Le ragioni di YES SCOTLAND nel referendum del 18 settembre 2014

| 1 Settembre 2014 | Comments (0)

 

 

Nella rubrica “Osservatorio Europa” ho aderito alla campagna YES SCOTLAND sulla base di ricordi romantici e adolescenziali. Pubblico adesso le ragioni di YES SCOTLAND sulla base di motivazioni più complesse: economiche, politiche e culturali.

 


1.Gordon Macintyre-Kemp: 200 imprenditori scozzesi dichiarano la loro adesione al SI

[www.business fo Scotland.co.uk del 28 agosto 2014]

Si riporta in seguito la lettera aperta firmata da circa duecento imprenditori scozzesi che vedono nell’indipendenza l’opportunità per un futuro migliore. La lettera è in risposta ad un’altra firmata da circa centotrenta imprenditori britannici  per mettere in guardia sui rischi dell’indipendenza dal punto di vista economico.

«Siamo imprenditori scozzesi di differente natura e sparsi in tutto il mondo. Crediamo che l’indipendenza sia nel pieno interesse dell’economia della Scozia e del suo popolo.

Una Scozia indipendente riconoscerebbe le sue imprese, piccole o grandi che siano, come fonte di salute e di lavoro per il futuro economico della nazione. Avvierebbe un processo in cui l’innovazione, la ricerca e l’imprenditorialità sono sempre incoraggiate. L’indipendenza farà passare il potere nelle mani del popolo scozzese, che potrà canalizzare le enormi risorse del paese nell’interesse dei suoi abitanti.

Avremmo il potere di valorizzare i punti di forza della nostra economia e di poter affrontare un mondo sempre più competitivo. Ci saranno sempre più opportunità per i nostri giovani di talento e determinati per restare in Scozia e trovare il meritato successo.

Pensiamo che Westminister non abbia mai prestato sufficiente attenzione agli interessi economici della Scozia. Le incursioni fiscali sull’industria petrolifera e sui fondi pensione da parte sia dei laburisti che dei conservatori sono dei chiari esempi di come la politica britannica si concentri solo sul breve termine senza pensare agli effetti di lungo termine. L’economia scozzese è spesso trattata come una vacca da mungere piuttosto che una parte strategicamente importante di una società più prosperosa e giusta.

La reale minaccia per la Scozia è l’uscita del Regno Unito dal mercato unico europeo. La Scozia ha bisogno di aprirsi al mondo e di cogliere le opportunità che esso offre. Votare Sì rappresenta un’opportunità per chi fa impresa o cerca lavoro per questa generazione e quelle future.»




 

2. Nicola Vallinoto: Se l’indipendenza della Scozia fa bene all’Europa

[Micromega 4 agosto 2014]

 

Il 18 settembre gli scozzesi si recheranno alle urne per decidere in un referendum se il loro paese debba o no rescindere il suo legame con il Regno Unito e diventare indipendente. In Italia, come altrove, non si hanno le idee molto chiare sulle ragioni che motivano le istanze indipendentiste.

