Enrico Pugliese: La nuova emigrazione italiana: caratteristiche, portata, esagerazioni

| 17 Settembre 2015 | Comments (0)

 

 

 

1. Premessa

Da un po’ di tempo si parla della ripresa della emigrazione dall’Italia. Qualche dato comincia a documentare questa novità ma ancora si sa poco dell’entità e delle caratteristiche del fenomeno. Poco sappiamo ancora di chi parte e da dove, delle destinazioni principali e della composizione sociale (di classe si sarebbe detto una volta) del nuovo flusso. E poco sappiamo del modello migratorio prevalente e in particolare della tendenza alla stabilizzazione o meno di questa ripresa.

Eppure è chiaro ed evidente che la ripresa c’è. A occhio e croce – e sulla base di qualche dato – si può dire che si tratta di un fenomeno di portata  inferiore a quella solitamente attribuitagli, ma anche di in fenomeno di portata superiore a quella registrata dai dati statistici nazionali. Questa ripresa può far pensare  a un nuovo ciclo nelle migrazioni riguardanti l’Italia del dopoguerra, dopo la grande esperienza delle migrazioni intra-europee tra la fine degli anni quaranta e la metà degli anni settanta e il successivo declino della emigrazione in concomitanza dell’affermarsi del fenomeno della immigrazione straniera. E’ difficile dire se si tratta di un fenomeno, almeno in prospettiva,  di massa  – il che  giustificherebbe la tesi di un nuovo ciclo –  o se, pur trattandosi effettivamente di un fenomeno  nuovo magari  destinato anche  a durare,    esso non ha, e probabilmente non avrà, né la portata né l’impatto per i paesi di provenienza pari a quello della esperienza precedente.  Troppo esili sono ancora gli indicatori perché si possa avere un quadro attendibile sia sul piano dell’entità che sul piano della qualità del fenomeno.

Detto questo – anticipando qualche considerazione e qualche dato che illustreremo più in avanti – è possibile evidenziare per grandi linee alcune caratteristiche di questa nuova emigrazione e qualche novità di rilievo. La prima riguarda la composizione del flusso.  Essa è molto articolata e riflette tendenze e processi nuovi collegati alla crisi e alla recessione ma anche aspetti che sono andati consolidandosi negli ultimi decenni (non solo negli ultimi anni).

Prendiamo il caso della componente altamente scolarizzata di questa emigrazione: tema sul quale si è molto appuntato il dibattito. I livelli di istruzione dei protagonisti sono da tempo molto più alti che in passato ma  questo è innanzitutto il riflesso del fatto che il livello di istruzione in Italia si è innalzato significativamente negli ultimi cinquant’anni. Tra gli emigranti, in larga parte giovani, ci sono sia quelli forniti di diploma e di laurea sia quelli che non hanno neanche terminato la scuola dell’obbligo o che ne hanno appena conseguito il diploma. Quest’ultimo dato implica – è questa è la  novità – che c’è per la prima volta una ripresa del tipo di  emigrazione che una volta avremmo definito proletaria. Il tema rilevante dunque  ora non è la ‘fuga dei cervelli’(concetto, come vedremo,  altamente equivoco e male utilizzato). E la componente principale non è neppure costituita da persone a elevato livello di qualificazione. Non si tratta cioè prevalentemente di quelle che vengono definite  skilled migration. Si tratta invece   di un insieme di soggetti nuovo e complesso con una connotazione unificante rappresentata dalla condizione di precarietà: il che rappresenta  certamente un altro dato nuovo.

L’altra grande novità è che si emigra soprattutto dalle regioni del Nord. Già da tempo – cioè da prima della crisi e della recessione  – la Lombardia è la regione che contribuisce maggiormente al flusso migratorio. Ciò può essere interpretato in vari modi a partire dalla maggiore vicinanza geografica e dalla ormai consolidata frequenza di  scambi tra questa regione sviluppata d’Italia e le altre regioni sviluppate d’Europa. Ma di certo – come mostra qualche indagine empirica sul tema –  l’accelerata dell’estensione del flusso migratorio da regioni industriali del Nord (quale appunto la Lombardia) vanno collegate anche alla crisi e ai suoi effetti sul tessuto produttivo del Nord,  compreso quello dei cosiddetti  “distretti industriali” dove anche persone dotate di elevata qualificazione professionale per lavori tecnici di fabbrica hanno perduto il lavoro. C’è dunque un nuovo “effetto spinta” che peraltro trova in posti come la Germania uno specifico canale di attrazione.

Queste novità nell’emigrazione sono il risultato di cambiamenti nell’economia e nel mercato del lavoro che non possono non avere un riflesso anche in un altro campo: quello dell’immigrazione italiana. Si tratta non solo di un parziale e poco ben documentabile rallentamento dei flussi di ingresso ma anche di qualche cambiamento qualitativo riguardante la composizione dell’immigrazione. Stando ai dati  c’è un incremento del numero ufficiale dei cittadini stranieri residenti in Italia che passano dall’anno di inizio della crisi a oggi  da 3 milioni e mezzo  a oltre  6  milioni: un aumento la cui portata contrasta con quanto solitamente si ritiene ed effettivamente si osserva.

