Miguel Angel Garcia: Argentina.1 L’esperimento neoliberale

| 17 Gennaio 2015 | Comments (1)

 

Argentina, il grande vuoto  informativo

Gli amici di “Inchiesta” mi hanno chiesto informazione su quanto accade in Argentina. Come faccio sempre in questi casi, ho prima di tutto consultato i giornali per capire quanto sapete già del mio paese. Poco, e in gran parte dei casi completamente fuorviante. Ho esteso le mie letture all’Europa (che farei senza Internet!) e ho trovato in Francia, Gran Bretagna e Spagna i pezzi piú stupefacenti, dei veri e propri falsi d’autore (d’autore economista ortodosso). Dunque: non sapete quasi nulla, e quel poco è drogato dal giornalismo da regime internazionale. Comincerò dunque da quel vuoto: perché non sapete quasi nulla dell’Argentina? Forse perché siete tenuti consapevolmente all’oscuro su una seria sconfitta del neoliberalismo.

 

1. L’esperimento neoliberale

Negli anni 90 il paese del sud del mondo fu il caso esemplare, il fiore all’occhiello del FMI. Il terreno era stato ripulito dalla dittatura militare. Poi è venuto il governo democratico di Raúl Alfonsín, e quasi rovescia la tendenza. Ma nel 1989 con il governo peronista di Carlos Menem la via maestra è stata ripresa, e sono iniziati i ruggenti anni 90 del neoliberalismo in Argentina.

Sul terreno istituzionale fu assicurata la complicità della Suprema Corte di Giustizia nominando numerosi nuovi giudici malleabili: era “l’elenco della salvietta”, scritto appunto in un ristorante di tendenza. Con opportuni acquisti si garantì una maggioranza inossidabile nel Parlamento. Più avanti (una volta riformata a piacere del neoliberalismo) fu resa autonoma la Banca Centrale dallo Stato, consegnandola nelle mani sapienti del FMI, delle multinazionali e degli speculatori locali. Più avanti ancora fu riformata la Costituzione. Fu votata un’amnistia “tombale” per gli assassini e torturatori della dittatura, militari, poliziotti e civili.

Il ministro di Economia Domingo Cavallo prese la misura chiave, quella che valse al governo di Menem un ampio sostegno da parte della classe media: l’ancoraggio del peso argentino al dollaro, nella proporzione di uno a uno. Equivalse, per i suoi risultati, alla sostituzione della lira per l’euro. Peggio ancora: si rinunciava alla propria politica monetaria per una moneta straniera, il dollaro, senza neanche una partecipazione formale del paese nella sua gestione.

La politica sociale fu il vero fondamento del periodo. L’occupazione, il salario e le spese sociali pubbliche furono aggredite a fendenti d’ascia. A differenza della dittatura militare, iniziatrice di questa politica, furono impiegati mezzi non cruenti: la burocrazia dei sindacati fu cooptata per mezzo della corruzione e la ridefinizione imprenditoriale della loro funzione. I licenziati ricevettero frequentemente buone liquidazioni, anche se una volta spese finivano nella miseria: la politica deflazionistica implicita, i tagli alla spesa pubblica e la distruzione generalizzata dell’industria eliminarono tutti i posti di lavoro disponibili.

La concentrazione imprenditoriale, iniziata dalla dittatura militare, ebbe un forte impulso sotto il menemismo. Centinaia di migliaia di piccole aziende perirono, e poche imprese, a volte una o due, presero il controllo di tutti i comparti industriali. I comparti rimanenti bisogna dire, perché nel contempo l’ancoraggio all’“un peso un dollaro” spazzò via una parte sostanziale dell’attività produttiva. Nei supermercati argentini tutto era importato, si vendeva perfino acqua Evian francese e il pane in cassetta nordamericano. Cadevano i salari, la disoccupazione cresceva incontenibile, ma la classe media era nel paradiso. Comprava estasiata quel che sempre aveva sognato, viaggiava senza misura a Parigi, Roma, New York e soprattutto alla capitale neocoloniale Miami, dove impose il lema “me ne dia due”, come marchio del consumismo caffone.