Generalmente si pensa a Braveheart e allora ci si prova a spiegarsele con il richiamo romantico a un’era ormai sepolta nel passato, oppure con l’impulso esclusivista a creare una comunità in cui “siamo tutti fra di noi”. Ovvero, la materia di cui sono fatti i “micronazionalismi”. Per questo molti in Europa si dicono preoccupati. Un eventuale successo del referendum scozzese non darà la stura a tutte le rivendicazioni separatiste del continente? Non risveglierà tutti i micronazionalismi solo sopiti e non-morti che balcanizzerebbero l’Europa sconquassando definitivamente le basi, in apparenza alquanto precarie, della sua integrazione? In ogni caso, non rappresentano questi separatismi una regressione rispetto non solo al progetto europeo, ma anche allo stesso stato nazionale moderno? Le élite europee hanno perlopiù teso a scoraggiare tali tendenze, specie nei confronti di scozzesi e catalani, che paiono più in grado a metterle in pratica, senza lasciarsi commuovere dalle professioni di europeismo degli uni e degli altri. Il futuro ex presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso, ad esempio, ha ripetutamente avvertito gli scozzesi che un’eventuale Scozia indipendente si porrebbe automaticamente fuori dalla UE e per ricongiungersi dovrebbe, come un qualsiasi altro stato, attivare la procedura di adesione secondo l’articolo 49 del Trattato sull’Unione Europea, negoziare ex novo le condizioni per la sua accettazione, e sottoporsi al parere favorevole di tutti gli altri 28 stati membri. Un’impresa “difficile, se non impossibile”, che comunque durerebbe anni. Altre personalità europee si sono espresse in simili termini. Non intralciato da remore di natura diplomatica, il giurista Joseph Weiler ha usato a proposito della Catalogna (ma con la Scozia ben presente sullo sfondo) toni ancora più drastici. Le rivendicazioni separatiste rifletterebbero una mentalità da inizio Novecento, quando si riteneva che stato e nazione dovessero coincidere e che a uno stato spettasse a una sola nazione. Proprio tale ethos nazionalista “regressivo e antiquato”, che rifiuta la solidarietà e la coesistenza tra diversi, squalificherebbe di per sé, “moralmente e politicamente”, uno stato separatista dall’appartenenza all’Unione Europea. Se uno stato membro, per ragioni politiche, non avesse il coraggio di fronteggiare la minaccia secessionista al proprio interno, toccherebbe agli altri stati, in primo luogo alla Francia, riaffermare i principi sottostanti al processo di integrazione europea e tenere chiusa ai reprobi la porta della UE. Chi vuole stare solo con i suoi simili, affronti il suo destino da solo con i suoi simili . .È un’opinione abbastanza diffusa e rappresentativa; molti europeisti sottoscriverebbero queste parole. Per questo vi faccio riferimento qui, nonostante non sia stata espressa in tempi recentissimi.

Ho considerato altrove le ragioni specifiche del referendum sull’indipendenza scozzese e spero di aver mostrato che tra di esse non c’è né la nostalgia romantica per un passato soffuso nelle nebbie, né l’esclusivismo che fa rifiutare la diversità, la solidarietà o la collaborazione con gli altri. Anzi, proprio la storia della Scozia, caratterizzata nei secoli per un verso da dolorose fratture e conflitti interni (religiosi, sociali, culturali, regionali, ecc.), e per l’altro, dopo l’Atto di Unione del 1707, dalla partecipazione in prima persona a tutti i momenti dello stato britannico, fa sì che l’“identità” scozzese appaia frammentata e variamente declinata, sostanzialmente inservibile per una mobilitazione o un antagonismo nazionalista di tipo “tradizionale”. Altrettanto inservibile è ogni retorica sulle “memorie condivise”. Se ad esempio in Irlanda le vicende storiche hanno reso possibile una narrazione che contrapponeva (in maniera certamente rozza e semplificatoria, quando non falsa) irlandesi a inglesi o britannici, cattolici a protestanti, la lingua gaelica alla lingua inglese, ecc., ma che tuttavia “aveva senso” da un punto di vista storico e politico, per la Scozia una tale contrapposizione corrisponderebbe ben poco all’esperienza passata e presente. La pluralità delle situazioni è sempre stata troppo vasta per ridursi alle semplificazioni; ogni tragedia storica specificamente scozzese ha visto tra i perpetratori altri scozzesi. Le ragioni dell’indipendenza allora non stanno nel passato bensì nel presente e nel futuro, e riguardano il desiderio di percorrere la via, divergente da quella intrapresa nel resto del Regno Unito, di una democrazia più vicina ai cittadini e di sviluppo dello stato sociale, e la percepita impossibilità strutturale a percorrerla all’interno del Regno Unito. Se sia solo l’indipendenza a poter assicurare il perseguimento di questo progetto, a cui peraltro gli scozzesi hanno già dato chiaramente e ripetutamente il loro consenso, o se per esso valga la pena di fare il salto nel buio dell’indipendenza, sarà appunto il referendum a deciderlo.

In questo articolo intendo invece sostenere che, contrariamente a quanto affermano Weiler o Barroso, l’indipendenza della Scozia non farebbe male al progetto europeo bensì gli gioverebbe, anzi, lo danneggerebbe invece ancora di più l’attività di una santa alleanza degli stati nazionali contro l’attuazione del voto popolare.

