Maurizio Scarpari: Inciampi e delusioni lungo la Via della seta. Il Memorandum Italia-Cina

| 18 Giugno 2019 | Comments (0)

 

Inciampi e delusioni lungo la Via della seta: il Memorandum Italia-Cina

 

1. Le cose sono andate com’era facile immaginare. Le preoccupazioni espresse nel settembre dello scorso anno circa l’inadeguatezza del nostro governo ad affrontare la “questione Cina”, resa ogni giorno più complicata di quanto già non fosse dalla politica trumpiana dei dazi e delle sanzioni, hanno trovato la loro conferma nelle settimane successive al rientro di Xi Jinping e Signora a Pechino dalla “visita imperiale” in Italia, Monaco e Francia.[1] Il viaggio di Luigi Di Maio negli Stati Uniti nei giorni successivi (per la Lega era andato, poco prima dell’arrivo di Xi in Europa, Giancarlo Giorgetti, a metà giugno è stata la volta di Matteo Salvini) e quello di Giuseppe Conte a Pechino in occasione del Forum sulla Via della Seta a fine aprile hanno reso evidente l’insuccesso per l’Italia della stipula del controverso Memorandum of Understanding sulla Bri (Belt and Road Initiative, la Nuova Via della seta),[2] osteggiata sia dall’amministrazione americana, che considera la Cina la principale minaccia per l’Occidente e il nemico numero uno degli Stati Uniti, sia dai principali partner europei che non hanno ritenuto opportuno sottoscriverlo in assenza di regole condivise che garantissero rapporti di reciprocità effettiva e la tutela degli interessi e delle aziende dell’Unione Europea. Il difficile processo negoziale si trascina da lungo tempo, forse troppo, e ha visto, in questo come in altri casi, un’Unione Europea esitante sino alla paralisi, incapace di agire con prontezza e in modo coeso e coerente. La situazione gioca a favore della Cina (ma anche di Stati Uniti e Russia), consentendole di trattare con ogni singolo paese più liberamente e da una posizione di maggior forza.

 

2. La firma del Memorandum da parte di un paese del G7 ha dunque rappresentato un grande successo politico per Xi Jinping, mentre ha isolato l’Italia, ancor più di quanto già non lo fosse, dai suoi partner tradizionali. In cambio di cosa?

Si è trattata di un’operazione fortemente voluta dal Ministero per lo Sviluppo Economico (Mise), condotta con una buona dose di leggerezza, che ha sollevato reazioni critiche e preoccupazioni in molti ambienti, nazionali e internazionali. Contro ogni evidenza si è voluto credere (forse su motivazioni inconsce) e far credere agli italiani (di certo intenzionalmente) che si stava lavorando a un accordo quadro di natura puramente commerciale, per nulla vincolante, privo di connotazioni e implicazioni politiche, che avrebbe consentito grandi vantaggi per la nostra economia, essendo l’Italia, una volta tanto, arrivata prima in una competizione che in realtà non c’è e non c’è mai stata, e che, se ci fosse stata, non ci avrebbe di certo visti arrivare primi. Lo “scatto in avanti” del governo italiano appare più uno “strappo in avanti”, frutto di una scelta improvvisata e pasticciata, dettata dal bisogno di trovare investitori pronti a pagare il conto di promesse elettorali che le dissestate casse statali non sono in grado di soddisfare e da un esasperato narcisismo (non solo politico) dei suoi protagonisti, poco preoccupati dalla grave e per certi versi imbarazzante irrilevanza in cui l’Italia è precipitata a livello internazionale (non solo europeo) a causa del loro inadeguato comportamento istituzionale e della drammatica situazione economica in cui versa l’Italia.

In Europa solo i paesi di minor peso politico ed economico si sono affrettati a sottoscrivere il Memorandum nella speranza di ricevere qualche trattamento preferenziale (salvo poi lamentarsi per la mancata concretizzazione di parte dei vantaggi promessi), gli altri ipotetici concorrenti di questa competizione che in realtà non c’è mai stata – vale a dire quelli che contano – hanno resistito alle pressioni cinesi senza rinunciare comunque a siglare contratti, in genere più vantaggiosi e redditizi di quelli firmati dall’Italia (distintasi, tanto per cambiare, come fanalino di coda), concentrando gli sforzi sul tentativo, non facile da tradurre in strategia, di stilare norme comuni a livello europeo, nella convinzione che i singoli paesi da soli non potranno mai dialogare “alla pari” con un colosso come la Cina.