Ma anche questo si spiega. Così come vedremo a proposito  dell’emigrazione, anche in questo caso ci troviamo di fronte all’effetto combinato di aggiustamenti statistici e di fenomeni reali. L’aumento del numero degli immigrati nel corso degli anni della recessione è in rapporto anche agli effetti tardivi dei processi di  regolarizzazione di persone giù presenti sul territorio nazionale oltre che  ai ricongiungimenti familiari le cui pratiche sono in corso da tempo. Ciò senza considerare i nuovi nati con cittadinanza straniera. Come argomenterò più in avanti, non si può dire ancora che ci sia una fuga dall’Italia degli immigrati anche se sicuramente ci sono dei rientri in patria di alcuni di loro. Per ora l’aspetto più importante è quello riguardante i cambiamenti nella situazione occupazionale e nelle prospettive degli immigrati. Ma di questo non ci occuperemo in dettaglio in questa nota dedicata all’emigrazione.

 

2. La ripresa dell’emigrazione nel contesto della crisi.

Per anni abbiamo sentito dire che l’Italia da paese di emigrazione era diventato paese di immigrazione. Per anni è stato necessario correggere questa affermazione sottolineando che l’Italia, pur continuando a essere paese di emigrazione, era diventato anche e soprattutto paese di immigrazione.

In ogni caso nessuno si aspettava una ripresa della emigrazione italiana verso le sue destinazioni tradizionali o, meglio, verso  le destinazioni che erano state prevalenti durante il secondo grande ciclo migratorio italiano: quello del dopoguerra (Bonifazzi 2014). In effetti solo con la crisi del 2007-2008 qualche cosa comincia a cambiare in Europa da questo punto di vista.  E  non è l’Italia a rappresentare il luogo dove la svolta, cioè la ripresa della emigrazione e la contestuale ripartenza di lavoratori immigrati, si registra per prima e con una portata significativa.

È più che altro tra l’America Latina è la penisola iberica, e più specificamente tra la Spagna e l’Argentina, che si comincia ad avvertire una inversione di tendenza: non solo emigrati argentini tornavano dalla Spagna ma anche diversi spagnoli cominciavano  a emigrare in Argentina. [1] In Italia il fenomeno è più tardivo e si comincia a registrare ancora più tardivamente ma con un immediata tendenza alla esagerazione dovuta all’ancora non sufficiente attendibilità dei dati dell’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero).

Se si osservano senza le dovute cautele i dati e non si confrontano fra di loro le fonti si può avere l’impressione di una netta inversione di tendenza per cui l’Italia perderebbe  per emigrazione all’estero cittadini a livello di massa. C’è dunque il  duplice problema di valutare da un lato l’entità del fenomeno e dall’altro di definire quanto in esso ci sia di natura congiunturale, destinato a non assumere dimensioni molto più alte di quella attuale, e quanto invece si tratti di un problema divenuto ormai strutturale.

Nel corso degli anni della crisi le partenze dell’Italia hanno cominciato dopo molti anni a risultare inferiori agli ingressi  sia per quel che riguarda i cittadini italiani sia per quel che riguarda la popolazione complessiva interessata dal flusso, in altri termini compresi gli stranieri. Si tratta per quel che riguarda i cittadini italiani di dati modesti, dell’ordine di poche decine di migliaia – come vedremo. E, se pure volessimo riferirci ai dati tedeschi sulla immigrazione dall’Italia, avremmo valori superiori ma comunque dello stesso ordine di grandezza: insomma l’Italia non  sta per ora attraversando una sua nuova fase migratoria, un nuovo ciclo. Tuttavia, sia per consolidarsi di tendenze già evidenti da molti anni sia per la ripresa dell’emigrazione con le caratteristiche nuove, il quadro della realtà migratoria italiana è decisamente mutato E i cambiamenti riguardano  i movimenti migratori ma anche le collettività di italiani all’estero. Di questo ci occuperemo nel paragrafo che segue

La crisi – si sa – ha colpito diversamente i diversi paesi europei e  gli effetti sono stati diversi soprattutto negli ultimi anni con l’aggravarsi del dualismo tra i paesi  mediterranei e le economie europee più solide, soprattutto a partire dall’inizio di questo decennio quando la ripresa ha riguardato esclusivamente queste ultime mentre i primi hanno vissuto un periodo di recessione economica,  che è tutt’ora in corso. E l’Italia, a partire dal Mezzogiorno, rappresenta un caso emblematico da questo punto di vista.

Da queste regioni la ripresa dell’emigrazione all’interno e all’estero dura ormai da oltre quindici anni. Ma la crisi e soprattutto  la recessione hanno  potenziato l’effetto di spinta in atto da tempo. Inoltre  nel Mezzogiorno ai problemi indotti dalla crisi si sommano quelli ‘storici’ espressi da una grave situazione del mercato del lavoro con tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, impressionanti e comunque mai raggiunti negli ultimi quarant’anni. Pur in una situazione di complessiva difficoltà delle strutture produttive del paese nel suo complesso, e con la crisi che ha colpito anche ricche aree industriali, il dualismo nel paese è andato aumentando. Non deve stupire che il fatto che le regioni meridionali abbiano un incidenza inferiore a quella della Lombardia rispetto all’emigrazione all’estero. Va tenuto presente che dal Sud si emigra verso l’estero e verso le regioni del Nord. Da queste in sostanza si parte solo per l’estero.

