I testi del dibattito su gli Istituti Confucio, la Cina e noi

| 22 Dicembre 2019 | Comments (0)

 

 

Prosegue il dibattito su gli Istituti Confucio, la Cina e noi. Il motivo che spinge la redazione di Inchiesta e il suo direttore a pubblicare questo dibattito è che non si tratta di un dibattito “interno” al mondo accademico e in particolare di quella parte di mondo accademico che si occupa di studi sulla Cina. Il dibattito sugli Istititi Confucio in Italia è un dibattito che coinvolge chiunque abbia un ruolo nella ricerca e nella università italiana. Di fronte a una Cina sempre più potente al livello economico e culturale, e al finanziamento che attraverso gli Istituti Confucio arriva alle università italiane, il dibattito ha fatto emergere due posizioni distanti tra di loro: (a) La posizione del Direttivo dell’AISC (Associazione Italiana Studi Cinesi) che afferma: “La nostra scelta: non intervenire in pubblico su temi che toccano la Cina”; (b) La posizione espressa da Attilio Andreini, Maurizio Scarpari, Amina Crisma, Fiorenzo Lafirenza [interventi tutti diffusi su www.inchiestaonline.it] che ritengono sia compito essenziale di ogni struttura universitaria quello di trasmettere “senso critico” su ciò che avviene nel mondo di cui fa parte la Cina. Come scrive Antonio Tripodi nell’Intervento che segue: “Perché questa prudenza, tanto eccessiva da sforare nell’omertà? Colpa degli Istituti Confucio? O responsabilità di un atteggiamento succube del mondo accademico, umiliato da una politica governativa miope che risica i finanziamenti alle università? Cosicché queste vanno a prendersi le risorse dove capitano. Anche nella bocca del lupo”. Maurizio Scarpari conclude “Quanto accaduto a Ca’ Foscari ci induca a passare dalle parole ai fatti: sia Ca’ Foscari la prima università in Italia a far uscire l’Istituto Confucio dal proprio interno! Si faccia promotrice di una politica meno dipendente da influenze esterne.”

 

1. [16 dicembre 2019] Stefania Stafutti: Gli Istituti Confucio negli atenei sono occasioni di crescita e confronto Diffondiamo da www.corriere.it del 16 dicembre 2019 Stefania Stafutti risponde a Maurizio Scarpari: «Sono consapevole che siano centri utili al soft power della Cina nel mondo, ma li considero disseminatori di conoscenza»

Maurizio Scarpari è uno studioso di valore. Giovanissimo, è stato mio docente ed è un caro amico. Rispondo quindi con grande disagio al suo intervento su «la Lettura». Ciò nondimeno, non posso astenermi dall’esprimere la mia posizione su un articolo del quale, soprattutto, non condivido il tono generale. L’intento della mia lettera pubblicata da Corriere.it credo fosse chiaro: intendevo manifestare la mia profonda preoccupazione, come studiosa e come direttrice di parte italiana dell’Istituto Confucio dell’Università di Torino, che a Hong Kong una crisi peraltro non ancora terminata su concludesse in una sciagurata prova di forza. Non doveva servire a comprendere o ad analizzare un fenomeno (non è certamente una lettera di questo tipo, per sua intrinseca natura «retorica» che può servire allo scopo e, sgombrato il campo da questo equivoco, sono in sostanza d’accordo con le riflessioni di Fabio Lanza ospitate da «Sinosfere»).

In sostanza, il mio appello, ai cinesi con i quali, senza affatto essere sempre d’accordo, lavoro insieme da una vita, diceva una cosa molto semplice: proprio perché lavoro con voi, con la correttezza che questo richiede e con la fatica che questo comporta (non dimentichiamolo, da entrambe le parti!), ritengo di avere le carte in regola per chiedere fermamente di essere ascoltata. Non era, evidentemente, una richiesta «personale», in qualche modo voleva dare voce a un’esigenza diffusa, di questo sono certa, tra coloro che lavorano a stretto contatto con la Cina. In poche parole, intendevo dire: lavorare insieme, su basi di reciproco rispetto significa ascoltarsi reciprocamente ed essere in grado di accogliere opinioni dissenzienti. Non mi aspettavo tappeti rossi ed entusiastici abbracci rassicuranti, volevo mettere la questione in agenda. Questo mio sentire intercettava evidentemente sentimento comune: lo dimostra Attilio Andreini (docente a Ca’ Foscari e direttore di parte italiana dell’Istituto Confucio dell’ateneo veneziano, ndr) con la sua presa di posizione pubblica, lo dimostrano — pure se in modo diverso — i colleghi che mi hanno espresso privatamente il loro apprezzamento. Tuttavia, il fatto che si tratti di un’esigenza diffusa non significa che avrebbe dovuto di necessità aprirsi una campagna di «sottoscrizione» al mio messaggio, che non chiedeva affatto questo.

