Duihua Nianqing Nongmingong Yin Qianglie Fanying (Il dialogo del premier Wen Jiabao con un giovane migrante scatena una forte reazione), Xinhua, 16 giugno 2010, <http://www.gmw.cn/content/2010-06/17/content_1152896.htm>.

Category: Osservatorio Cina, Osservatorio internazionale

About Ivan Franceschini: Ivan Franceschini. Ha conseguito il Dottorato in Lingue, culture e società presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. Oggi è Marie Curie Fellow presso l'Australian Centre on China in the World (Camberra) con un progetto di ricerca sul lavoro cinese in prospettiva globale. Ha vissuto iim Cina dal 2006 e poi in Cambogia per un anno e mezzo. Ha pubblicato nel 2009 Cronache dalle fornaci cinesi (Cafoscarina). Nel 2010 ha curato Germogli di società civile in Cina (Brioschi) insieme a Renzo Cavalieri. Nel 2012 ha scritto il libro Cina.net Post dalla Cina del nuovo millennio, Edizioni O barra O. Nel 2015 ha curato il rapporto Made in China 2014 per conto dell'Iscos Cisl. Sempre nel 2015 ha curato e tradotto l'il libro di Lu Xun, Fuga sulla luna e altre antiche storie rinarrate, Edizioni ObarraO , Milano, 2015

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