La ripresa delle partenze dal Sud è ormai un fenomeno abbastanza consolidato, che ha avuto inizio ancor prima dell’inizio della crisi. E non si può dire – anche sulla base dei dati ufficiali – che esso risulti particolarmente accelerato in questi ultimi anni. Ciò può ben comprendersi considerando che allo stesso modo che si è contratta la domanda di lavoro nel Mezzogiorno essa si è contratta nelle regioni del Nord. Ma l’effetto spinta sicuramente è aumentato nel Mezzogiorno sia per la riduzione   delle possibilità di occupazione – con il calo della domanda, già povera in passato, nel settore industriale e una generale stagnazione dell’economia –sia anche per i tagli alla spesa sociale che hanno avuto il duplice effetto di impoverire le famiglie –  imponendo ai giovani l’esigenza di cercare qualche opportunità fuori nonostante le maggiori difficoltà – e di ridurre per alcuni le possibilità di impiego nell’area dei servizi sociali. C’è ancora da ribadire la rilevanza delle nuove forme di pendolarismo a lunga distanza, quotidiano o settimanale, e delle migrazione temporanee che hanno rappresentato nell’ultimo decennio la cifra caratterizzante di questo movimento migratorio (Bubbico, Morlicchio e Rebeggiani 2013). Insomma, per quel che riguarda le migrazioni interne aventi come protagonisti gli italiani non risultano grandi novità rispetto al periodo pre-crisi, tranne probabilmente una riduzione dell’effetto richiamo da parte delle regioni del nord.

 

3. Il crocevia migratorio italiano e la portata dei nuovi movimenti.

In uno scritto recente avevo messo in evidenza come l’Italia- grande crocevia migratorio- nel 2013 registrava un numero di cittadini residenti all’estero pari al numero di cittadini stranieri residenti nel paese. Questo dato  grosso modo esprimeva la effettiva situazione italiana ma la estrema prossimità delle cifre era frutto soprattutto del caso.

In effetti il dato sugli stranieri residenti in Italia fornito dall’Istat può ritenersi grosso modo attendibile – ancorché non  al livello delle decine di migliaia – perché frutto di un lavoro di gestione efficace dei dati e soprattutto ormai basato su di un sistema veloce di trasmissione delle informazioni, ovviamente una volta che le persone hanno deciso di (o potuto)  comunicare i loro cambiamenti di residenza. Per quel che riguarda gli immigrati  l’attendibilità ormai da anni è dovuta, a una sorta di “impegno degli interessati”, per l’estremo interesse che essi hanno a procedere al più presto alla iscrizione presso l’anagrafe comunale, giacché la residenza è necessaria per qualunque necessità della vita quotidiana[2]. Un volta il permesso di soggiorno rappresentava la forma necessaria e sufficiente per la condizione di regolarità, ora il permesso di soggiorno in Italia nella maggior parte dei casi è semplicemente propedeutico all’ottenimento della residenza, per qualunque minima esigenza. Il dato relativo ai residenti, fatta salva la minoranza degli irregolari, ormai definisce con accuratezza il numero degli stranieri residenti in Italia.

Non così per gli italiani residenti all’estero:  i notevoli cambiamenti relativi al loro numero sulla base delle registrazioni  presso le anagrafe Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) sono dovuti soprattutto a motivi amministrativi e a revisioni che avevano fatto registrare un balzo di quasi un milione di persone nel corso degli anni della crisi: un dato altamente improbabile, assolutamente non veritiero. Insomma non è sui registri Aire che si può fare affidamento per la valutazione dell’entità della presenza degli italiani all’estero almeno per ora.[3] E tuttavia anche sulla base  di altre fonti che godono di una maggiore attendibilità il cambiamento e la ripresa delle migrazioni risultano evidenti. La fonte più attendibile riguarda le anagrafi comunali in Italia e i dati più significativi sono quelli della cancellazione e delle iscrizioni con indicazione anche del luogo di trasferimento o di provenienza. Essa non ci può fornire alcuna informazione significativa riguardante  il numero complessivo degli emigrati, cioè dei cittadini italiani all’estero (perché si tratta ovviamente di dati di flusso) e inoltre sottostima notevolmente il fenomeno come risulta anche dal confronto tra la documentazione italiana quale paese di provenienza e quella di un paese di arrivo quale può essere ad esempio la Germania. E tuttavia essa è capace di mettere in evidenza le tendenze. Perché appunto di questo si tratta.

Con tutti i limiti della documentazione statistica italiana in materia ci viene in aiuto una preziosa pubblicazione dell’Istat dello scorso anno (Istat 2014) che fornisce informazioni sui  principali aspetti dei flussi migratori da e per l’Italia relativamente al 2013 (anno pieno della recessione) e all’evoluzione dei principali indicatori a  partire dal 2007 anno in cui si cominciano a registrare i primi segni della crisi sul mercato del lavoro. La maggior parte delle informazioni vengono fornite tenendo distinti i dati relativi ai cittadini italiani da quelli riguardanti i cittadini stranieri, vale a dire tenendo distinti gli immigrati che entrano (e escono)  dall’Italia dagli emigranti (o emigrati di ritorno) italiani.