Innanzitutto, e questo potrà ben apparire singolare in paesi come l’Italia o la Francia, il referendum del 18 settembre, lungi dall’essere un’iniziativa unilaterale, avviene invece nell’ambito del diritto costituzionale del Regno Unito. Esso è stato infatti concordato tra il governo scozzese e il governo britannico nei termini espressi dall’Accordo di Edimburgo del 2012, che impegna le parti a rispettare il risultato qualunque esso sia. Sarebbe allora quantomeno bizzarro se un intero corpo di cittadini venisse punito con l’espulsione dall’Unione Europea per aver democraticamente esercitato la propria volontà popolare secondo modalità considerate legali e costituzionali dallo stesso stato di appartenenza. Ne uscirebbe a pezzi ogni credibilità da parte della UE per quanto riguarda il rispetto della democrazia e del governo della legge, nonché la sua legittimazione come organizzazione di stati e di popoli.

In che senso “modalità legali e costituzionali”?, potrebbe chiedersi qualcuno. Il governo britannico sarebbe allora uno di quei governi cacasotto al cui soccorso Weiler chiama a raccolta gli altri stati europei? Invero quale stato nazionale concorderebbe una secessione di una parte così rilevante del proprio territorio? Ma il Regno Unito non è uno stato nazionale come altri in Europa, tantomeno è una “repubblica una e indivisibile”. È invece appunto un regno unito, quel che resta di uno stato imperiale in cui le nazioni che lo compongono, come le colonie, hanno sempre intrattenuto con il centro metropolitano rapporti disuguali e disomogenei tra loro. La Scozia con l’Atto di Unione ha mantenuto un distinto sistema giuridico, la sua chiesa di stato (la chiesa presbiteriana, che successivamente ha rescisso i propri legami con il potere politico, pur rimanendo “chiesa nazionale”), il suo sistema di istruzione. Anche le banconote sono differenti. In questo contesto fa parte della storia la presenza costante di rivendicazioni nazionali che ovviamente cambiano con l’evolversi dei tempi, la rinegoziazione dei rapporti con il centro metropolitano, o anche la loro dissoluzione. In passato, come è noto, la ridefinizione degli assetti statuali è stata spesso accompagnata dalla violenza. Tuttavia una volta placatasi quest’ultima, il raggiungimento dell’indipendenza non ha necessariamente cancellato quelle che si possono definire “relazioni speciali”: anche dopo la proclamazione della Repubblica d’Irlanda e la sua uscita dal Commonwealth nel 1949 i cittadini irlandesi non furono mai considerati aliens nel Regno Unito. In Scozia oggi non solo non c’è alcuna violenza, ma non si avverte neppure ciò che “normalmente” farebbe parlare di “conflitto nazionale”. La questione è semplicemente se gioverà a un popolo che ha mantenuto una riconosciuta fisionomia nazionale riprendersi una statualità riconosciuta dal diritto internazionale oppure se continuare a essere nazione in un regno unito. In ogni caso, la prospettiva di una propria statualità indipendente non comporta affatto la fine dei rapporti sociali e civili con il resto del Regno Unito. Sarebbe ancora una volta paradossale che fosse proprio l’Unione Europea a rescindere i rapporti sociali e civili tra la Scozia e gli altri paesi europei espellendo la Scozia dal mercato unico, cancellando il programma Erasmus per gli studenti scozzesi, rendendo “extracomunitari” dall’oggi al domani i cittadini UE residenti in Scozia e i cittadini scozzesi residenti nella UE, e così via, con effetti che colpirebbero negativamente tutti gli europei. Più che da organizzazione nata per abbattere le barriere e unire i popoli, questo sembrerebbe la rappresaglia di un bilioso stato imperiale contro una provincia ribelle, e pazienza se a rimetterci fosse l’intera popolazione. Rappresaglia poi perché?

Come rilevano i sondaggi, la percentuale dei sostenitori dell’indipendenza scozzese cresce notevolmente se si prospetta la fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea. È solo in Scozia, in tutto il Regno Unito, che sussiste una maggioranza più o meno stabile favorevole alla permanenza in un’Europa integrata. “Non vogliamo essere buttati fuori dalla UE contro la nostra volontà” è un argomento forte degli indipendentisti, destinato ad avere tanta più rilevanza in quanto incombe il referendum sull’appartenenza alla UE voluto dal premier David Cameron. Di nuovo in un grottesco paradosso, a dar ragione a certi esponenti delle élite europee la Scozia verrebbe punita per aver voluto pure restare nell’Unione Europea giocando le carte che la storia del suo paese le ha messo in mano, e pazienza se nel contesto del Regno Unito, tendenzialmente euroscettico, correrebbe concretamente il rischio di uscirne fuori. La salvezza dell’Europa dai micronazionalismi e dai secessionismi esige in ogni caso i suoi costi.

