Mostrarsi dietro a una maschera: V per Vendetta

| 22 Dicembre 2011 | Comments (0)

Era il lontano 2006 quando vidi V per Vendetta in un’anteprima a Hollywood. Gli Stati Uniti erano nel pieno di una delle ricorrenti psicosi collettive tipiche della società a stelle e strisce. I terroristi erano diventati ufficialmente i nuovi “isti” di cui avere paura, la versione 2.0 dei comunisti, seguaci di un Dio malvagio che li aveva fatti piombare dal cielo dritti nel cuore di New York e delle sue torri del potere, una sorta di upgrade di quei senzadio rossi che mai avevano osato tanto nonostante avessero la bomba atomica, non quella buona di Hiroshima e Nagasaki, quella cattiva che esplode a forma di amanita, il fungo rosso velenoso. Mentre tutti quanti cercavano l’uomo nero sotto il letto, gli ufficiali di dogana potevano rispedire a casa chiunque destasse sospetto a loro insindacabile giudizio: era l’America che aveva da qualche anno imparato che per essere più libera doveva diventare meno libera.

Ricordo che alla fine della proiezione rimasi molto colpito dal fatto che una major come la Warner Bros avesse finanziato un film sostanzialmente anarchico. In quel contesto socio-culturale, un film con un eroe terrorista che faceva saltare in aria il simbolo del potere era l’ultima cosa che mi sarei aspettato di vedere. Poche settimane prima avevo preso parte all’evacuazione di un edificio a causa di uno dei tanti allarme bomba che spargevano il panico in tutta la nazione. Tra Sunset Boulevard e Vine Street, a poca distanza dalla sala cinematografica dove si era svolta la proiezione, mi capitava di frequente di incontrare alcuni ragazzi che spacciavano il dvd del documentario Loose Change come si faceva negli anni ’90 con il crack prima della riqualificazione urbanistica del quartiere di Hollywood. Lo regalavano a chiunque passasse questo documentario sulle teorie del complotto sui presunti coinvolgimenti governativi nell’attentato dell’11 settembre, non meno fobico della fobia che cercava di sradicare. Si combatteva la paranoia con la paranoia, insomma, e capitava di sentire storie come quella di una mia amica, interrogata in palestra da agenti in borghese piombati sul posto grazie a una telefonata anonima di un qualche delatore preoccupato per un certo dvd non proprio patriottico di cui lei era in possesso.

Il film V per Vendetta si pone in un contesto ben preciso, quello finanziario privo di leggi nel quale ad essere a prova di proiettile non sono gli ideali, come nella memorabile scena del film in cui V sopravvive a una raffica interminabile di colpi di mitra, ma lo sono i soldi. Mentre la fobia dilagava imperante e tutti si guardavano con sospetto dall’invasore infedele, in quel 2006 un certo George W. Bush nominava Segretario del Tesoro tale Henry Paulson, amministratore delegato di quella Goldman Sachs che aveva appena immesso sul mercato derivati tossici per un valore di 3.1 miliardi di dollari, e che ora, per il bene della collettività, accettava di accontentarsi del misero stipendio da dipendente statale (proprio lui che era l’amministratore delegato più pagato di Wall Street con suoi 31 milioni di dollari annui) in cambio di uno sconto del valore di 50 milioni di dollari sulla vendita dei 486 milioni di dollari di azioni Goldmas Sachs in suo possesso, grazie a una legge fatta approvare dal padre di Bush, quello con la H tra il George e la W.

A noi oggi non serve rispolverare vecchie teorie del complotto per capire che le torri della finanza non sono esplose per via degli attentati, ma sono implose a causa di un sistema avido e deregolamentato incapace di creare leggi a tutela non tanto dei risparmiatori quanto della salvaguardia dell’intero sistema economico, risvegliatosi di colpo alla fine della bolla finanziaria più grande della storia, quella tra il 2000 e il 2007, per scoprire che, proprio come ogni bolla che si rispetti, era piena di aria e soltanto di quella.

Nel remoto 2006 non lo sapevamo ancora ma proprio l’anarchia (la deregolamentazione, alla lettera, l’assenza di leggi) stava uccidendo il sistema finanziario statunitense e mondiale. Se l’avesse saputo l’eroe mascherato V, si sarebbe seduto nel suo castello sotterraneo ad ascoltare musica dal suo amato juke box aspettando che il sistema implodesse da solo. Del resto, a che serve un eroe anarchico quando il sistema stesso è basato sull’assenza di regole?