Come non poteva essere altrimenti, questa politica generò un vero e proprio baratro nei conti. L’unico macrosettore modernizzato con ingenti investimenti fu l’agrario. Chi abbia conosciuto la campagna argentina nei primi anni 70 non la avrebbe riconosciuta nei 90, era diventata la più tecnologizzata del mondo, più ancora di quella degli USA. Centocinquantamila aziende agricole, con 300 mila lavoratori, producevano il doppio di tutto il settore agrario di prima. Gli appezzamenti contadini erano quasi del tutto spariti. Verso la fine del periodo l’area coltivata cresceva incontenibile verso altre regioni prima improduttive. Ma un’Argentina tornata indietro alla specializzazione agricolo-alimentare poteva sostenere semmai dieci milioni di persone, includendo il terziario e la popolazione non economicamente attiva. Avanzavano trenta milioni di poveri cristi. Gli economisti della scuola di Chicago non chiarirono mai cosa si doveva fare di loro.

I conti esteri erano fortemente deficitari. I tagli alla spesa, quasi tutti in quella sociale, erano ridicolamente insufficienti. I fondi venivano dagli investimenti stranieri (in particolare nordamericani e spagnoli) che non iniziavano nessun’attività produttiva, ma si limitavano ad acquistare le aziende nazionali a prezzo di liquidazione. Non era ancora sufficiente. Lo Stato si lanciò allora allo sguazzamento generale. Fu eliminata la ricerca, e i ricercatori invitati a imparare a lavare piatti ed emigrare. Emigrarono in massa, ma non dovettero lavare piatti: furono assunti dalle aziende e università dei paesi che credevano nel neoliberalismo… ovunque, meno che da loro.

La educazione fu trasferita alle provincie (enti più simili agli Stati degli USA che alle Regioni italiane) con fondi del tutto insufficienti. Crebbe un abisso tra le scuole delle provincie ricche e quelle povere, e i salari degli insegnanti calarono a livelli inferiori a quelli dei braccianti. Il sistema sanitario nazionale fu disarmato e sostituito a pezzi; negli ospedali pubblici non c’erano neanche gli insumi di base, mentre che le cliniche private, legate al sistema delle assicurazioni di salute, si riempivano di soldi. Le assicurazioni arricchirono molti imprenditori, ma anche tutti i sindacalisti, diventati imprenditori della salute dei clienti “cautivi”, i loro iscritti. Chi non aveva la tessera sindacale o i soldi per pagare l’assicurazione (un terzo dei lavoratori erano “irregolari”, altro 20% era precario e il 15% della popolazione attiva era disoccupato) rimaneva semplicemente fuori. Le persone anziane o malate non potevano neanche pagare un’assicurazione privata: le imprese rifiutavano loro perché erano un rischio.

Le pensioni furono privatizzate, con il sistema “a capitalizzazione”. I fondi furono gestiti in modo corrotto, beneficiando alcune banche e assicurazioni, e pagando stipendi milionari ai sui dirigenti. Una parte sostanziale fu investita in fondi nordamericani, in particolare in quelli più truffaldini… Quando alla fine degli anni 90 si pagarono le prime pensioni, i beneficiari ricevettero somme assurdamente basse, una burla.

Gli investimenti esteri, come ho detto, non miglioravano il profilo produttivo del paese. Centinaia di imprese furono acquistate a prezzo vile al solo scopo di chiuderle. Altre furono sguazzate e vendute a pezzi, o semplicemente sfruttate senza investimenti finché perivano.

Un esempio può essere la compagnia aerea di bandiera, Aerolíneas. Fu acquistata dalla sua rivale spagnola, Iberia (è curioso che, con l’argomento della maggiore efficienza del privato nei confronti del pubblico si consegni un’azienda pubblica argentina a un’azienda pubblica spagnola e per di più fortemente deficitaria). Iberia compensò l’acquisto per mezzo della vendita dei velivoli più moderni di Aerolíneas, l’azienda acquistata. Gran parte degli stabilimenti di manutenzione e di allenamento dei piloti (molto moderni questi ultimi) passarono a servire a Iberia. Di fatto l’azienda spagnola aveva acquistato a prezzo vile i percorsi di Aerolíneas, che ambizionava. Finalmente, ridotta ad un guscio vuoto, la compagnia fu venduta all’imprenditore turistico spagnolo Marsans, che la utilizzò per i suoi voli charter. Qualche anno dopo Marsans era nella rovina, e Aerolíneas a pezzi.