Se ci riferiamo  all’insieme dei protagonisti di questa scena  migratoria che è andata delineandosi negli ultimi sei o sette anni i dati mostrano una forte riduzione  di    coloro che entrano  come immigrati stranieri o come italiani emigrati di ritorno. Si parte così da oltre mezzo milione di nuovi scritti nelle anagrafi dei comuni italiani nel 2007 a poco più di 300 mila, secondo un trend discendente piuttosto regolare. Al contrario, quelli che lasciano l’Italia aumentano sistematicamente e in maniera regolare fino a raddoppiare alla fine del periodo.

In questo quadro di mobilità ridotta l’altro elemento di novità è rappresentato proprio dalla nuova emigrazione degli italiani verso l’estero in corrispondenza della riduzione degli ingressi di stranieri. Se si prende in considerazione l’ultimo anno  si nota che il calo delle iscrizioni dall’estero è dovuto pressoché esclusivamente ai cittadini stranieri che, così come negli anni recedenti, si riducono e passano tra il 2012 e il 2013 da 321 mila a 279 mila. Anche le iscrizioni di cittadini italiani provenienti dall’estero si riducono ma passano solo da 29 mila a 28 mila (per capirci: pochi ormai ne tornavano anche prima della crisi e  pochi ne tornano ora). Questo vuol dire che tuttora la dinamica che attraversa il crocevia italiano riguarda soprattutto gli stranieri, anche se come afferma l’Istat “l’Italia attrae meno cittadini stranieri dall’estero”. Si noti che l’espressione “cittadini stranieri dall’estero” non è affatto tautologica: dall’estero possono provenire sia cittadini stranieri che cittadini italiani.

Non deve poi stupire che quando si parla dei cittadini italiani (in entrata o in uscita) le cifre siano dell’ordine di migliaia o decine di migliaia e quando si parla di stranieri ci si  muova su cifre dell’ordine di centinaia di migliaia.

Per quanto riguarda i primi, ciù che risulta evidente a colpo d’occhio dalla figura  n.1  ripreso dalla nota dell’Istat (e riguardante i soli cittadini italiani)  è il rilevante aumento dei saldi e l’esplosione delle cancellazione negli ultimissimi anni. Aumentano in effetti in misura sempre più  significativa  coloro che lasciano il paese e diminuiscono ancorché in maniera modesta gli italiani che rientrano[4]

Il titoletto di un paragrafo del documento dell’Istat sintetizza i termini della questione “Mai così  alto negli ultimi dieci anni il numero di emigranti italiani”. Il numero totale degli emigranti italiani nel 2013 è di 82 mila unità con un incremento del venti per cento rispetto all’anno precedente: il che è davvero molto significativo. E incrementi di tale portata si sono avuti nel corso di tutto il periodo della recessione a partire dal 2011. Il riflesso in termini di saldo migratorio è  notevole: a partire dal 2007 c’è un suo aumento sistematico  che trova la sua massima espressione nell’ultimo anno di riferimento – il 20013 – proprio come nel caso delle partenze. Si tratta di 54 mila unità  contro i 38 mila del 2012.

Se si ha  mente la portata dei movimenti di cinquant’anni addietro si può dire di trovarsi difronte a un fenomeno ancora di proporzioni modeste. Si tratta di un fenomeno incipiente la cui portata  mostra nel corso degli anni della recessione una accelerazione significativa. Quindi vale ancora la pena ribadire che la novità sta innanzitutto nella inversione di tendenza ( e sua stabilizzazione)  e di sottolineare ancora una volta che i dati Italiani relativi a iscrizioni e cancellazioni sottostimano tradizionalmente la portata della emigrazione rispetto a quelli forniti da altri  paesi di immigrazione dall’Italia come ad esempio la Germania.

Quelli usati dalla nota dell’Istat sono ovviamente di dati di flusso che non ci permettono di conoscere l’estensione della presenza di cittadini italiani all’estero rispetto alla quale la iscrizione presso i registri Aire in corrispondenza di una cancellazione dai registri comunali è solo una componente. Infatti il notevole aumento registrato dall’Aire nel decennio scorso è dovuto, oltre che alle revisioni cui abbiamo accennato, anche al fatto che i nuovi iscritti possono essere persone già residenti all’estero oltre che nuovi nati. Per converso risulta invece che una parte significativa di nuovi emigrati, specie delle fasce più alte, ma non solo, tende a non registrarsi se all’estero per periodi brevi. Un motivo pratico e concreto alla base delle mancate iscrizioni è rappresentato dl fatto che la cancellazione dall’anagrafe del comune di residenza per una destinazione straniera comporta la perdita del diritto all’assistenza sanitaria. Ma non si tratta solo di quello. C’è da notare che all’usuale resistenza degli immigrati al cambio di residenza (se non nei casi in cui è davvero indispensabile) almeno fino a una decisione di trasferimento definitivo si sommano motivi riguardanti il mercato del lavoro a livello internazionale di oggi con  la aumentata precarietà che rende più difficili le prospettive e conseguentemente le decisioni di trasferimento definitivo.


4. I protagonisti delle nuove migrazioni

I protagonisti di questa nuova esperienza migratoria modificano il quadro della presenza italiana all’estero. Essi presentano differenze significative con  quelli delle precedenti ondate di emigrazione e si inseriscono in un contesto della emigrazione italiana all’estero già  molto diversificata. Questa è infatti oggetto del sedimentarsi  di esperienze migratorie molteplici per le condizioni e le epoche di partenza ma anche per la situazione sociale dei paesi di arrivo.