Il film è tratto dal fumetto creato dal celebre Alan Moore, uscito in 10 numeri a cavallo tra il 1982 e il 1989 e raccolti in veste di graphic novel in seguito. Per chi no lo sapesse, Alan Moore è quel tipo con la barba che sembra uscito dai suoi stessi fumetti e che è ritenuto uno dei massimi scrittori di comics di sempre. Come per tutte le altre trasposizioni di sue opere (Watchmen, From Hell – La vera storia di Jack lo squartatore) ha preso le distanze dal film fondamentalmente per via della scelta di trasformare l’opera in una satira politica dell’era Bush, mentre l’originale era una metafora contro i fascismi, figlia dell’era Thatcher in cui era stata concepita.

A mio avviso gli sceneggiatori (i fratelli Wachowski, quelli di Matrix, che non hanno diretto il film preferendo affidarlo al loro aiuto regista dei film precedenti, James McTeigue), trasformando V per Vendetta in una metafora della società americana, hanno reso un ottimo servigio all’opera di Moore proprio perché ne hanno colto l’essenza traducendone lo spirito di reazione al governo conservatore in carica. Se a dire di Alan Moore i cineasti non hanno avuto il coraggio di ambientare a casa propria la storia, limitandosi a utilizzare l’Inghilterra come metafora per parlare del proprio presente senza avere il coraggio di schierarsi apertamente contro la propria nazione, tacciare McTeigue e i fratelli Wachowski di mancanza di coraggio mi sembra un’asserzione decisamente azzardata.

Sia il film che il fumetto si pongono nel solco della tradizione che vede la fantascienza come uno dei modi migliori e più efficaci per parlare del presente. Dalla letteratura al cinema, le opere di fantascienza, e in particolar modo quelle appartenenti al sottogenere distopico, sono vere e proprie cartine di tornasole dei malesseri che abitano la società di cui sono figlie: quale modo migliore per rivivere l’ansia dell’America maccartista di leggersi Fahrenheit 451 di Bradbury o vedersi L’invasione degli ultracorpi di Siegel; e che dire di quel saggio sui regimi totalitari che è 1984 di Orwell.

Poco prima di V per Vendetta, un altro film di fantascienza era stato una dura metafora della guerra santa per il petrolio combattuta in giro per il mondo dal Bush senza H: Star Wars Episodio III – La guerra dei Sith di Lucas.  Per intenderci, parlo dell’ultimo film girato, quello che chiude la prima trilogia, che viene dopo la seconda, e che ci ha fatto capire che i numeri, arabi o romani che siano, possono assumere significati del tutto aleatori. Per quanto mi sforzi a entrare nella mentalità alterata dei prequel e pur consapevole che il male verrà sconfitto negli episodi successivi (precedenti) non riesco a non vedere dietro all’ascesa dell’impero galattico e del lato oscuro della forza un ritorno di Lucas alle origini, a quella fantascienza distopica , cupa e tetra quanto solo il bianco spalmato ovunque può essere, che era THX 1138. Mi dispiace, ma io all’happy ending di Guerre Stellari non ci credo, la trilogia con la quale sono cresciuto da bambino finisce bene, quella nuova che ho visto da adulto finisce in maniera catastrofica e pessimista, e non riesco a non vedere nascosto dietro al lato oscuro della forza l’ombra altrettanto oscura del petrolio e delle guerre combattute in nome di interessi economici individuali dal malvagio imperatore senza H.

I film di Lucas e McTeigue si pongono in controtendenza con il cinema hollywoodiano coevo e con il suo sfrenato conservatorismo, la cui incarnazione è data da quel Codice Da Vinci così scandalosamente blasfemo da affermare che Gesù non è mai stato così vicino a noi, visto che esiste una linea di sangue e i suoi eredi possono essereci seduti proprio accanto. E se, come afferma Eco, Dan Brown l’ha inventato lui, è un personaggio de Il pendolo di Foucault e quindi non esiste, il film purtroppo esiste eccome così come la noia che ne accompagna la visione. Ma è un altro film che a mio avviso è lo specchio dell’era del Bush con la H solo nel cognome, La guerra dei mondi di Spielberg, che ci ripropone la paranoia del terrore dell’invasione aliena accompagnata da un’inquietante chiave di lettura: se il male non lo vedi, non esiste. L’unica preoccupazione del mondo degli adulti è tappare gli occhi alla piccola e povera Dakota Fanning, che alla fine se ne torna a casa sana e salva come se nulla fosse successo. Metafora di un modo di crescere le nuove generazioni proteggendole dagli orrori del mondo reale rendendole cieche anziché insegnando loro ad affrontarli, proprio come era successo ai bambini adulti spettatori della guerra in Afganistan, censurata dai TG che sostituivano i lampi notturni delle telecamere a infrarossi ai corpi martoriati per le strade dell’Afganistan.