Il fatto di non sottoscriverlo può certamente, come afferma Scarpari, nascondere delle ambiguità nel comportamento dei colleghi, ma qui entriamo in un discorso di natura diversa: chi tace perché suppone, a torto o a ragione, di trarne dei vantaggi, ed è certamente possibile che questo avvenga, opera tuttavia a fianco di chi tace perché ritiene che non sia quella «pubblica» la modalità più efficace di operare. Evidentemente, io penso che si possa/debba parlare, ma questo non mi porta a dire che tutti i colleghi che non si espongono pubblicamente siano servi supini ai voleri e agli umori della Cina. È ingiusto ed eccessivo. E persino se fosse vero, di una tale mancanza di «spina dorsale» dovremmo, come dicono i cinesi, guai ziji, «prendercela con noi stessi» e non con la «Cina onnipotente».

Confermo quanto viene da più parti detto e scritto: gli istituti Confucio sono finanziati affinché svolgano attività culturali e di insegnamento linguistico. Non sono enti di beneficienza e non sono gestiti dalle Dame di San Vincenzo. È evidente che hanno degli obiettivi. Tuttavia, nella mia quasi decennale esperienza di Direttore, in periodi diversi della mia vita professionale e in fasiato — esercizio utile anche per me/per noi, peraltro — e ho svolto attività che senza quei quattrini non avrei potuto fare, salvaguardando la qualità dell’offerta e la pluralità delle idee nel dibattito accademico e culturale. Nessuno può dire che avvia agito come lunga manus del Dipartimento di Stampa e Propaganda del Partito comunista cinese, dal quale peraltro gli Istituti Confucio non dipendono. Essi sono a capo del ministero per l’Istruzione, anche se certamente svolgono un ruolo importante nella strategia di soft power della Cina (del Paese Cina, intendo, comunque non del tutto coincidente con il Pcc).

Credo che le dinamiche che si sviluppano all’interno stesso degli Istituti possano essere a volte problematiche, e ne abbiamo degli esempi, ma possano anche essere occasioni di crescita. La nostra modalità di interagire col territorio, con le istituzioni, con i luoghi «del potere», per esempio, espone anche i co-direttori cinesi a una visione diversa e a una interazione diversa con le istituzioni e col potere. Migliore? Peggiore? Non è questo, qui, il punto: diversa. Credo che molte, graduali trasformazioni bottom up, tutt’altro che irrilevanti, coinvolgeranno nel tempo i giovani volontari, i docenti di entrambe le parti. E questo non mi fa paura, ho una fiducia sufficiente nella forza del modello democratico per non sottrarmi a questo confronto e per considerarlo, anzi, proficuo. Potranno prodursi trasformazioni «minime» e lente, lo so bene, ridicole di fronte al peso delle grandi questioni politiche che Maurizio Scarpari pone. Ma io faccio il professore, non il politico, e lavoro con gli strumenti che mi sono congeniali e che so utilizzare, senza che questo significhi abbassare la guardia di fronte al complesso di valori che considero irrinunciabili come intellettuale, come cittadina e dl mio Paese e come individuo di una società che vorrei più giusta e civile.