Ci sarebbe però da chiedersi se, al di là delle battute, davvero si pensa che la minaccia al progetto europeo venga dalla piccola Scozia che esercita il suo diritto all’autodeterminazione (tra l’altro per “restare in Europa”) e non dal Regno Unito stesso, che agita lo spauracchio del suo distacco dalla UE per bloccare ogni ulteriore passo avanti nell’integrazione del continente, attacca il principio della libera circolazione delle persone e in generale la cittadinanza europea, si oppone alla Carta dei Diritti Fondamentali e ora medita addirittura, tra i Tories, di abbandonare la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, di cui è stato membro fondatore, per trovarsi in splendido isolamento con la Bielorussia di Lukashenko. A proposito del Regno Unito, però, le critiche, se ci sono, si fanno improvvisamente blande, senza allusioni all’“effetto domino” o ai pericoli per l’Unione, e non solo da parte dei dirigenti europei, com’è comprensibile che sia, ma anche da parte di chi non è soggetto a protocolli diplomatici e infatti non ha remore a strillare contro le minacce secessioniste rappresentate pure dalla Scozia. Che cosa determinerà mai questo doppio standard: il fascino discreto e irresistibile della statualità sovrana e indipendente? Questioni di stazza? Oppure un’inveterata antipatia per quelli che pretendono di “autodeterminarsi” e una corrispondente indulgenza invece verso quanto arriva dalle “cancellerie”? Beh sì, almeno in parte. È purtroppo ancora diffusa l’idea, nonostante le vicissitudini degli ultimi tempi ne abbiano provato tutta la fallacia, che il modo più efficace di governare l’“Europa” e perseguire il progetto europeo sia tenere il più possibile a distanza i cittadini, farli pronunciare il meno possibile, e limitare il più possibile il numero dei decisori. Il “buon europeo” è, in tale visione, acquiescente per definizione (“ce lo chiede l’Europa”). Il sospetto nei confronti dell’espressione della volontà popolare traspare anche nell’apprensione, giusta se non fosse così incongruamente esagerata, che se si rispondesse positivamente una volta alle istanze nazionali come in Scozia, ecco che la furia secessionista imperverserebbe dappertutto, in ogni provincia, in ogni contrada, a Canosa di Puglia come a Castelletto sopra Ticino. Se il superamento dei particolarismi è certamente essenziale alla costruzione europea, si direbbe che molti ritengono che particolarismi e ossessione per l’omogeneità etnoculturale (i “micronazionalismi”, appunto) siano lo stato a cui tenderebbero naturalmente i popoli se solo avessero la possibilità. Ma è sempre necessariamente così?

Chi sono gli scozzesi che avranno diritto di autodeterminarsi nel referendum di settembre? Tutti quelli che hanno diritto di votare per il Parlamento scozzese, e in più i sedicenni e i diciassettenni. E chi ha diritto di votare per il Parlamento scozzese? I cittadini britannici, i cittadini dei paesi del Commonwealth con diritto di permanenza nel Regno Unito, i cittadini dell’Unione Europea che sono residenti in Scozia. I cittadini “comunitari” possono cioè votare per il Parlamento scozzese e quindi al referendum sull’indipendenza, e ciò non è un diritto conferito dalla cittadinanza europea, che prevede il voto alle elezioni locali ed europee (gli stranieri “comunitari” in Italia non possono votare alle regionali o alle provinciali, così come in Germania non possono votare per i Länder), ma è una scelta del governo scozzese. L’indipendenza della Scozia avrà cioè luogo se si saprà convincere delle sue ragioni un numero sufficiente di residenti provenienti da altre parti del Regno Unito, cittadini del Commonwealth e cittadini europei. E nascerebbe allora il primo stato europeo determinato dalla volontà dei suoi residenti, a prescindere, almeno in parte, dall’origine “etnica” o nazionale. E questo non farà certo male all’Europa.