Secondo quanto emerge dai registri Aire i paesi stranieri con la maggiore presenza di  cittadini italiani sono tutti europei con l’eccezione dell’Argentina che, per altro,  risulta essere il paese con la collettività italiana più numerosa. Nonostante le continue revisioni dei dati riguardanti questo paese, che hanno comunque portato a un ridimensionamento rispetto a qualche decennio addietro, la collettività italiana risulta ancora molto numerosa e ha ripreso quota rispetto alla Germania, ora seconda nazione per dimensione della  presenza  di cittadini  italiani all’estero.

Gli altri paesi con significativa presenza di italiani secondo questa fonte sono la Svizzera con 547 mila italiani, la Francia con 366 mila, il Belgio con 252 mila e il Regno Unito con soli 200 mila. Naturalmente questi dati non riflettono le più recenti tendenze. Si pensi ad esempio alla Spagna che è diventata un’area di attrazione per italiani, soprattutto giovani, ma che non è certo tra i paesi in testa alla classifica dei paesi col maggior numero di italiani.

E’ interessante notare anche che le aree di massima concentrazione di cittadini italiani non sono necessariamente quelle di più intensa attrazione del flusso attuale, quello documentato dai dati delle iscrizioni e delle cancellazioni. E’ questo è abbastanza ovvio se si considera che le logiche che stimolano le nuove partenze raramente  sono influenzate dalla presenza di collettività numerose o da una sorta di riattivazione della catena migratoria: i giovani che partono ora sono troppo diversi per condizione sociale e caratteristiche culturali  dai loro compaesani e parenti partiti mezzo secolo addietro.

Abbiamo accennato alla complessità della  composizione della realtà dell’emigrazione italiana   e al  come diversi fra di loro siano i gruppi che la compongono e le problematiche alla base dell’effetto spinta per ciascuno di essi. Anche i paesi di destinazione sono diversi – per quel che si può capire. in base al tipo di emigrazione e alle logiche dell’effetto spinta. Passiamo ora con l’aiuto dei dati forniti dal rapporto dell’ Istat  del 2014 a vedere quali sono le principali destinazioni dei nuovi emigranti italiani. Il principale paese di immigrazione allo stato attuale risulta essere l’Inghilterra con un saldo di quasi undicimila  unità  dovuto a 12.962 emigrati a fronte  di 2.152 iscritti. Seguono la Germania e la Svizzera con  saldi superiori alle 7 mila unità  e la Francia con un saldo superiore ai 6 mila. Il primo paese non Europeo meta rilevante di emigrati italiani sono gli Stati Uniti con un saldo di 2.700 unità seguito dal Brasile e dall’Argentina –  quest’ultima  con un saldo  inferiore alle mille unità.

L’Inghilterra oltre a essere il paese con più immigrati è anche quello con la maggiore  incidenza di laureati. Ma da ciò non si può trarre alcuna indicazione rispetto al carattere della nuova emigrazione perché il secondo paese è rappresentato dalla Germania che invece ha una componente di laureati piuttosto bassa rispetto alla media. Questo mostra come logiche diverse guidano le diverse componenti.

I livelli di scolarizzazione mediamente  elevati dei nuovi emigrati non implicano necessariamente che si tratti di una emigrazione  legata a occupazioni intellettuali (figura n.2). Esiste al suo interno una componente intellettuale in senso stretto, costituita da ricercatori e, generalmente giovani, accademici che rientrano in quel fenomeno che va sotto il nome di “fuga dei cervelli” del quale tanto si è parlato negli anni scorsi, esagerando la portata del fenomeno. Ciò non solo per la significativa incidenza dei poco scolarizzati – a livello complessivo  tra i nuovi emigranti il loro numero (5.612) supera quello dei laureati (5.446) –  ma per un motivo ben più significativo: il fatto cioè che in Italia a un fenomeno di ‘brain-drain’ (ciò di perdita di forze di lavoro a elevato livello di qualificazione) corrisponde, stando ai dati, una forma di ‘brain gain’ un arricchimento del paese di questo tipo di forza lavoro. Infatti   l’incidenza dei laureati tra i nuovi iscritti alle anagrafi italiane è significativamente più alta che tra i cancellati. Insomma si ha più l’impressione di un fenomeno di circolazione internazionale di elites culturali. O, forse, il termine è troppo forte ed  meglio parlare di giovani con elevato grado di istruzione-.  Inoltre c’è sicuramente da essere d’accordo con lo scetticismo di Massimo Livi Bacci, che in un recente articolo su Neo-demos (2014)  ha sostenuto che se la fuga di cervelli c’è, i dati certamente non lo dimostrano a sufficienza. Tuttavia sembra piuttosto riduttivo l’indicatore che egli sceglie  a dimostrazione della poca rilevanza del fenomeno, vale a dire il modesto numero di dottori di ricerca che lavorano all’estero dopo il primo anno. Bisognerebbe sapere quanti italiani residenti all’estero con dottorato o semplicemente con laurea italiana sono riusciti a trovare una occupazione nelle università o nei centri di ricerca negli ultimi anni a livello stabile o precario. Ed è molto probabile che il loro numero sia aumentato, ma siamo fermi al livello delle impressioni e delle informazioni non sistematiche. Si hanno sempre più frequentemente notizie di giovani che non sono riusciti  a trovare una collocazione in strutture di ricerca italiani e l’hanno trovato all’estero.