È possibile che ciò mi porti, un giorno a posizioni di aperto dissenso con la Cina? Impossibile escluderlo. Ma non credo che mi porterà facilmente a stilare un catalogo di «buoni» e di «cattivi» da additare al pubblico ludibrio, perché è un esercizio spesso penoso nel quale non credo. Maurizio Scarpari individua una certa propensione — più o meno consapevole — all’autocensura da parte di colleghi cresciuti in un ambiente accademico «programmaticamente» favorevole alla Cina. È possibile, ma non sarebbe certo un fenomeno nuovo, avrebbe solo matrice diversa: io ho studiato cinese quando si faticava — anche in certi ambienti dell’accademia — ad ammettere che la Rivoluzione Culturale (1966-1976, ndr) non fosse stata un fulgido esempio di società egualitaria. Le cose sarebbero cambiate ma la coscienza critica l’ho sviluppata grazie allo studio e alla caparbia volontà di comprendere i fenomeni — al netto, ovviamente, dei sempre possibili errori di valutazione.

I sinologi debbono fornire competenze, debbono — come avviene in questi giorni — darsi e dare occasioni di confronto su temi importanti. Credo debbano avere un ruolo attivo nel migliorare la conoscenza della Cina, perché chi opera le scelte politiche le faccia su basi di più fondata conoscenza, di meno pericolosi stereotipi, di meno fruste parole d’ordine ideologiche o anche di meno fulminei e pericolosi «innamoramenti». Credo che possano e debbano avere un più attivo ruolo di orientamento, ma non credo che debbano sostituirsi ai politici o dettare loro l’agenda.

Per quanto mi riguarda, l’Istituto Confucio opera come disseminatore di conoscenza. Uno dei tanti, non il solo, non privo di criticità, come spesso peraltro accade, quando si maneggiano gli strumento della conoscenza. Si potrebbe obiettare che mi presto all’antiestetico e patetico ruolo dell’«utile idiota», inconsapevole strumento in mano a menti assai più scaltre e avvedute. Non è impossibile, ma pretendo che mi venga dimostrato. Altrimenti, mi mettono sinceramente a disagio alcune delle immagini fosche evocate da Scarpari; non posso accettare che si ipotizzi un convitato di pietra presente accanto ai commissari delle abilitazioni universitarie che ne avrebbe condizionato, o avrebbe potuto condizionarne l’azione, o quantomeno avrebbe con la sua presenza indotto i candidati a un prudente silenzio. Ho anche io le mie riserve rispetto all’accademia, ma non amo che si stendano ombre di sospetto, senza addurre a fatti concreti, col rischio di colpire indirettamente tanto i colleghi che hanno condotto e soprattutto quelli che hanno legittimamente superato quelle procedure di abilitazione. Ancorché piuttosto difficile da realizzare sul piano giuridico, debbo dire che mi lascia molto perplessa anche la proposta di rendere incompatibile la professione del professore universitario col ruolo (non retribuito) di Direttore dell’Istituto Confucio. Perché mai? Per non esporre i professori al rischio di «colonizzazione culturale»?

L’accademia rispecchia la società e come quest’ultima può essere ammaccata, ospitare anime fragili, ma, complessivamente, credo sia migliore di quanto Maurizio Scarpari la dipinge. E, nel caso mi sbagliassi, preferisco che questo mi risulti evidente dalla dialettica della realtà, piuttosto che il trauma mi venga risparmiato attraverso l’esercizio autoritario del divieto. Le competenze sono vitali, all’interno degli Istituti Confucio – che peraltro vedono due Atene, anche uno cinese, lavorare assieme: se si rinuncia alle competenze, allora essi potrebbero davvero rischiare de diventare ciò che Scarpari paventa e che io certo non voglio.

L’autrice. Stefania Stafutti è professore ordinario di Lingua e Letteratura cinese all’Università di Torino e direttore di parte italiana dell’Istituto Confucio di quell’ateneo. Traduttrice di testi letterari, è stata anche direttrice dell’Istituto italiano di Cultura di Pechino.