L’esclusione della Scozia dall’Unione Europea, che Weiler avrebbe sostenuto da un punto di vista ideologico e politico, è stata motivata da dirigenti europei come Barroso, Van Rompuy e altri, nonché dallo stesso governo britannico, con motivazioni di carattere giuridico che si richiamano al diritto internazionale. Diventando la Scozia uno stato sovrano e indipendente decadrebbero i trattati stipulati a suo tempo dal Regno Unito e con essi la sua appartenenza a una organizzazione internazionale come la UE. Da qui la necessità di un processo di adesione ex novo che comporterebbe, come si è detto, il consenso di tutti gli stati membri, compresi quelli, come la Spagna, ostili per principio agli stati secessionisti. Questa posizione ribadisce una visione della UE in cui gli stati sono “i signori” non solo “dei Trattati”, ma di tutta la costruzione europea, di tutto il processo europeo. Si sta tuttavia facendo avanti anche un’altra posizione, rappresentata ad esempio da giuristi come David Edward, ex giudice britannico alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Almut Peters o Sionaidh Douglas-Scott, docente all’Università di Oxford. In questa prospettiva vengono sottolineate la specificità e la peculiarità del diritto europeo, riconosciute anche da sentenze della Corte di Giustizia Europea, rispetto allo stesso diritto internazionale, proprio per l’attenzione rivolta ai diritti e agli obblighi degli individui, e non solo degli stati. Nel “nuovo ordine giuridico” sviluppatosi nell’ambito della UE, la cittadinanza europea, pur derivata da quella di uno stato membro, è venuta assumendo una sua particolare centralità e rilevanza, specialmente nel godimento per l’individuo dei diritti da essa accordati, tale da non poter più essere considerata un mero epifenomeno di un trattato fra stati. Di conseguenza diventerebbe non solo problematico, ma pure di per sé “antieuropeo” privare gli scozzesi contro la loro volontà di quei diritti di cittadinanza su cui loro possono contare, producendo quelle situazioni invero paradossali che si sono illustrate sopra.

In questa prospettiva, il fatto che l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, che tratta dell’abbandono della UE da parte di uno stato membro, preveda un’uscita negoziata e nessuna espulsione automatica o unilaterale, prospetta scenari del tutto diversi da quelli avanzati da Barroso o da Van Rompuy. L’adesione della Scozia indipendente alla UE avverrebbe dunque non in base all’articolo 49, bensì secondo l’articolo 48 del Trattato sull’Unione Europea, cioè con un emendamento ai Trattati che consentirebbe l’appartenenza ininterrotta alla UE. Certo, anche l’articolo 48 richiede l’unanimità degli stati membri. Ma, sostiene Almut Peters, costatato il soddisfacimento da parte della Scozia dei criteri di Copenaghen, che stabiliscono i requisiti che uno stato deve avere per aderire alla UE, e il procedimento concordato e consensuale del distacco dal Regno Unito (che scongiurerebbe il moltiplicarsi all’infinito delle secessioni), sarebbe un dovere degli stati membri, peraltro previsto dagli stessi Trattati, cooperare perché l’Unione Europea svolga senza intralci o impedimenti le sue funzioni, dal mercato unico ai diritti di cittadinanza, anche a beneficio dei cittadini di una Scozia indipendente che comunque vogliono restare europei. Può ben derivare da quest’altra prospettiva l’atteggiamento più rispettoso della volontà popolare degli scozzesi espresso recentemente dal nuovo Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, o dalla Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea ad opera del sottosegretario Sandro Gozi.

Abbiamo visto come lo schemino secondo cui le “nazioni senza stato” sarebbero di per sé più esclusiviste, scioviniste e antieuropee dello stato nazionale di appartenenza non sia vero per nulla nel caso della Scozia. Ma perché una Scozia indipendente dovrebbe far bene all’Europa, come si sostiene nel titolo? Ecco a mo’ di conclusione alcune risposte che riprendono e sintetizzano quanto detto sopra:

1)Perché sarebbe il primo stato europeo “determinato dalla volontà dei suoi residenti indipendentemente”, almeno in parte, dall’origine “etnica” o nazionale, e privilegiando semmai la comune appartenenza a organizzazioni internazionali “significative”. Gli altri stati europei comincino a seguirne l’esempio e si proceda poi insieme su quella strada.

2)Perché sarebbe uno stato con un ricco e vivace patrimonio culturale nazionale senza che nessuno però possa accampare monopoli o privilegi in termini di “radici”, memorie storiche o di tradizioni linguistiche, religiose, ecc. Proprio come dovrebbe essere in Europa, se si vuole mantenere fede al motto “unità nella diversità”.