Da questo punto di vista, il distopico V per Vendetta si pone sul versante opposto del catastrofico La guerra dei mondi. Qui le esplosioni servono per far aprire gli occhi, e le maschere non vengono indossate per nascondersi ma per mostrarsi. La maschera di V che il popolo oppresso indossa è l’esatto opposto delle maschere pirandelliane, serve a mostrare la vera identità delle persone, a rivelarne la vera natura. E così, il volto bruciato dell’eroe non si nasconde dietro la maschera, si mostra grazie ad essa. Il personaggio di Natalie Portman è metafora dell’intera società, che per svegliarsi e non avere più paura ha bisogno di morire e risorgere, proprio come insegnano le teorie di quel Joseph Campbell, professore di mitologia comparata le cui teorie sono state per la prima volta adottate dal cinema hollywoodiano grazie a George Lucas e (di nuovo) al suo Guerre Stellari, che in sede di stesura della sceneggiatura ebbe con l’autore de L’eroe dai mille volti una proficua collaborazione. Morte e resurrezione che si esemplificano nella sequenza della tortura di Natalie Portman, che solo una volta privata dei capelli e dell’orgoglio può mostrare la sua vera natura e vestire la propria maschera che ne rivela la vera essenza.

Ed è proprio questo il fulcro del film, oltre che il preciso motivo per cui la maschera di V per Vendetta è diventata un simbolo dei movimenti di protesta. Non me ne vorrà Alan Moore se affermo che il suo fumetto non c’entra nulla con i movimenti di protesta. È il film a essere entrato nell’immaginario collettivo e questo lo si deve al parallelismo politico con l’America contemporanea che ha avuto il coraggio di mettere in scena. Non so quanti attivisti abbiano concretamente letto la graphic novel, ma di sicuro il 100% di loro ha visto il film o anche solo la sequenza finale, magari su You Tube, con quel pirotecnico incalzare dell’Ouverture Solennelle 1812 di Tchaikovsky (scritta dal compositore russo per commemorare la sconfitta dell’esercito napoleonico nella campagna di Russia) che culmina con l’esplosione del Palazzo di Westminster e con i fuochi d’artificio rossi a forma di V che solcano il cielo notturno davanti agli occhi di migliaia di novelli V pronti a risorgere dopo essere passati per la morte di una dittatura oppressiva.

Indossare la maschera di V rappresenta il bisogno di trovare l’identità perduta, passando prima tramite un’identità collettiva che si basa su valori primari talmente ovvi da essere stati dimenticati da un sistema che dovrebbe proteggerci ma invece ci fagocita lentamente. Dagli hacktivist di Anonymous passando per gli Indignados, Occupy Wall Street, Beppe Grillo con il suo V-day: è infinita la lista dei gruppi di protesta che in tutto il mondo negli ultimi 3 anni ha usato la maschera di V come un simbolo
della lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia. La maschera è diventata l’oggetto di merchandising più venduto su Amazon, un vero e proprio simbolo di un mondo che vuole cambiare ma non ha la forza o il potere per farlo.

L’impatto che il cinema ha sulle persone rimane enorme, alla faccia di chi sostiene che è morto. Magari cambiano i significati dei termini, il cinema non si consuma più al cinema ma su ipad e telefonini, i film spesso non si fanno più in pellicola (in inglese: film) ma quello che conta è la sua essenza che rimane la stessa così come il grado di fascinazione che è capace di trasmettere agli spettatori. Anche i film come le idee sono a prova di proiettile e possono contribuire a cambiare il mondo, su questo non c’è dubbio altrimenti non saremmo ancora qui a farli. Ma la vera domanda che purtroppo finiamo per porci è: il mondo se lo merita di essere cambiato?

 

 

 

 

 

 

 

Category: Movimenti, Musica, cinema, teatro, Nuovi media, Osservatorio internazionale

About Andrea Bacci: Andrea Bacci è regista e sceneggiatore. Dopo essersi laureato con lode in Storia del Cinema presso il DAMS di Bologna, ha proseguito la sua formazione negli Stati Uniti a Los Angeles, dove ha frequentato la Los Angeles Film School, diplomandosi con lode in regia e montaggio. A Los Angeles scrive e dirige il proprio cortometraggio di diploma, The Sound of Silence e lavora come aiuto regista. Rientrato in Italia, nel 2010 vince il Premio Solinas Talenti in corto per la sceneggiatura del cortometraggio Halloween Party, che viene prodotto da Premio Solinas e Gratta e Vinci e distribuito in 60 sale italiane prima di Toy Story 3. Sempre nel 2010 è nuovamente finalista di un concorso del Premio Solinas, “Piloti per Serie TV”, con la sceneggiatura Ricomincio da capo. Nel 2011 scrive e dirige il cortometraggio Quel che resta con Nicolas Vaporidis, Camilla Filippi e Matteo Urzia.

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