 

3. Inutile ripercorrere gli eventi di quei giorni, le analisi e le valutazioni, quasi tutte critiche, che ne sono scaturite (le nostre sono facilmente rintracciabili nella versione online di questa rivista). Come si sia arrivati al “pasticcio cinese”, per parafrasare il titolo di un intervento di Pier Carlo Padoan,[3] è stato ricostruito da Giulia Pompili, la giornalista esperta di Asia de Il Foglio, che segue da vicino la politica cinese e la politica italiana in Cina.[4] Il quadro che emerge è desolante e certifica il grave livello di inadeguatezza e improvvisazione che ha caratterizzato le mosse del Mise. Sorprende l’assenza pressoché totale del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, il cui ruolo dovrebbe essere tutt’altro che secondario, e non può certo essere considerato un caso che a firmare il Memorandum sia stato il ministro Di Maio e non il titolare della Farnesina, come prassi vorrebbe e com’è avvenuto per gli altri paesi che hanno aderito alla Bri, europei compresi.

Che la Cina sia un interlocutore da cui è impossibile prescindere è un dato di fatto, sarebbe assurdo sostenere il contrario e un errore gravissimo anche solo immaginare di non dover tenere nel dovuto conto il ruolo economico e politico di prima grandezza ormai assunto dal paese e rivendicato dal governo di Pechino. È quindi senz’altro opportuno e persino doveroso per qualsiasi governo valorizzare le relazioni reciproche e cogliere, laddove possibile e nelle forme più adeguate, le immense opportunità che la Bri può offrire. L’Italia si trova in una posizione geopolitica ideale, grazie alla sua centralità nel Mar Mediterraneo e ai suoi porti (in particolare quelli liguri e dell’Alto Adriatico) che ne fanno la porta di accesso naturale a numerosi paesi dell’Europa continentale (è utile ricordare che 2016 la Cina ha acquisito una partecipazione del 49,9% del container terminal di Vado Ligure). A condizione però di avere un progetto di sviluppo del paese di grande respiro che comprenda un piano di ammodernamento delle infrastrutture italiane, in gran parte obsolete e inadeguate a gestire il volume di traffico che l’arrivo delle navi container cinesi comporterebbe,[5] che risolva una volta per tutte la questione del trasporto merci via gomma o rotaia e “la frammentazione in cui versa da sempre il sistema portuale italiano” che “rischia di portare oggi a scelte infauste dal punto di vista dello sviluppo economico del paese”.[6] Potenzialità immense che consentirebbero all’Italia di svolgere un ruolo di primissimo piano e di trarre benefici enormi, sia in termini di ristrutturazione infrastrutturale dell’intera rete stradale, ferroviaria, portuale, aeroportuale e logistica sia in termini strettamente economici.

Perché dunque tanta apprensione per la firma di un Memorandum che, a conti fatti, potrebbe rivelarsi una mossa vincente per il rilancio delle relazioni Italia-Cina e per la realizzazione di progetti ambiziosi che vedrebbero l’Italia al centro di un disegno strategico di grande respiro o, al contrario, una semplice good intentions list dal corto respiro, anche solo a causa del malfunzionamento della macchina decisionale e operativa italiana, a prescindere dalla volontà cinese di passare dalle intenzioni ai fatti?

Sono indubbi la natura strategico-egemonica e, quindi, politica e il carattere pervasivo del progetto di espansione cinese che, è bene ricordarlo, estende le sue ambizioni principalmente lungo il continente euroasiatico fino a lambire le coste atlantiche, interessando anche i paesi dell’Asia orientale e meridionale e del Sudest asiatico, l’Africa e il Sudamerica. Al progetto hanno aderito una settantina di paesi, ma il numero dei paesi coinvolto è di gran lunga maggiore ed è destinato ad aumentare rapidamente. Sono previsti investimenti massicci, come mai si era visto nella storia dell’umanità (un migliaio di miliardi di dollari solo nella fase di avvio), finalizzati a due obiettivi primari: posizionare la Cina al centro di una fitta rete di collegamenti infrastrutturali (stradali, ferroviari, marittimi, aerei, ma anche di oleodotti, gasdotti, reti di telecomunicazioni) e smaltire la propria sovrapproduzione industriale, creatasi in seguito alla contrazione delle esportazioni, riducendo le quali l’economia cinese sarebbe destinata a un drastico ridimensionamento che causerebbe gravi ripercussioni non solo a livello interno ma anche mondiale.