Ancora peggio è andata all’azienda ferroviaria argentina. Era un’impresa a proprietà pubblica, que gestiva la maggiore rete ferroviaria del continente, e una delle maggiori del mondo (100 mila kilometri di strada ferrata). Serviva per unificare e valorizzare economicamente un territorio immenso. Non ha mai avuto rentabilità, neanche quando gli investimenti inglesi produssero un’espansione accelerata; nei fatti il negozio si trovava nell’acquisto, o la ottenzione gratuita, di terre ai lati delle linee, fortemente valorizzate dalla politica deficitaria di tariffe e venduti in parcelle ad alti prezzi. Nel periodo di gestione pubblica la stessa politica di tariffe, coperta da sovvenzioni statali, servì per sviluppare regioni non tradizionali, agrarie, boschive, miniere e industriali. La ferrovia perdeva soldi, ma il paese guadagnava.

Non era l’opinione del ingegnere militare nordamericano Thomas Larkin, della Banca Mondiale. Nel 1962 consegnò un rapporto che raccomendava chiudere tutte le linee che non avessero utili, investire nei soli troncali, modernizzare il materiale rodante e aggiustare verso l’alto tutte le tariffe. L’applicazione del piano Larkin cominciò nella dittatura militare, nel 1976; vent’anni dopo il governo di Menem superò i suoi obbiettivi. Con lo slogan “linea che sciopera linea che chiude” ridusse la rete argentina a meno della metà, e il servizio ferroviario a un decimo. Il resto (in particolare le ferrovie dei pendolari del Grande Buenos Aires) fu privatizzato a beneficio di alcune aziende amiche e dei sindacalisti ferrovieri. Questi ultimi crearono aziende terzerizzate che assumevano personale precario e malpagato, in sostituzione del personale regolare licenziato. Rimaneva per lo Stato l’obbligo di manutenzione dell’infrastruttura, mentre che il privato si occupava del materiale rodante. Ne l’uno ne l’altro fecero investimenti; alla fine del periodo il mozzicone rimanente delle ferrovie era una rovina desolante e pericolosa.

Un fenomeno caratteristico è la nascita delle cittadine fantasma, una decina in diversi punti, un tempo prosperi, ma soffocati dalla mancanza di trasporti, o dai prezzi proibitivi del trasporto su gomma sostitutivo. Ottimi scenari per films di terrore.

L’uno a uno era un Moloch che esigeva bruciare più e più divise straniere. Rimaneva una unica fonte: l’indebitamento, e fu praticato con accanimento, e con l’aiuto del FMI. I debiti erano pagati con altri debiti, con interessi crescenti grazie ai servizi delle aziende internazionali di qualificazione. Alla fine del periodo il debito superava ampiamente il doppio del PIL, ed era impagabile.

Come accade nei paesi presidenziali, la politica argentina in democrazia si canalizzava attraverso due partiti: il justicialismo (peronismo) e il radicalismo. Il governo di Menem produsse un rimescolamento dove l’aggettivo (“di destra”) era più importante che il sostantivo. Non è sorprendente che l’opposizione al neoliberalismo vincente venisse fuori dagli stessi due partiti bipolari: il radicalismo di sinistra e il peronismo di sinistra, con il sostegno di una parte del sindacalismo.

Il peronismo di sinistra creò la sua propria organizzazione, il Frente Grande, diventato Frepaso nelle elezioni del 1995. Nel 1997 il Frepaso realizzò un’alleanza con el partito radicale, che vinse le elezioni successive. Ma il Frepaso, che aspirava ad un’alleanza con Raúl Alfonsín, l’ex presidente democratico, si trovò con un candidato che veniva dalla destra radicale, Fernando de la Rúa, imposto dai suoi alleati con abili giochi di potere. De la Rúa finì presidente nel 1999, con el dirigente della sinistra peronista Carlos Alvarez come vicepresidente. Ridotto ad un posto ornamentale, tradito da molti dei sui parlamentari, Alvarez vide impotente un revival del menemismo: corruzione, politica antioperaia e antipopolare, riforme caldeggiate dal FMI, e perfino il ritorno del ministro Cavallo.