 

2. [16 dicembre 2019] Il Direttivo dell’AISC (Associazione Italiana Studi Cinesi). La nostra scelta: non intervenire in pubblico su temi che toccano la Cina

«Nessuna organizzazione accademica europea lo fa. Dialogare con le istituzioni di Pechino non significa però non avere senso critico» Diffondiamo da www.corriere.it il testo dell’intervento del Direttivo dell’AISC (Associazione Italiana Studi Cinesi (aisc-org.it)

Chiunque studi la Cina sa che il tempo dell’isolamento delle proprie ricerche dal contatto e dal rapporto con la realtà cinese che esisteva nel periodo della Guerra Fredda è finito, nonostante l’immaginario e la retorica di quell’epoca sembrino di nuovo aleggiare nel clima internazionale rispetto alle relazioni con la Repubblica popolare cinese. Infatti, da un paio di decenni l’ambito delle relazioni fra le Università italiane e le istituzioni educative nella Repubblica popolare , in termini di collaborazione nella ricerca e circolazione di studenti e docenti, è divenuto sempre più ampio e articolato. La comunità accademica dei «sinologi» opera ormai, quotidianamente o quasi, in un quadro complesso di rapporti e relazioni con istituzioni cinesi di vario livello e tipologia, confrontandosi con le opportunità e sfide poste da questo contatto, tanto negli Istituti Confucio (la cui missione è diversa da quella degli Atenei che li ospitano) quanto nei programmi di studio e ricerca congiunti con le Università cinesi.

I sinologi, denominazione che raccoglie in realtà esperti dal profilo scientifico e disciplinare differente, trovano a livello nazionale uno spazio di raccordo attraverso l’Associazione italiana di Studi cinesi (Aisc), citata da Maurizio Scarpari nel suo articolo, ma la cui natura e funzioni sono probabilmente poco conosciuti al di fuori del contesto accademico. Fondata nel 1979, l’Aisc è una società scientifica senza fini di lucro che per statuto ha l’obiettivo di promuovere gli studi sulla Cina in Italia. La quasi maggioranza degli associati lavora o ha lavorato nell’ambito della sinologia all’interno delle Università. Di fatto, come altre società scientifiche, l’Aisc ha una funzione di servizio, soprattutto per far circolare informazioni relative ad attività o opportunità di ricerca, e per promuovere il dibattito scientifico, in buona parte attraverso i propri convegni e seminari e le proprie pubblicazioni. Tutte attività finanziate — ed è bene, evidentemente, dirlo — con le quote associative, dato che mai sono stati accettati finanziamenti esterni.

Come associazione scientifica e accademica l’Aisc, con la sua anima variegata, include sensibilità e opinioni diverse, e per sua natura evita di porsi, nel suo insieme, come voce «politica» e istituzionale di un’intera comunità di studiosi, intervenendo collettivamente nella sfera pubblica su questioni che riguardano direttamente gli eventi in cui è coinvolta la Cina, nonostante la Repubblica popolare cinese abbia offerto e continui a offrire numerose occasioni che potrebbero, agli occhi di molti, richiedere esplicite prese di posizioni, a partire dal rifiuto di permettere la presenza del premio Nobel per la pace Liu Xiaobo a Stoccolma nel 2010, alla detenzione di dissidenti e alle campagne repressive nelle regioni di confine come il Tibet e il Xinjiang e nei confronti di organizzazioni religiose o di altro tipo.

Non è una scelta peregrina, visto che di fatto nessun’altra associazione accademica in Europa è mai intervenuta con iniziative simili nei confronti del governo cinese (neppure su un piano meramente retorico), mentre ci sono state prese di posizione pubbliche delle stesse in occasione di casi di interferenza delle istituzioni cinesi nelle attività scientifiche e culturali di queste associazioni. L’Aisc, su richiesta di alcuni associati, aveva attivato un forum online sul tema specifico degli Istituti Confucio alcuni anni fa, forum poi chiuso perché non si era dimostrato, di fatto, la modalità più adatta per ragionare, in modo informato e basato anche sull’esperienza effettiva, sul rapporto con le istituzioni educative e culturali cinesi — tema che non può essere astratto da una più ampia riflessione sulle relazioni con la Cina di oggi e che, nondimeno, non è stato finora assente dai media italiani, anche con il contributo di diversi sinologi.