A mio avviso sono almeno quattro le condizioni da cui non si dovrebbe prescindere nello stipulare accordi nell’ambito della Bri per non trovarsi in difficoltà quando ormai è troppo tardi, come insegna l’esperienza di nazioni che senza quasi rendersene conto si sono trovate imbrigliate in debiti enormi (cadendo nella cosiddetta “trappola del debito”), per pagare i quali hanno dovuto cedere ingenti quantità di materie prime o di sovranità. Visto l’interesse manifestato dai cinesi per i porti italiani è bene ricordare quanto è avvenuto al porto greco del Pireo (dove la Cosco, la compagnia di stato cinese di servizi di spedizioni marittima e di logistica portuale leader mondiale nel settore e braccio operativo della Bri, ha comprato il 67% del capitale della Piraeus Port Authority, assicurandosi di fatto il controllo del porto), al porto pachistano di Gwadar, dal quale transita il 60% del traffico mondiale di petrolio e gas (è in fase avanzata la trattativa per la costruzione di un secondo porto nella penisola Jiwani nei pressi di Gwadar con funzione di supporto militare alla flotta cinese), al porto di Hambantota, nello Sri Lanka, ceduto in concessione per 99 anni. Diversa è invece l’acquisizione, a pagamento, di spazi rilevanti nel porto di Gibuti nel Corno d’Africa, considerato un avamposto militare strategico per il controllo dell’intera Africa orientale.[7]

La prima condizione è apparentemente semplice, ma non è affatto scontata: nell’impostare progetti infrastrutturali di ampio respiro nell’ambito della Bri è necessario procedere con la massima prudenza, avendo ben chiari a priori gli obiettivi di minima e di massima che si vogliono raggiungere e il prezzo che si è disposti a pagare, nella consapevolezza che i cinesi non regalano niente a nessuno, se investono all’estero vogliono ricavarne un buon tornaconto, e che la loro capacità di penetrazione è impressionante. L’esperienza insegna che la convinzione dei governi di possedere strumenti adeguati per tenere sotto controllo la realizzazione di progetti infrastrutturali complessi concordati nell’ambito della Bri si è rivelata in diversi casi un peccato di presunzione, un errore di sopravvalutazione delle proprie capacità dalle conseguenze disastrose.

In secondo luogo è indispensabile avere a monte un proprio progetto di sviluppo del sistema-paese a medio-lungo termine che prescinda dal rapporto con la Cina, basato su solide politiche industriali e commerciali condivise non solo a livello politico ma anche e soprattutto a livello sociale, tenendo nel dovuto conto i mutamenti in atto sia a livello regionale che globale. Sarebbe necessario un governo costituito da persone preparate, capaci, affidabili e oneste (il tema della corruzione è rilevante in questo caso più di quanto già non lo sia di per sé), dotate di un alto senso delle istituzioni e in grado di guardare oltre il proprio immediato interesse (sia come individui che come gruppi politici) e di comprendere la complessità dei processi di ridefinizione delle alleanze tra le nazioni a livello globale. In quest’ottica, è evidente che una politica strategica indipendente ma concordata in ambito comunitario darebbe una forza negoziale più efficace che andrebbe a vantaggio della comunità nel suo insieme, ma anche di ogni singolo partner. Sembra scontato ma, come s’è visto anche in occasione della firma del Memorandum, non lo è.

In terzo luogo è indispensabile avere una buona conoscenza della cultura e della realtà cinesi, senza la quale è impossibile comprendere correttamente il modus operandi dei propri interlocutori e gli obiettivi strategici delle loro politiche. È necessario essere consapevoli di quanto i politici e gli imprenditori cinesi siano negoziatori preparati e abili, di quanto i progetti che portano avanti siano approfonditi e lungimiranti, di quanto complessi siano in Cina i processi decisionali e il rapporto tra imprenditoria, pubblica e privata, e dirigenza del paese. Ha grande importanza la comprensione dei reali obiettivi strategici di natura politica, economica, commerciale e militare di Pechino nella competizione per la supremazia mondiale, che determina le relazioni tra superpotenze, con ricadute di varia entità sulle nazioni più piccole. È stata messa in discussione l’esistenza stessa degli attuali organismi internazionali, funzionali all’assetto geopolitico tradizionale.