3) Perché accordando agli scozzesi, secondo la loro volontà, la permanenza ininterrotta nella UE, si rafforzerebbe quel processo che pone al centro la cittadinanza europea e i suoi diritti così come sono fruiti individualmente dai cittadini europei, e si rafforzerebbe al tempo stesso la legittimità della stessa Unione Europea quale garante di quei diritti. Per converso, si indebolirebbe la visione che vede nella UE un’associazione di stati nazionali gelosi della loro centralità.

4) Perché del pari s’indebolirebbe la visione che vede nell’integrazione europea soprattutto una scuola di acquiescenza (“ce lo chiede l’Europa”).

5) Perché stimolerebbe gli europei ad accostarsi con maggiore interesse, partecipazione e creatività alle questioni riguardanti l’“autodeterminazione dei popoli” (che sono numerose nel mondo e ben più tragiche del processo di indipendenza scozzese) senza confidare nel caso, nei rapporti di forza, nella virtù della propria indifferenza, e nemmeno nel progresso luminoso dell’integrazione europea che con le sue pratiche e i suoi esempi confonderebbe i nazionalisti e scaccerebbe le nubi dei conflitti, senza trincerarsi dietro partiti presi per presunte affinità ideologiche, e neppure evocare lo spettro della secessione di Arquata Scrivia.

6) Perché, direbbe qualcuno, costringerebbe il resto del Regno Unito (sommariamente, l’“Inghilterra”) a prendere atto della sua piccolezza e debolezza e a rivedere il senso del suo rapporto con l’Europa. No. Perché la storia e la cronaca dimostrano ripetutamente che uno stato, una comunità, un popolo che si sentono a ragione o a torto sconfitti e umiliati raramente reagiscono come auspicherebbero gli altri. Quindi no, non auspico che il resto del Regno Unito verrebbe costretto a nulla. Semplicemente, che diventi chiaro a tutti che autodeterminazione e coscienza della propria finitezza sono in fondo due facce della stessa medaglia. A tutti, per tutti.

 

3. Francesca Lacaita: Il referendum sull’indipendenza scozzese e noi europei

[www. l’inkiesta.it del 24/07/2013]

 

Francesca Lacaita é Italian Government Lector alla University of St Andrews.

Il 18 settembre 2014 gli scozzesi andranno a votare sull’indipendenza della Scozia, in un referendum voluto dal first minister Alex Salmond, leader dello Scottish National Party (SNP), a seguito della vittoria alle elezioni del 2011, in cui il suo partito ha conquistato al Parlamento scozzese 69 seggi su 129. La questione ora attraversa il panorama politico nazionale, con la formazione di due coalizioni contrapposte: da una parte Yes Scotland, che comprende oltre all’SNP (ideologicamente paragonabile al PD italiano) i Verdi scozzesi e lo Scottish Socialist Party (sinistra anticapitalista), dall’altra Better Together, con laburisti, liberaldemocratici e conservatori (non mancano però dissidenti, ad esempio nel Partito Laburista, riuniti nel gruppo Labour for Independence, e tra i liberaldemocratici). Vari gruppi della società civile (tra cui donne, imprenditori, artisti e scrittori) si sono pronunciati a favore dell’indipendenza, mentre i sindacati hanno scelto di non prendere posizione.

Ci si sbaglierebbe però a pensare che la questione nazionale sia un tema particolarmente divisivo nella società scozzese. Il fatto che non lo sia dà a tutta la campagna referendaria una valenza nuova, peculiare, si direbbe “postnazionale”. Innanzitutto il voto all’SNP non significa necessariamente volontà di separazione dal resto del Regno Unito. L’SNP ha la maggioranza assoluta al Parlamento scozzese, tuttavia i sondaggi danno all’ipotesi indipendentista mediamente poco più del 30% (ma con un’alta percentuale di incerti, attorno al 20%). Inoltre nel discorso nazionale oggi prevalente l’idea di “indipendenza” rifugge da contrapposizioni antagonistiche, non esclude la permanenza di legami culturali o istituzionali con il Regno Unito, evita la retorica dell’“identità”, accoglie la pluralità culturale e non è ostile all’immigrazione (che infatti è assente come tema dal dibattito sul referendum). Le ragioni indipendentiste si basano invece perlopiù sul rifiuto di continuare a subire decisioni prese da governi eletti “altrove” (attualmente la Scozia manda a Westminster un solo deputato conservatore su 59, anche i liberaldemocratici sono in calo e la competizione principale avviene tra l’SNP e il Partito Laburista, quindi all’interno del centrosinistra) che hanno inciso pesantemente e negativamente sul tessuto sociale scozzese. Nelle parole della Dichiarazione di Yes Scotland, “è fondamentalmente meglio per noi tutti se le decisioni sul futuro della Scozia sono prese da coloro a cui sta più a cuore la Scozia, ossia la gente di Scozia”. Avere a cuore la Scozia significa inoltre in questa prospettiva difendere un’idea di comunità, inclusione ed equità sociale dall’assalto neoliberista che è stato particolarmente devastante in un’area economicamente più fragile rispetto ad altre zone del Regno Unito.