D’altronde, le attività accademiche nell’ambito degli studi sulla Cina richiedono la buona volontà di costruire e mantenere dialogo e confronto con le istituzioni cinesi, e forme di collaborazione spesso faticose e complesse, ma inevitabili. Ma lo sforzo compiuto in questo ambito dai sinologi non implica la loro rinuncia a svolgere il proprio

dovere di riflessione e analisi critica della realtà — anche politica — cinese, che ne differenzia il ruolo di studiosi orientati a comprendere da quello degli apologeti da un lato e dei detrattori dall’altro che sembrano purtroppo ancora essere presenti nel discorso sulla Cina in Italia. Esso, però, si basa sulla convinzione che non sia possibile produrre conoscenza e alimentare un discorso pubblico sulla Cina — sia negli ambienti accademici sia al di fuori — senza coinvolgere le istituzioni del sapere e gli intellettuali cinesi. Qualcosa che richiede, a sua volta, una buona dose di consapevolezza della complessità culturale, ma anche delle modalità di interazione specifiche al quadro politico e istituzionale della Repubblica popolare. Va, inoltre, tenuto in mente che gli studiosi italiani, come comunità accademica, svolgono il proprio compito principalmente nelle aule con l’insegnamento e con le proprie scelte di ricerca. Attività che possono rispecchiare anche interessi specifici e convinzioni personali, ma che rispondono in primo luogo alla volontà di produrre conoscenza, sempre imperfetta e sempre migliorabile — come chiunque abbia fatto della ricerca la propria professione sa.

Interesse degli esperti accademici è, infatti, quello di produrre un sapere critico, riflessivo e anche autoriflessivo, che aiuti anche a comprendere la complessità — con tutte le sue specificità e le sue contraddizioni — della tradizione culturale cinese nel suo evolversi nel tempo e della realtà politica, sociale e culturale cinese contemporanea nel suo rapporto con il mondo in modo più articolato di una stereotipata contrapposizione fra Occidente e Cina e fra due sistemi chiusi di valori. Come Associazione, vogliamo sottolineare, però, che il problema di cui soffrono lo studio e la ricerca sulla Cina in Italia sia in primo luogo la loro marginalizzazione nella politica accademica e universitaria italiana — a prescindere dall’enorme crescita degli studenti di lingua e cultura cinese e dal moltiplicarsi dei corsi di studio negli Atenei italiani. A tutto ciò si aggiunge la cronica e, anzi, sempre più accentuata carenza di finanziamenti che riguarda il sistema del sapere nel suo insieme, ma i cui effetti diventano più acuti per ambiti di studio ritenuti — decisamente a torto — non fondamentali. Una maggiore attenzione in questo senso, al di là del beneficio che può dare al sostegno della proiezione economica e commerciale italiana nella Repubblica Popolare Cinese, è necessaria alla luce della funzione strategica che, con il contributo di discipline umanistiche e sociali e della ricerca di base, la conoscenza e la riflessione informata sulla Cina rivestano e rivestiranno per il nostro Paese.

3. [19 dicembre 2019]  Antonio Tripodi: L’influenza degli Istituti Confucio è (anche) colpa di università succubi Diffondiamo da www.corriere.it del 19 dicembre

Antonio Tripodi, del Senato accademico di Ca’ Foscari: «A Venezia da anni non viene organizzato un convegno su Taiwan, Tienanmen o Tibet. Prendiamocela con noi stessi”

Nelle università italiane si prova a far credere che gli Istituti Confucio siano delle innocue istituzioni culturali, tanto generose da finanziare con centinaia di migliaia di euro gli atenei, e si nasconde che sono organi del Partito comunista cinese, entrati nelle università con la forza del denaro cinese. Gli Istituti Confucio hanno il compito di edulcorare la politica cinese e, anche avvalendosi di quei meccanismi di autocensura descritti da Maurizio Scarpari nel pezzo citato, mitigano la visione di un Paese che viceversa, alla prova dei fatti, è guidato da un partito politico di vocazione totalitaria che si muove secondo obiettivi politici (conquista di egemonia in alcune aree, diplomazia economica, difesa del principio di «non interferenza», ecc.) che dovrebbero essere, viceversa, costantemente censurati da istituzioni che si riferiscono a ideali di pace e di democrazia.

Ma dunque il problema sono gli Istituti Confucio? Sarebbe sufficiente liberarsi da questo corpo estraneo al nostro mondo accademico per riacquistare una visione libera da condizionamenti più o meno subliminali? Stefania Stafutti, cui va riconosciuto il merito di aver aperto su queste pagine il dibattito, partendo dai fatti di Hong Kong, sulla Cina e sugli Istituti Confucio, rispondendo a Maurizio Scarpari, accenna al fatto che se veramente gli Istituti Confucio avessero una tale influenza sulle università italiane non dovremmo che prendercela con noi stessi. Infatti è proprio così. Gli Istituti Confucio proliferano perfettamente nel brodo di coltura del mondo accademico italiano quali saprofiti che traggono nutrimento dal provincialismo e dalla povertà endemica degli atenei italiani.