Infine, è indispensabile tenere sempre presente che quello cinese è un regime autoritario, guidato con fermezza dal partito comunista, che rifiuta gran parte dei cosiddetti “valori occidentali” ritenuti inapplicabili e per certi aspetti pericolosi per lo sviluppo di una società che ha una concezione diversa dalla nostra delle libertà e dei diritti individuali, che non esita a intervenire con forza per reprimere e bloccare sul nascere critiche e proteste verso l’azione del governo o i suoi principali leader. Ignorare questi aspetti significa dimostrarsi indifferenti sul piano dei valori, con il rischio di trovarsi implicati in situazioni che potrebbero rivelarsi problematiche non solo sul piano etico (che nel mondo degli affari sembra avere sempre meno rilevanza), ma anche politico, economico e commerciale.[8]

 

4. È evidente che l’attuale politica governativa italiana verso la Cina, che ha portato alla firma del Memorandum, non soddisfa nessuna di queste condizioni. La mancanza di un progetto di sviluppo industriale, economico e infrastrutturale che abbia un orizzonte temporale di medio-lungo periodo e che tenga conto della complessità della realtà cinese e globale è ormai di tutta evidenza. Il reddito di cittadinanza, perno della politica economica del M5S, fatta propria dall’attuale governo, ha rivelato la sua natura essenzialmente assistenziale, certamente opportuna per contrastare il forte disagio in cui si è venuta a trovare parte della popolazione italiana, ma totalmente inadeguata ad avviare quella “rivoluzione economica” o, almeno, quella ripresa significativa che era nelle aspettative degli italiani e nelle promesse elettorali di chi aveva proposto il reddito di cittadinanza.

Ed è proprio grazie alla mancanza di un piano di sviluppo economico da parte del governo, in particolare della sua componente pentastellata, che il progetto di sviluppo basato su una stretta collaborazione con la Cina proposto da Michele Geraci ancor prima di diventare sottosegretario al Mise è parso al ministro Di Maio una possibile alternativa in grado di colmare la lacuna venutasi a creare nel difficile passaggio, assai più complesso di quanto immaginato, di traduzione delle promesse in fatti concreti. Non è un caso più che a Salvini (Geraci è in quota Lega) la possibilità di coinvolgere i cinesi è piaciuta al titolare del Ministero da cui Geraci dipende, che di Cina sa poco o nulla, come s’intuisce dai suoi sporadici interventi sul tema rilasciati prima di salire al governo, in genere dal tono generico e meramente propagandistico,[9] o in occasione dell’ormai famosa gaffe compiuta nel corso della trasferta all’Expo di Shanghai, dove ha più volte chiamato pubblicamente Xi Jinping “presidente Ping”.[10]

 

5. Michele Geraci è dunque l’artefice della “operazione Cina”, a cui dedica ogni energia nella convinzione di riuscire a realizzare quanto promesso alla vigilia della sua nomina in un articolo pubblicato sul Blog di Beppe Grillo l’11 giugno 2018 (diverrà sottosegretario due giorni dopo): la Cina sarà “la variabile di impatto maggiore sulla nostra economia e società durante il quinquennio 2018-2023 dell’attuale legislatura”.[11] Secondo Geraci il coinvolgimento attivo della Cina nella nostra politica economica risolverebbe tutti i punti del programma di governo. Un’ipotesi allettante per un ministro in affanno, ritrovatosi senza un “suo” progetto di sviluppo economico e industriale e costretto a dare forma alle proprie promesse ricorrendo per lo più al debito, aumentando così il deficit pubblico.[12]

L’intervento di Geraci fu al centro di commenti ironici[13] e di aspre critiche, sostanzialmente dovute alla leggerezza con cui il futuro sottosegretario proponeva il modello illiberale cinese (considerato più funzionale rispetto ai sistemi democratici occidentali) come fonte di ispirazione per i politici italiani.[14] Fu persino pubblicato sul giornale online Chinoiresie dell’Australian Centre on China in the World dell’Australian National University, un appello internazionale in lingua italiana e inglese firmato da 23 sinologi attivi in 23 università, 18 delle quali straniere, tutti italiani affermati e noti nel mondo accademico internazionale per i loro studi sulla Cina contemporanea, che invitava a guardare alla Cina con maggior consapevolezza critica e responsabilità, tenendo conto della sua complessità, senza strumentalizzazioni e mitizzazioni, criticando le affermazioni del sottosegretario in quanto ritenute parziali e assolutamente pericolose “perché prendono a modello un sistema autoritario, ma soprattutto per il sistema di valori che sottendono”.[15]