Comunque l’espressione ‘ fuga di cervelli’ è certamente riduttiva rispetto alla complessità dei nuovi flussi di personale italiano altamente scolarizzato che lavora all’estero: funzionari di imprese italiane, straniere o multinazionali nell’ambito della industria e soprattutto della finanza ma anche personale a livello medio alto, che rientra nella categoria oggetto di grande attenzione in questo periodo che è quella delle ‘skilled migration’, ossia delle migrazioni di persone a elevato livello di qualificazione. E qui il termine “qualificato” e quello di “ skilled migration” in uso nella letteratura internazionale, rendono piuttosto bene perché non si tratta solo di titoli e credenziali usati solitamente come indicatori di capitale umano ma di effettiva qualificazione professionale. Questo personale qualificato non si sposta più tanto a seguito di imprese italiane, come avveniva negli anni settanta o ottanta, o nelle ditte impegnate in lavori connessi alla cooperazione internazionale, ma si sposta a livello individuale anche in aree geografiche molto distanti. Ciò senza dimenticare il fatto che alla partenza di laureati e dottori di ricerca dall’Italia corrisponde anche un loro arrivo dall’estero.

Esiste poi  una componente di diplomati e anche di laureati che si muovono alla ricerca di un lavoro qualunque, non necessariamente corrispondente  al loro titolo di studio. A questo riguardo va citata per inciso una tesi a carattere  reazionario che è quella del welfare shopping secondo la quale i giovani emigranti si sposterebbero in base alla possibilità di sfruttare il sistema di welfare dei paesi dove riesce più facile piazzarsi magari senza lavorare. Applicata – come speso si fa – agli immigrati provenienti dal Sud del Mondo essa  è pura espressione di cattiveria se non razzismo  considerando le condizioni nelle quali questa migrazione ha luogo. Ma anche per i giovani italiani che vanno in Germania o in Svizzera o nella stessa Inghilterra essa è assolutamente fuori luogo. Ci saranno pure giovani che approfittano delle possibilità  offerte dal sistema di protezione dei disoccupati, ma per la maggior parte degli immigrati nei paesi europei più sviluppati, soprattutto per quelli appartenenti alle fasce più svantaggiate, il problema non è l’approfittare di un sussidio, divenuto per altro sempre più improbabile, ma la condizione di precarietà lavorativa che impone il ricorso al sussidio.

Rispetto alla questione della nuova emigrazione e dell’inizio, o meno, di un nuovo ciclo va sottolineato che i nuovi protagonisti dell’emigrazione da diversi  punti di vista non sono molto diversi dai giovani che negli ultimissimi decenni si sono indirizzati verso i paesi europei: i giovani scolarizzati dei quali abbiamo appena parlato collocati diversamente nel mercato del lavoro a diverso grado di qualificazione, di opportunità e di aspettative. C’era, e c’è, tra loro chi emigrava, ed emigra, per necessità e in condizioni dure  e c’è chi parte  per scelta nel quadro della circolazione internazionale delle elités  culturali. Si ha però l’impressione che la prima componente  stia diventando ora sempre più significativa. In questo senso la ripresa della emigrazione è frutto della crisi.  Essa inoltre non  è tanto espressione di una progressiva integrazione europea quanto delle differenze economiche e sociali che nella crisi si aggravano anche all’interno dell’Europa.

A completare il quadro della emigrazione italiana all’estero va notato un fenomeno che sta interessando ora l’Italia  ma che è significativo in altri paesi già da tempo che è quello delle sun  migration (delle migrazioni verso i paesi del Sud, in particolare del Mediterraneo) che da molti anni è stato oggetto di interesse di studiosi dei movimenti migratori. Paradigmatico di questo fenomeno è stato in passato il caso del trasferimento di anziani cittadini tedeschi, in generale pensionati, verso la Spagna. E l’Italia ha svolto il ruolo di area di destinazione per  questo tipo di trasferimenti. L’aspetto interessante è che ora l’Italia da paese di destinazione delle sun  migration sta diventando paese di provenienza, con il trasferimento e acquisto di case di pensionati italiani in paesi del sud del mondo dal Maghreb alle Isole Canarie. Si tratta di un fenomeno che di recente ha attratto anche l’attenzione della stampa ma che ha ancora un rilevanza numerica piuttosto irrisoria. D’altronde le logiche che attivano questo specifico movimento sono ben altre rispetto a quelle dominano la ripresa della emigrazione giovanile, intellettuale e non, della quale ci siamo occupati.

 

5. Conclusioni

Per concludere si può dire che le novità di questo nuovo flusso migratorio non sono così radicali come si potrebbe supporre. C’è sicuramente per diversi aspetti una inversione di tendenza ma non c’è una svolta di fase, una nuova caratterizzazione del ruolo del paese nel quadro dei movimenti migratori internazionali: l’Italia continua a essere un crocevia migratorio anche se i protagonisti dei movimenti che lo interessano non sono sempre gli stessi. Rispetto alla composizione sociale di questi ultimi da una parte  si sono consolidate alcune tendenze già presenti negli ultimi decenni, dall’altra sono effettivamente emerse  – sotto la spinta  della crisi – tendenze nuove destinate a consolidarsi. Tra le prime per esempio va ricordato l’allargamento delle destinazioni degli italiani. Si tratta di un fenomeno che, con alti e bassi, va ormai avanti da quasi mezzo secolo interessando all’inizio soprattutto personale qualificato a seguito di imprese italiane. Si tratta di diplomati e di laureati con competenze varie ma anche di studenti universitari giovanissimi che emigrano all’estero anche per fare esperienze oltre che per procurarsi un reddito che nella situazione di crisi difficilmente potrebbero ottenere in Italia. E questa componente è quella più direttamente espressione dell’effetto di spinta determinato dalla crisi.