Innanzitutto sfatiamo ogni dubbio che gli Istituti Confucio non influenzino la politica culturale delle Università. Io posso dire che nella mia Università, a Ca’ Foscari, ove un «generoso» Istituto Confucio «dona» all’incirca 120 mila euro l’anno, da molteplici lustri non è organizzato un convegno che affronti le tre «T» tanto invise al potente alleato: Taiwan, Tienanmen, Tibet. A me stesso che ho tanto insistito (riuscendoci anche) per organizzare una innocua mostra fotografica su Tulku, le incarnazione mistiche del Tibet mi è stata consigliata tanta prudenza e cautela (non esporre bandiere del Tibet, non parlare di politica, accennare il meno possibile al Dalai Lama). Per quello che riguarda la questione di Hong Kong, con tanta fatica, uno sparuto numero di senatori riesce a fare approvare al Senato Accademico di Ca’ Foscari una mozione di richiamo ai principi di pacifica convivenza. Questo fatto, che parrebbe doveroso, è unico in Italia. Eppure, subito dopo sembra che ci si vergogni del proprio coraggio. Non viene emesso alcun comunicato stampa con l’evidente scusa che la questione Hong Kong era oramai off time. Ma la notizia in qualche modo trapela e viene pubblicata su un quotidiano locale a provare che l’interesse per Hong Kong è ancora vivo e forte nell’opinione pubblica.

Ma perché questa prudenza, tanto eccessiva da sforare nell’omertà? Colpa degli Istituti Confucio? O responsabilità di un atteggiamento succube del mondo accademico, umiliato da una politica governativa miope che risica i finanziamenti alle università? Cosicché queste vanno a prendersi le risorse dove capitano. Anche nella bocca del lupo. Provincialismo e acquiescenza al potente di turno per ottenere denari o riconoscimenti viaggiano di pari passo.

È lungo l’elenco delle università che, negli anni, hanno deciso di conferire importanti riconoscimenti a personaggi molto controversi su scala internazionale. In alcuni casi si è distinta la mia università. Ad esempio, come nel caso del ministro della Cultura della Federazione russa Vladimir Medinskiy, dichiaratamente omofobo, nazionalista e guerrafondaio, che nel maggio del 2014, riceveva il conferimento della «Ca’ Foscari Honorary Fellowship”, sullo sfondo della guerra in Crimea. Oppure gli onori (marzo 2015) del Rettore dell’Università Ca’ Foscari conferiti a «Sua Eccellenza» Andrian Yelemessov, «ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Repubblica del Kazakhstan» in Italia, personaggio indagato dalla Procura di Roma per sequestro di persona, in relazione al caso Shalabayeva.

E allora (mi permetto di citare ancora da Stefania Stafutti): «Come dicono i cinesi: guai ziji, dovremmo prendercela con noi stessi e non con la “Cina onnipotente”». In termini buddhisti la presenza degli Istituti Confucio nelle università italiane non è una disgrazia di cui potersene liberare, è frutto del proprio karma, forse maturato per azioni commesse in vite precedenti, ma più propriamente nelle ultime vite delle università italiane.

Antonio Tripodi è componente del Senato Accademico dell’Università Ca’ Foscari, Venezia

 

 

4. [19 dicembre 2019] Maurizio Scarpari: Ca’ Foscari dia l’esempio: sia il primo ateneo a far uscire l’Istituto Confucio Diffondiamo da www.corriere.it del 19 dicembre

«L’università di Venezia si faccia promotrice di una politica meno dipendente da influenze esterne, come gli atenei che operano con le istituzioni straniere, Cina inclusa»