La figura del sottosegretario Geraci, così centrale nella politica governativa verso la Cina, rispecchia l’approssimazione con cui talvolta vengono scelte le persone chiamate a ricoprire posizioni di rilievo nel governo e nel sottobosco governativo: in effetti il suo curriculum ufficiale delinea un percorso formativo e lavorativo di primissimo piano, svolto quasi interamente all’estero. Transitato da una banca d’affari all’altra (senza però che venga mai specificata la posizione ricoperta e il periodo trascorso presso la stessa banca) fino al 2008, anno in cui è approdato, in piena crisi finanziaria dei subprime, in Cina, riuscendo nel giro di qualche anno a costruirsi una fama di esperto economista e a entrare a stretto contatto con il mondo politico, affaristico e diplomatico italiano che gravita intorno alla Cina. Nel 2015 gli è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia, per aver acquisito particolari benemerenze nella promozione dei legami tra Italia e Cina, quando in Italia (e sostanzialmente anche in Cina) nessuno al di fuori del “suo” giro sapeva nemmeno chi fosse. Gli sono stati inoltre affidati alcuni contratti in università straniere con sede in Cina e ultimamente anche in un’università cinese, fatto non insolito anche per chi non ha un percorso accademico “effettivo” alle spalle (inutile cercare sue pubblicazioni accademiche che ne delineino il profilo di studioso) e soprattutto si è proposto come una sorta di “ambasciatore del governo cinese” all’estero.[16] E sono proprio questo ruolo di “ambasciatore” e la sua “ossessione” di promuovere in modo frenetico e acritico la Cina a ogni livello e in ogni contesto a motivare le critiche che gli sono state rivolte.[17] Ha destato perplessità anche la creazione della Task Force China presso il Mise, a cui sembra che in un primo momento abbiano aderito circa 1300 persone (l’accesso era stato consentito a chiunque manifestasse il proprio interesse), poi ridotte a qualche centinaia. Si tratta di un organismo di difficile gestione e quindi di scarsa utilità, al punto da guadagnarsi l’appellativo di “task forse”. Per ovviare al problema, di recente è stato istituito un gruppo più snello di esperti che viene riunito in via riservata direttamente dalla segreteria di Geraci.

A un certo punto della sua permanenza in Cina Geraci ha deciso che era arrivato il momento di fare il salto di qualità e di approdare alla politica, ritagliandosi il delicato ruolo di cerniera tra Cina e Italia. Si è così dedicato alla costruzione di un percorso di avvicinamento al mondo politico e imprenditoriale che lo ha portato a contatto con esponenti di rilievo della Lega, fino ad arrivare a Salvini, a cui è stato presentato come “esperto di mercati esteri” (curiosamente Salvini ha fatto il suo nome, senza peraltro insistere troppo, come possibile premier nei difficili giorni di trattativa che hanno poi portato all’individuazione di Giuseppe Conte). Risale a questo periodo la collaborazione con il Blog di Beppe Grillo, dove Geraci ha esposto le sue controverse tesi che gli hanno spalancato le porte al sottosegretariato: “un inno all’arte tutta italiana di rinnovarsi, spiega chi lo conosce bene, e al sapersi vendere ancora meglio”.[18] La sua recente presa di posizione volta a rimarcare la sua appartenenza all’area leghista (nonostante la Lega abbia preso le distanze dall’iniziativa del Memorandum) è dovuta alle difficoltà in cui si è trovato dopo l’insuccesso, per l’Italia, della missione europea di Xi Jinping e alla necessità di smarcarsi da un M5S sempre più in calo di consensi, affermando nel contempo la validità del suo progetto di sviluppo basato su un forte coinvolgimento della Cina anche nell’ottica di un futuro governo a guida Salvini.

 

6. Il 2020 sarà l’anno della cultura e del turismo italiano in Cina, indetto in concomitanza del cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Cina. È dunque facile immaginare che le relazioni tra i due paesi siano destinate a migliorare nel prossimo futuro, anche dal punto di vista economico e indipendentemente dall’adesione alla Bri. A tutt’oggi, però, possiamo solo ricavare l’impressione che lo “strappo in avanti” voluto principalmente da Luigi Di Maio e Michele Geraci si è rivelato un passo avventato che al momento non ha prodotto alcun risultato concreto, se non quello di aver irritato i nostri partner e, in particolare, l’amministrazione americana che è intervenuta a vari livelli per ostacolare quest’operazione della quale i nostri governanti hanno dovuto, volenti o nolenti, render loro conto. Aveva saggiamente ammonito Lucio Caracciolo: “L’Italia è finita senza accorgersene nel mezzo del ring dove Stati Uniti e Cina si sfidano per il titolo mondiale dei supermassimi. Esposta ai colpi degli uni e degli altri, sopra e sotto la cintura. Non è da tutti offrirsi contemporaneamente all’ira del campione in carica – nostro nominale alleato, di fatto padrone di casa – e del suo sfidante unico, che vorrebbe servirsi dello Stivale per avvicinarsi al centro del quadrato, occupato dal detentore. Il match minaccia di prolungarsi oltre i tempi regolamentari. Resta da stabilire come sia stato possibile ficcarci in tanto guaio.”[19] Aveva visto bene: si tratta di problemi complessi che non si risolvono con risposte semplici, ricette miracolistiche o improvvisando scorciatoie di comodo, richiedono conoscenze, competenze e lungimiranza.