Questo ci riporta alla novità – ormai non  proprio  recente – della crescente incidenza della componente  ‘borghese’ nella emigrazione come mostra l’emigrazione dei laureati (compresa una quoto di dottori di ricerca). Da almeno quindici anni si parla di ‘fuga dei cervelli’ riferendosi a questa componente. Ma di recente la mitizzazione del fenomeno sta tramontando proprio mentre aumenta  la sua portata. Nella letteratura internazionale quando si parla di emigrazione di persone con elevato titolo di studio ora si fa – correttamente – sempre più riferimento alla questione dell’ over education (che è un modo diverso di definire il sotto-impiego delle persone a elevato livello di scolarizzazione) per quella componente che non si colloca in occupazioni richiedenti il titolo di studio posseduto: un ennesimo caso di spreco di risorse.

Per molti laureati e anche dottori di ricerca che si muovono a livello internazionale il problema non è quello di un lavoro da scienziato, come vuole la retorica dei “cervelli in fuga”, semmai è quello di un lavoro corrispondente  – o comunque non troppo lontano – dal livello di formazione ricevuta.

La riduzione delle prospettive occupazionali soprattutto per quel che riguarda la qualità del lavoro riguarda tutti. Gli anni della crisi hanno fatto tramontare anche una immagine e una realtà, che è quella della ‘generazione Erasmus’, dei giovani universitari o laureati ai quali il processo di integrazione europea e gli accordi interuniversitari davano la possibilità di spostarsi e affacciarsi non solo in altri contesti sociali ma anche in altri contesti del mercato del lavoro con un crescente orientamento cosmopolita.  Le loro esperienze lavorative anche temporanee e di livello non sempre alto erano parte di una esperienza formativa giovanile e destinate  a essere superate.

Ma ora c’è un significativo elemento di novità che riguarda proprio  alcuni aspetti di fondo della  situazione dei protagonisti e soprattutto  le loro  prospettive: la grande maggioranza di loro riescono raramente a trovare occupazioni fuori dall’area del precariato. Sia che si tratti di lavoro di bassa qualità che di lavori qualificati, la condizione di precarietà e di sottoccupazione è ormai la norma. E in generale  si tratta di una situazione destinata a perdurare: una situazione che raramente vede, come in passato,  il suo sbocco in un miglioramento e in una stabilizzazione. Così come in Italia, il dualismo nel mercato del lavoro è aumentato anche nei paesi di arrivo degli emigranti italiani. E nel mercato del lavoro di questi paesi si è estesa la fascia secondaria: ad esempio in Germania quella dei mini jobs.

In questo senso dal punto di vista della condizione lavorativa la nuova emigrazione si svolge in condizioni più difficili che in passato, negli anni delle grandi migrazioni fordiste intraeurope. All’epoca i  paesi di immigrazione dall’Italia avevano prodotto politiche migratorie diverse con esiti di modelli migratori diversi, ma in tutti i casi la collocazione lavorativa finale era tendenzialmente stabile e in generale in aree protette sindacalmente. Ora alla forza lavoro immigrata, scolarizzata e non, destinata a occupazioni intellettuali o manuali, proletaria o no, si richiede un livello di flessibilità su tutti i piani – dalla durata del contratto, alle condizioni di lavoro. al salario – ben più alta che allora.

Per quel che riguarda gli eventi più recenti non siamo entrati in una nuova fase ma le cose sono cambiate rispetto all’epoca precedente alla crisi. Una rinnovata spinta all’emigrazione si registra per effetto nuove difficoltà delle regioni del Nord e per persistente situazione di carenze strutturali nel Mezzogiorno. E per quanto riguarda i protagonisti la  componente principale  appare come un vasto precariato ormai multinazionale, per il quale sono ridotte certezze e  prospettive

 

Riferimenti

Enrico Pugliese e.pugliese@irpps.cnr.it enrico.pugliese@uniroma1.it

 

Bibliografia essenziale

A.Bernadotti, “Direzione America del Sud” in Gjergji 2014

C. Bonifazi,  L’Italia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2013.

D. Bubbico,  E. Morlicchio, E. Rebeggiani , Su e giù per l’Italia, Numero speciale “Sociologia del lavoro” (121), Milano, Franco Angeli, 2011.

Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo, Todi, Editrice Tau, “013

I.Gjergji  La nuova emigrazione italiana, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari 2014

Istat Migrazioni internazionali ed interne della popolazione residente, Report 9-12-2014

M. Livi Bacci  “ Fuga dei cervelli o non c’è o non si vede”, Neodemos.it

Svimez Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino, 2008,    Svimez Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino 2012

 

 

FIGURA 1 – L’EMIGRAZIONE ITALIANA NELL’ULTIMO DECENNIO

 

 

 

 

FIGURA 2 – CITTADINI ITALIANI ISCRITTI E CANCELLATI DA E PER L’ESTERO DI 25 ANNI E PIÙ, PER STATO ESTERO DI PROVENIENZA/DESTINAZIONE E TITOLO DI STUDIO. Anno 2013,


[1]Anche in quel caso si esagerò con riferimento alla portata della inversione di tendenza.  È tutt’ora difficile dire quanti siano i nuovi immigrati provenienti alla Spagna e diretti in America Latina . Un immediato indicatore  di questa inversione è stato il ribaltamento ironico di un insulto razzista. Per dileggiare gli immigrati provenienti dall’America latina in Spagna si usava  il termine ‘sudaca’. Con una certa soddisfazione qualcuno in Argentina – negli anni in cui il paese si risollevava dalla crisi e dal fallimento – si cominciò a usare il  termine ‘nordaca’ per riferirsi ai nuovi emigranti spagnoli spinti dalla crisi e della recessione nei paesi dell’Europa mediterranea. Certo è però che in Spagna – come in Italia – di lavoro se ne trova sempre meno e che gli immigrati latinoamericani se ne tornano soprattutto nei paesi dove la situazione è andata, almeno finora, migliorando. Tra l’altro anche  a questo proposito bisogna  tenere conto di una qualche complicazione sul piano statistico. Infatti nel flusso verso l’Argentina ci sono sia nuovi  emigranti spagnoli sia argentini che se ne tornano dopo un’esperienza negativa in Spagna.

[2] A questo “impegno dell’interessati” di rendere i dati statistici più vicini alla realtà si oppone una certa resistenza istituzionale che rende difficile la certificazione della propria residenza aggravata di recente dal cosi detto “decreto lupi” sul piano casa.

3 Si è registrato nel decennio scorso un forte aumento del numero di cittadini italiani iscritti all’Aire come residenti all’estero. Questo dato, unito a impressioni e valutazioni giornalistiche e di altri osservatori,  ha fatto parlare di una esplosione della emigrazione. Si parla di decine e decine di miglia di italiani partiti per questa o quella destinazione europea avendo come fonte di riferimento i dati dell’Aire relativi agli incrementi del numero degli iscritti (se non il “sentito dire”). Ma questo incremento, che è in effetti elevatissimo, va spiegato più che altro con i nuovi accessi alla cittadinanza italiana e alla registrazione dei cittadini italiani già residenti all’estero, cioè non con le cancellazioni anagrafiche dall’Italia, che risultano molto più modeste. Nel caso dell’Aire le iscrizioni e le cancellazioni obbediscono a logiche che non sono quelle delle partenze  dall’Italia o dei rientri in patria. Insomma c’è una decisa sopravvalutazione degli incrementi dello scorso decennio

Per converso se prendiamo in considerazione le iscrizioni e le cancellazioni anagrafiche da e per l’estero notiamo che il saldo complessivo (iscritti meno cancellati)è molto più modesto. Ad esempio quello riguardante l’insieme dei paesi europei è di poche decine di migliaia di unità. Eppure non è inusuale apprendere da un qualche servizio televisivo che in Inghilterra ci sono centomila nuovi immigrati italiani

In linea di principio si potrebbe pensare che il saldo migratorio annuale dell’Italia dovrebbe corrispondere grosso all’incremento degli iscritti all’Aire.  Ed è questo che genera confusione perché non si tiene conto delle altre componenti dell’universo degli iscritti. Al contrario se un difetto hanno i dati relativi ai saldi migratori  calcolati in base alle cancellazioni e iscrizioni anagrafica presso e dai comuni italiani, si tratta di  una certa sottovalutazione. Per fare un esempio, nel periodo della crisi che ormai dura da oltre un lustro, i saldi migratori italiani verso i paesi europei solo negli ultimissimi anni hanno cominciato a mostrarsi  negativi (cioè il numero degli emigrati ha superato il numero degli immigrati) in misura significativa. In generale in questo campo le tendenze reali dei periodi più recenti raramente vengono ben rappresentate dalla documentazione statistica corrente.

 

[4] Forse può essere utile  qualche parola di guida alla lettura del grafico in particolare per quel che riguarda la linea  nera continua relativa ai saldi e al loro incremento. Essa è discendente perché va dallo zero verso valori negativi, che sono quelli che si registrano quando c’è emigrazione

 

Category: Migrazioni, Osservatorio internazionale

About Enrico Pugliese: Enrico Pugliese (1942) è professore ordinario di Sociologia del lavoro presso la Facoltà di Sociologia della Sapienza-Università di Roma. Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell'Istituto di ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRPPS-CNR). La sua attività di ricerca ha riguardato principalmente l'analisi del funzionamento del mercato del lavoro e la condizione delle fasce deboli dell'offerta di lavoro, con particolare attenzione al lavoro agricolo, alla disoccupazione e ai flussi migratori. Si è occupato, inoltre, dello studio dei sistemi di welfare, con particolare attenzione al caso italiano e all'analisi delle politiche sociali. Tra le sue pubblicazioni recenti: L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (Il Mulino, 2006); Il lavoro (con Enzo Mingione, Carocci, 2010); L'esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con M. Immacolata Maciotti, Laterza, 2010); La terza età. Anziani e società in Italia (Il Mulino, 2011).

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