Queste due tematiche – la democrazia e lo stato sociale (a cui possono aggiungersi altre, come l’auspicato sfratto dei missili nucleari Trident in caso della vittoria degli indipendentisti) – danno slancio alla campagna di Yes Scotland ben al di là del consenso effettivo all’indipendenza. Alla fine tuttavia si giungerà molto probabilmente a una rinegoziazione degli assetti esistenti, che sarà tanto più ampia quanto maggiore sarà il successo dei sì. In ogni caso, e su questo concordano anche molti “unionisti”, ci si lascerà indietro l’attuale forma di devolution e si profilerà qualcosa di nuovo.

Naturalmente il problema di avere il governo per cui si è votato, di autodeterminarsi a fronte di processi di svuotamento della democrazia, di ripensare il concetto di comunità riconoscendo da un lato le pluralità interne e resistendo dall’altro alla riduzione dei cittadini in meri soggetti economici, di potenziare un modello sociale improntato a equità e giustizia, di interrogarsi sul senso della difesa militare oggi, nonché eventualmente di rinegoziare gli attuali assetti istituzionali non riguarda solo gli scozzesi. In maggiore o minore misura tocca tutte le società europee, e in particolare costituisce proprio il nodo delle questioni che urge affrontare a livello europeo se si vuole rilanciare l’“Europa” e il progetto eurofederalista su nuove, più solide basi. Sorprende piuttosto la pressoché totale assenza in Scozia di ogni richiamo alle implicazioni della dimensione europea nel dibattito sull’indipendenza, in un senso o nell’altro. Non che l’“Europa” in quanto tale non abbia alcuna rilevanza. Proprio l’euroscetticismo dei conservatori o dell’UKIP, incluso il referendum prospettato dal premier Cameron, diventa un argomento degli indipendentisti che sottolineano la lontananza dall’Europa che subirebbero ad opera del governo britannico o il rischio di trovarsi fuori dalla UE “contro la nostra volontà”. Tuttavia l’indeterminatezza con cui vengono generalmente dibattuti i vari aspetti dell’indipendenza (i negoziati avranno luogo dopo il referendum, ora si sollevano le problematiche e si pongono i desiderata) non può non riflettersi anche sulle questioni europee (mai comunque molto presenti nel discorso pubblico britannico), tanto più che i recenti sviluppi all’interno dell’UE non invitano a una discussione ragionata chi è invece impegnato a rinegoziare e riaffermare la propria sovranità. Ma far finta di niente e rimandare tutto a “dopo” non aiuta in primo luogo la Scozia, che rischia di trovarsi poi in contesti e situazioni a cui la sua opinione pubblica non è affatto preparata. Viceversa, gli scozzesi e gli altri europei non potrebbero che beneficiare da un confronto su questi temi, la sovranità (e i suoi limiti) in un mondo sempre più interdipendente, la democrazia, la comunità, la giustizia e la coesione sociale. Da tali questioni comunque non si scappa – tantomeno per costruire la federazione europea

 


4. Maria Strada: Da Roma a Glasgow in bicicletta 
per il «sì» all’indipendenza scozzese

[www.corriere.it, 6 maggio 2014]

 

Mark Coburn da Roma a Glasgow in bicicletta per spiegare il referendum per l’Indipendenza in Scozia. Oltre 2.280 km in bicicletta per spiegare le ragioni del sì e raccogliere fondi per la campagna elettorale. Perché Edimburgo proverà a dire «goodbye» a Londra il prossimo 18 settembre, dopo l’autorizzazione a tenere il referendum di distacco dalla Gran Bretagna arrivata quasi due anni fa.