 

NOTE

[1] Maurizio Scarpari, “Parliamo con la Cina, sì. Ma forse non siamo pronti”, La Lettura (Corriere della Sera), 355, 16 settembre 2018, p. 13 (anche in Inchiesta online, 18 settembre 2018), Id., “Timeo Danaos et dona ferentes: timori e speranze sulla Via della seta”, Inchiesta online, 16 marzo 2019, Id., “In margine alla visita di Xi Jinping in Italia”, Inchiesta online, 29 marzo 2019.

[2] In occasione del Forum si sarebbero dovuti firmare nuovi accordi per dare maggior consistenza al Memorandum, ma ciò non è avvenuto. Andrea Pira, “Conte vola a Pechino ma lo seguiranno pochi imprenditori”, Milano Finanza, 23 aprile 2019, evidentemente per le pressioni contrarie esercitate dall’amministrazione statunitense. La “foltissima schiera di imprenditori” che secondo le dichiarazioni del Premier rilasciate in occasione dell’inaugurazione del Salone del Mobile 2019 avrebbero dovuto accompagnarlo a Pechino è rimasta a casa. Incontri a vari livelli sono comunque in corso, com’è sempre avvenuto nell’ambito della normale attività commerciale tra i due paesi.

[3] Pier Paolo Padoan, “Il pasticcio cinese”, Il Foglio, 19 marzo 2019.

[4] Giulia Pompili, “Così siamo arrivati a stare con i cinesi senza avere niente in cambio”, Il Foglio, 21 marzo 2019.

[5] Maurizio Scarpari, “Timeo Danaos et dona ferentes, cit.

[6] Alessia Ameghini, “Porti italiani lungo la via della seta”, La voce.info, 15 luglio 2016.

[7] Davide Cucino, “La Via Marittima della Seta e le dispute nel mar Cinese Meridionale”, Mondo cinese, 162, 2017, pp. 81-94.

[8] Com’è noto, nel corso della visita in Europa di Xi Jinping solo il presidente Emmanuel Macron ha sollevato la questione dei diritti umani, tema tutt’altro che inopportuno, non solo in considerazione della progressiva riduzione degli spazi di libera espressione e della deriva autoritaria in atto in Cina, ma anche in riferimento al progetto sulla Via della seta. Nella Regione autonoma del Xinjiang, snodo strategico cruciale per il successo della Bri, è stata infatti messa in atto una politica di controllo e repressione delle dissidenze ai danni della popolazione uigura di fede musulmana, in base alla quale si stima che almeno un milione di persone sia attualmente rinchiuso nei cosiddetti “centri di formazione vocazionale”. Forse per recuperare il gap con la Francia, l’Italia ha aderito, e forse era anche tra i promotori dell’iniziativa, al comunicato congiunto rilasciato a margine del Forum sulla Nuova Via della seta di aprile a Pechino, nel quale si è fatta esplicita menzione al rispetto dei diritti civili.

[9] Nel febbraio 2018, ad esempio, tuonava contro chi aveva svenduto ai cinesi “il Made in Italy in tutti i settori, dall’artigianato all’agroalimentare”.