Il 4 dicembre il Senato accademico di Ca’ Foscari, su richiesta di un paio di senatori non sinologi, ha deliberato una mozione che invita le autorità cinesi al dialogo sulla questione di Hong Kong. Queste prese di posizione sono efficaci se rese pubbliche in tempi rapidi e nei modi appropriati. La delibera senatoriale è stata invece bloccata da chi, all’interno dell’ateneo, temeva che la sua pubblicazione avrebbe irritato le autorità cinesi, in particolare i responsabili dello Hanban, da cui dipendono gli Istituti Confucio (Ic) e con cui Ca’ Foscari aveva proprio in quei giorni rinnovato la convenzione. Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi: una «manina» si è messa all’opera, ed ecco che la mozione viene pubblicata su «La Nuova Venezia» del 14 dicembre, introdotta dalle seguenti parole: «Ca’ Foscari prende posizione nella recente crisi che ha sconvolto Hong Kong, con la repressione violenta delle autorità nei confronti delle manifestazioni studentesche a favore della democrazia».Non è certo lo stile misurato e asciutto che contraddistingue i comunicati stampa dell’ufficio comunicazione dell’università, soprattutto in riferimento alla Cina. A questo punto uno dei promotori dell’iniziativa interviene nel nostro dibattito.

Quest’episodio, apparentemente marginale, va al cuore della questione che stiamo dibattendo ed è la prova di quanto vado sostenendo da tempo: la presenza degli Istituti Confucio nelle università e nei centri di ricerca è così ingombrante da condizionarne le attività, al punto da arrivare a ostacolare la divulgazione di una delibera senatoriale (senza i suoi membri ne siano consapevoli) «quasi che ci si vergogni del proprio coraggio» (Antonio Tripodi, quarta replica). Gli Istituti Confucio, che Stefania Stafutti definisce (nella prima replica) «disseminatori di conoscenza», diffondono in realtà del mondo cinese un’immagine acritica, parziale ed edulcorata che non prepara adeguatamente le persone a «reggere e assorbire l’urto con una civiltà e una cultura che preme per diventare egemone» (Fiorenzo Lafirenza, seconda replica). Non a caso nei convegni internazionali le università cinesi di prestigio evitano di coinvolgerli, ritenendoli dequalificanti.

L’attuale Direttivo dell’Associazione italiana di Studi cinesi ritiene doveroso limitare la propria attività a una mera «funzione di servizio», evitando di intervenire «nella sfera pubblica su questioni che riguardano direttamente gli eventi in cui è coinvolta la Cina», sostenendo al tempo stesso che «il problema di cui soffrono lo studio e la ricerca sulla Cina in Italia sia in primo luogo la loro marginalizzazione nella politica accademica e universitaria italiana … e la carenza di finanziamenti» (terza replica). Una posizione assurda per un’associazione culturale e contraddittoria: ci si chiude al mondo evitando di esporsi pubblicamente, ma si pretende di vedersi riconosciuti ruoli di primo piano e assegnati finanziamenti adeguati.

Liberarsi dai vincoli derivanti dal controllo, dalla censura e dall’autocensura che condizionano gran parte dei sinologi (per fortuna non tutti) fin da studenti, come Fiorenzo Lafirenza ci fa notare, è un passo essenziale perché il nostro Paese non si trasformi, senza una reale consapevolezza, in «una provincia cinese», per usare l’immagine, forse eccessiva, evocata per l’Italia da Joshua Wong, leader della rivoluzione degli ombrelli di Hong Kong.

Quanto accaduto a Ca’ Foscari ci induca a passare dalle parole ai fatti: sia Ca’ Foscari la prima università in Italia a far uscire l’Istituto Confucio dal proprio interno! Si faccia promotrice di una politica meno dipendente da influenze esterne, seguendo l’esempio di quegli atenei che operano con le istituzioni straniere, Cina inclusa, senza assoggettarsi alle loro volontà e diventi a sua volta un modello da seguire, non solo in l’Italia. Ne guadagnerebbero tutti e si eviterebbe di dover chiudere in futuro qualche Istituto Confucio per causa di forza maggiore, come ha dovuto fare di recente la prestigiosa Vrije Universiteit di Bruxelles in seguito all’arresto per spionaggio del direttore cinese del suo Istituto Confucio, Song Xinning, ex direttore del Centro per gli studi europei dell’Università Renmin di Pechino.

Category: Osservatorio Cina, Osservatorio internazionale, Scuola e Università

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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