«Voto aperto, non razzista, per cambiare la Gran Bretagna»

Mark Coburn, di professione postino, ha preso questa decisione partendo dall’Italia, paese della moglie, e tornando a casa. From Rome to Home in 23 tappe attraverso Italia, Francia e Inghilterra, prima di valicare il muro di Adriano e rientrare in Patria. Da Milano nel suo primo giorno di riposo, racconta: «Questo non è un referendum solo per gli scozzesi, è un referendum che può cambiare anche la struttura della politica di tutta la Gran Bretagna. Ed è un voto che non riguarda solo noi, è aperto. Voteranno anche i residenti registrati: britannici, europei, gente dei paesi del Commonwealth. Ci sono 300.000 inglesi che vivono in Scozia (e uno su quattro sarebbe a favore del distacco, ndr) , non è questione di razzismo. È un contrasto con Westminster».

Gli «Yes»

Se, al momento dell’accordo tra i primi ministri David Cameron ed Alex Salmond, la scelta separatista pareva lontana – i primi sondaggi davano gli “Yes” tra il 30 e il 40% – adesso l’ultimo sondaggio dà il no in forte calo, e il sì ormai vicinissimo: 52% contrari, 48% favorevoli (ma sono ben il 19% gli indecisi). E la campagna elettorale vera e propria non è ancora iniziata. Coburn, che consegnando lettere porta a porta è a contatto quotidiano con la popolazione, precisa: «Nelle zone più povere di Glasgow arriviamo anche al 75% di favorevoli, è la società civile che sta spingendo. È un’opportunità. Per tutti. Apre la porta a tutti».

Non è nostalgia alla Braveheart

Il tema della società civile, o classe lavoratrice come ama definirla Coburn, è fondamentale: anche in Scozia, pardon, nel Regno Unito intero, c’è «una spaccatura tra classe lavoratrice e classe politica», e l’idea è quella, forse un po’ utopica ma non impossibile, di poter «creare il Paese in cui vogliamo vivere», e non quello nostalgico raccontato in film e romanzi alla «Braveheart». «Già nell’accordo del 1707 (l’Act of Union, ndr) è scritto che se il popolo scozzese vuole l’indipendenza, la può ottenere». E quindi, ecco il tentativo di separazione pacifica dopo 307 anni. Anzi, in caso di vittoria la data di nascita del nuovo Stato sarebbe già fissata: 24 marzo 2016, esattamente 309 anni dopo la firma di quel trattato.

La gestione della Cosa Pubblica e i timori di Londra

La Scozia può, economicamente, contare su numerose risorse naturali, in particolare in campo energetico (comprese le fonti rinnovabili), ma non solo. E ha già in gestione, in modo federale, parecchi dei servizi pubblici. Ma, sottolinea Coburn, «li gestisce con solo il 70% delle tasse che versa», e sarebbe quindi in grado – per il fronte del Sì – di provvedere a se stessa autonomamente. Questo andrebbe a contraddire diversi studi del governo britannico che prevedono per una Edimburgo indipendente aumenti sostanziali nei costi di gestione del welfare, della bolletta energetica, e praticamente di ogni altro settore d’amministrazione e finanza. I favorevoli ritengono, invece , che l’operazione distacco non si rivelerà particolarmente complicata. E rispondono con un White Paper dettagliato.

Euro o sterlina, questione “nucleare”

Non dovrebbero, secondo le intenzioni, risultare difficili nemmeno le adesioni a Nato e Unione Europea (anche se il presidente della Commissione europea José Barroso ha recentemente ricordato che «serve l’approvazione di tutti i Paesi membri»), se non addirittura all’Euro. Sul fronte della moneta, infatti, sono aperti diversi fronti. In particolare quello del mantenimento della Sterlina insieme a quel che rimane del Regno Unito, nonostante questo significhi lasciare – ancora per qualche tempo, almeno – la sovranità monetaria alla “nemica” Londra. Sul tappeto in questo caso – ricordava il Guardian – entrerebbe la base navale di Clyde, vicino a Glasgow, che ospita i sottomarini nucleari Trident di Sua Maestà. E che, appunto, interessa naturalmente non poco come risorsa della Marina “d’origine”, ma che è un fattore di cui anche la Nato non può non tenere conto.

 

 

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Category: Osservatorio Europa

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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