[10] La gravità sul piano istituzionale di quanto accaduto temo sfugga ancor oggi a Di Maio e ai suoi collaboratori, che hanno preparato il testo del discorso, in seguito “postato” sulla pagina Facebook del ministro senza che l’errore venisse corretto. L’inadeguatezza diplomatica dimostrata in quell’occasione da Di Maio non sta tanto nell’aver sbagliato in modo clamoroso il nome del presidente (in genere viene confuso il nome con il cognome, come dire “presidente Zedong” invece di presidente “Mao”, ma mai si era visto pronunciare solo una parte del nome: è come se “presidente Gianmaria Rossi” venisse storpiato in “presidente Maria”), ma sta nell’aver dimostrato la sua profonda ignoranza della realtà cinese e l’assoluta impreparazione con cui il leader italiano si è presentato, in veste istituzionale, in Cina. Questa palese mancanza di rispetto è percepita come grave in Cina (un esempio dell’importanza della terza condizione). È incredibile che il nome di Xi sia stato storpiato persino nel corso del discorso pubblico tenuto da Di Maio di fronte a un’assemblea internazionale affollatissima tenutasi all’Hongqiao International Economic and Trade Forum a cui partecipavano personaggi del calibro di Jack Ma e Bill Gates; se i traduttori simultanei (il discorso era in lingua italiana) hanno facilmente corretto l’errore, il maxischermo alle spalle dell’oratore che riportava il suo discorso in tempo reale non ha perdonato e il testo scritto, prontamente fotografato, è diventato virale. L’aver poi viaggiato in seconda classe con un volo di linea per soddisfare esigenze propagandistiche rivolte al suo elettorato (con tanto di selfie che lo ritraeva con il biglietto ben in vista mentre lanciava generiche minacce del tipo “vi taglieremo tutti i privilegi”, che ha creato malumore tra il suo staff, costretto obtorto collo ad adeguarsi, e imbarazzo tra gli imprenditori al seguito, che non hanno comunque rinunciato a viaggiare in prima classe), come peraltro aveva fatto nella sua prima missione in Cina nel settembre 2018, è un’ulteriore dimostrazione di scarso senso istituzionale. Non comprendere l’importanza del rispetto nella cultura cinese è causa di frequenti incidenti non solo da parte dei politici ma anche di imprenditori con rilevanti interessi in Cina, come l’incresciosa vicenda di Dolce & Gabbana insegna. È curioso e sicuramente irrituale che subito dopo la disastrosa missione di Di Maio a Shanghai, il Mise si sia affrettato a pubblicare sul suo sito un’intervista non firmata all’ambasciatore cinese in Italia, dai toni estremamente elogiativi (“Intervista all’Ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese in Italia S.E. Li Ruiyi”, 8 novembre 2019), quasi a voler rassicurare circa lo scampato incidente diplomatico.

[11] Michele Geraci, “La Cina e il governo del cambiamento”. Un secondo articolo è ancor più interessante per comprendere il pensiero di Geraci: “Il Reddito di Cittadinanza per fronteggiare globalizzazione e avanzare della Cina”, apparso sul Blog di Beppe Grillo il 13 aprile 2018, quando il governo era già insediato e lui era sottosegretario al Mise. Scopo dichiarato era rendere “appetibile anche alla Lega” il reddito di cittadinanza proponendo una tesi a dir poco bizzarra: è inutile competere con i cinesi nei settori tecnologici e scientifici dove saremmo perdenti, meglio evitare che i nostri giovani “vadano a studiare ingegneria e finanza” (peraltro le due materie in cui Geraci è laureato), tanto “non portano alcun vantaggio economico”; meglio puntare sulle “arti liberali, un investimento che lo stato fa per sprigionare quel potenziale innato in ognuno di noi e liberare i giovani dall’assillo dello stipendio”. Eliminato “l’assillo” potrà così emergere quel “talento che è imprigionato nei fannulloni, costretti al bighellonaggio per la mancanza di speranza” e verrà favorito quell’uno su mille che riuscirà a esprimerlo. In quest’ottica “il reddito di cittadinanza va visto come una ricompensa ex-ante per quei 999 che non avranno mai un successo economico ma che il loro input, anche indiretto, servirà a quell’uno su mille che poi ce l’ha fatta” (sic!). Finanziare il reddito di cittadinanza così concepito non è un problema, assicura Geraci in conclusione di articolo, essendo “un debito che lo stato contrae con i propri cittadini, una semplice riallocazione contabile, come il gioco delle tre carte, se servisse del bridge-financing, basterebbero i mini-bot di Borghi”. Se lo dice un professore di finanza…

[12] Scenario diverso rispetto a quello prospettato sul Blog delle Stelle, ad esempio il 26 gennaio 2018 in “Le coperture del programma del Movimento 5 Stelle” in piena campagna elettorale, e ribadito il 26 maggio 2018 in “Il terrorismo sulle coperture economiche” quando ormai il M5S era al governo, che assicuravano l’esistenza di “70 miliardi di coperture annue a regime derivanti da tagli agli sprechi, più una quota di maggiore deficit da decidere (anche in base al ciclo economico). Con l’obiettivo, però, di ridurre del 40% il debito/Pil in 10 anni.”

[13] Si veda, ad esempio, l’articolo di Pietro Saccò “Michele Geraci, un fan di Xi al ministero dello Sviluppo economico” apparso su Avvenire del 22 agosto 2018.

[14] Si veda la lunga intervista rilasciata a Claudio Messora, ex portavoce del M5S, dall’ambizioso titolo “La Cina spiegata bene” (https://www.youtube.com/watch?v=eot8MfzYgso).