Questi si ritrovò con una crisi incontenibile, e spese le sue ultime cartuccie, i bond argentini. Bond spazzatura, spacciati dai sui amici nella banca italiana, giapponese, tedesca e francese agli ignari clienti, perfino quando il default era già stato dichiarato.

Nel 2001 la situazione precipitò. I lavoratori occupati e disoccupati, stanchi degli scioperi ignorati e dimenticati, lanciarono un’ondata di chiusura di autostrade (i “piquetes”). L’FMI impose a Cavallo l’austerità “zero deficit”; nella condizioni di caduta libera del prodotto lordo l’effetto fu di accelerare la paralisi del paese. Imprenditori e risparmiatori risposero con un ritiro massiccio dei loro depositi nelle banche. La contromisura di Cavallo fu la chiusura (nei fatti una confiscazione) dei conti, il “corralito”.

La classe media, quella stessa dell’ubriacatura di Miami, uscì sulle strade, colpendo le porte delle banche (preventivamente blindate) con le loro pentole vuote. A dicembre del 2001 la situazione precipitò. Gruppi di persone assalivano i supermercati e i centri commerciali creati nella fioritura del terziario del menemismo. I “piquetes” si estendevano, paralizzando di fatto il paese. I “caceroleros” (movimento delle pentole vuote) occupavano il centro delle grandi città, convergendo a Buenos Aires nella piazza di Mayo. Per ordine del governo la polizia rispose sparando, ci furono intorno ai 40 morti. Molti di loro furono della legione di eroi del movimento, i “motoqueros del delivery” (motociclisti che distribuiscono beni acquistati per telefono o internet), una professione precaria generata dal boom dei consumi di Menem.

De la Rúa e il suo entourage fuggirono in elicottero dalla casa di Governo, in una involontaria riproduzione della ritirata nordamericana da Saigon. Rimanevano rovine. Si era dimostrato che era possibile distruggere un paese moderno, di sviluppo medio, senza sparare una pallottola, con la sola forza delle teorie fasulle.

SEGUE: Argentina.  2.  gli anni dei Kirchner

 

 

 

 

 

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Category: Economia, Osservatorio America Latina

About Miguel Angel Garcia: Miguel Angel García è uno scrittore e sociologo argentino-italiano che vive attualmente a Buenos Aires. Ha 75 anni dei quali ha vissuto 36 in Italia, la maggior parte dei quali a Bologna. Ha pubblicati diversi libri e saggi: “Argentina”, Mazzotta Editore, Milano 1975; “Peronismo, desarrollo económico y lucha de clases”,Edi­torial Trazos, Barcelona, 1979; “El Nacimiento de América”, Editorial Extemporáneos, México DF, 1983; "America Latina", Secolo XIX, Genova, 1985; “Gli argentini in Italia: una comunità di immigrati nella terra degli avi”, Edizioni Synergon, Bologna, 1992; “Gli studenti stranieri a Bologna”, Acostud/Clueb, Bologna 1996; Indagine sui giovani italiani all’estero: rapporto di ricerca sul Brasile e l’Argentina”. IRES, Cespi e Siares, Roma 2003; Immigrazione italiana nell’America del Sud (Brasile, Uruguay, Argentina), Filef 2003 (ed altri). Finzione: racconto ipertestuale “Border Line” (Castelvecchi, Roma 1993); “Il Maestro di Tango ed altri racconti” (ed. Eksetra, Bologna 2005); “Una historia de amor”, romanzo in lingua spagnola a puntate (web 2008); “El Loco Panda”, romanzo in spagnolo (MAL editor, Buenos Aires 2014). Ha publicato inoltre una quantitá elevata di pezzi giornalistici, qualche centinaio di saggi brevi in riviste teoriche, una decina di racconti in pubblicazioni varie ed altro (75 sono un bel po’ di anni).

Comments (1)

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  1. Maria Grazia ha detto:

    Buongiorno!
    Ma questo articolo è attuale? Cioè, la data riportata sul sito, corrisponde a quella dello scritto?!

    Grazie mille

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