[15] “La panacea cinese? Una risposta al Sottosegretario Geraci”, Chinoiresie, 4 luglio 2018, prontamente rilanciato da Inchiesta l’8 luglio 2018 con il titolo “La panacea cinese? Una risposta al Sottosegretario Geraci. Perché è pericoloso prendere la Cina come modello dei flussi migratori”, Inchiesta online, 8 luglio 2019.

[16] È un fenomeno interessante, meritevole di essere approfondito a parte. Nel dicembre 2015 è stata costituita l’Associazione degli Accademici italiani in Cina (AAIIC), che mette insieme docenti che lavorano esclusivamente in atenei cinesi o stranieri con sede distaccata in Cina e docenti che lavorano in Cina ma che hanno una posizione accademica strutturata in atenei italiani.

[17] Per la qualifica di “ambasciatore del governo cinese” si veda Pietro Saccò, cit. Il termine “ossessione” è stato coniato da Giulia Pompili. A Michele Geraci ha dedicato diversi articoli, i più interessanti dei quali sono “Chi Mise la Cina al governo”, Il Foglio, 7 marzo 2019, e “Il sottosegretario italiano che gira l’Europa per promuovere la Cina”, Il Foglio, 11 maggio 2019. A causa dei suoi articoli, evidentemente sgraditi, Giulia Pompili è stata minacciata dal capo dell’ufficio stampa dell’Ambasciata cinese in Italia, Yang Han, in occasione della conferenza stampa tenuta da Xi Jinping al Quirinale il 22 marzo scorso. Un episodio increscioso, riportato in un articolo dal significativo titolo “Non siamo a Pechino” (Il Foglio, 23 marzo 2019), che si conclude con le seguenti parole: “Poiché l’Italia non è la Cina – e il Quirinale non è il palazzo della Città proibita – c’è il pieno diritto di esprimere idee e critiche. Se il portavoce dell’Ambasciata della Repubblica cinese non lo capisce, bisognerà probabilmente farsi qualche domanda ulteriore su questi nostri nuovi amici.” Sulle reazioni del mondo politico e dell’Ordine dei giornalisti si vedano “La solidarietà della politica sulle minacce cinesi al giornalista del Foglio. Il silenzio di Lega e M5s”, Il Foglio, 23 marco 2019, e Claudio Cerasa, “Il governo accetta il bullismo diplomatico dell’ambasciata cinese”, Il Foglio, 26 marzo 2019. Geraci è stato oggetto di critiche anche per aver voluto imporre al Mise come sua assistente personale una giovane cinese priva delle necessarie qualifiche che vive a Shanghai e non parla l’italiano (con un contratto da 36.000 euro annui), Chen Lingjia. Le si voleva affidare una posizione importante visto che la giovane assistente avrebbe avuto accesso all’agenda del sottosegretario; la questione, alquanto delicata, ha preoccupato anche i nostri servizi di intelligence (Emiliano Fittipaldi, “Per Salvini ci sono “prima gli italiani”, ma al ministero assumono cinesi”, espresso.repubblica.it, 4 dicembre 2018). Alla fine è intervenuta la Corte dei Conti che ha bocciato l’assunzione. Geraci ha allora fatto assumere la sua collaboratrice presso gli uffici dell’ICE di Shanghai con la qualifica di stagista a titolo gratuito, e l’ha inserita nella delegazione che ha partecipato ai lavori del Baoao Forum for Asian Annual Conference 2019, la cosiddetta Davos cinese, come membro dell’ufficio stampa del Mise, ruolo che non ha mai ricoperto.

[18] Giulia Pompili, “Chi Mise la Cina al governo”, cit.

[19] Lucio Caracciolo, “L’Italia sul ring tra Usa e Cina”, La Repubblica, 14 marzo 2019, p. 29.

Category: Osservatorio Cina, Osservatorio internazionale, Politica

About Maurizio Scarpari: Maurizio Scarpari, professore ordinario di Lingua e letteratura cinese classica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove ha insegnato dal 1977 al 2011 e ricoperto numerose cariche acca-demiche, tra le quali quelle di Pro-Rettore Vicario e Direttore del Dipartimento di Studi sull’Asia Orientale. Sinologo esperto di lingua cinese classica, storia, archeologia, pensiero filosofico e la sua influenza sul pensiero attuale è autore e curatore di numerosi articoli e volumi, tra cui si se-gnala La Cina, oltre 4000 pagine in quattro volumi (Einaudi 2009-2013), alla cui realizzazione hanno contribuito esperti di 35 istituzioni universitarie e di ricerca tra le più prestigiose al mondo. Per ulteriori informazioni e la bibliografia completa dei suoi scritti si rinvia a www.maurizioscarpari.com.

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