Domenico Quirico: “Entreremo in Europa a ogni costo”.Reportage da Horgos ai confini tra Serbia e Ungheria

| 18 Settembre 2015 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo da La Stampa del 18 settembre 2015. La foto in alto è stata scattata a Horgos. Si consiglia la lettura dei precedenti articoli di Domenico Quirico ripubblicati da www.inchiestaonline.it

 

Per te, per voi siamo soltanto punti nella folla..”,. Me lo dice una ragazza siriana, un afascia azzurra nei capelli, con una garbatezza temperata di gravità. Ha gli occhi chiari, elisii, trascendenti. Ma vuoti di sguardo. La folla: la moltitudine ribollente di migranti davanti alla cortina di ferro spinato  di Horgos, tra Serbia e l’Ungheria che ha chiuso loro le porte.

I migranti della via balcanica, siriani soprattutto, ma anche afghani, pachistani, famiglie del Bangladesh: arrivano a un ritmo di migliaia al giorno, un ariete umano puntato sulla frontiera. Forse ha ragione: punti nella folla, impossibile sapere chi sono davvero. A Horgos ho avuto paura, come se uscendo da qui, da questa autostrada alla periferia d’Europa chiusa e coperta di immondizie, dovessi trovare sfasciato il mondo.

 

Molto diversi

Li trovo diversi, cambiati, irriconoscibili dai migranti che ho incontrato alle altre stazioni di questo calvario del nostro tempo: Lampedusa, Mineo, Zarzis, il Sahel il vicino oriente. Sono diventati determinati, duri, si battono, decisi ad ottenere: un’altra vita, atomi di felicità, un posto dove ricominciare. Non aprono le palme a invocare. Le chiudono attorno a un sasso. Chiedono. Verrebbe voglia di dire: pretendono. Se non ci fosse il rischio di fornir materiale a quelli che non li respingono, non per quello che sono, ma per quello che loro credono siano. Qui, alla frontiera chiusa da un minuscolo nazionalista di quell’Europa centrale che con le sue fobie ha già ucciso una volta l’Europa, cento anni fa, hanno gettato pietre di una intifada organizzata e dura.

Penso ad altri migranti miti esausti che si afflosciano in un canto. Davanti a una porta chiusa aspettano: il pane dei fatti non li nutre più. Li consola che, chissà dove, nei paesi da cui sono fuggiti i cannoni sparano e uomini sono braccati imprigionati crocefissi e un pezzo di mondo tranquillo è calpestato. Loro sono qui non si muore è tanto è tutto. In questi c’è la rabbia di chi sa di subire un torto, un sopruso, l’ennesimo dopo quelli infiniti di regimi parassitari o fanatici. Sono organizzati; in un attimo montano una marcia, un corteo, coniano slogan, scrivono su pezzi di cartone messaggi: Grazie Serbia!… Europei, questi sono i vostri diritti umani?…

Ragazzi fissano partenze collettive, disciplinano i gruppi, scelgono sentieri e orari, ordinano se restare o partire. Perché sono uomini e donne che arrivano da luoghi dove la guerra li ha intrisi, di orrore ma anche di determinazione a sopravvivere. Non hanno un ritorno anche solo come sogno da portare con sé. Devono passare: qui o altrove, entrare nel paradiso per restarci e vivere. A qualunque costo. Noi discutiamo pigramente su di loro, quelli che sono già buoni consumatori o produttori, quelli utili. Quando proprio il più inutile, il più sventurato ha diritto alla nostra misericordia. Intanto i migranti si modificano, si adattano, reagiscono all’ambiente.

 

La frontiera

Horgos è un luogo vuoto, sospeso come tutte le frontiere. Nella luce calda del mattino, il giorno dopo la battaglia, gli alberi hanno un primo presentimento dell’autunno, non dell’autunno in cui si appassisce ma dell’autunno in cui si matura. Un elicottero dell’esercito ungherese ruota minaccioso sul confine. Accanto a una vecchia autocisterna arrugginita piena di acqua gli uomini lavano i bambini insaponandoli accuratamente.

Ci sono migliaia di persone e noto una donna, una giovane donna siriana, il capo quietamente coperto da un velo chiaro. Una donna giovane e il suo bambino in braccio tra migliaia di esseri umani. L’unica cosa che vedo è quella donna. La sua piccola bocca rotonda con una espressione di determinatezza insieme dolorosa e felice. Tiene abilmente il bimbo e con l’altra mano, con infinita dolcezza, gli versa sul capo l’acqua da una bottiglia di plastica per difenderlo dal caldo e dal sole. Quella singola donna e il suo piccolo, quando ripenserò a Horgos è la sola cosa che mi verrà in mente. Sì, è vero, la crudeltà si annida forse al principio di tutte le cose, ma l’uomo che soffre qui, in questo crudele inizio di secolo, è l’incompiuta, l’imperfetta divinità di questo mondo.

 

La corsa agli autobus

Ora la notizia si è diffusa in un lampo: stanno arrivando i bus organizzati dalla Serbia, porteranno tutti alla frontiera con la Croazia, Sid o Bezdan, un centinaio di chilometri a Ovest, un’ora o poco più. Il governo croato, almeno fino a ieri, ha annunciato che lascerà passare. Il fiume cambia il suo letto, addio al dannato Orban e al suo muro ungherese. La Croazia: il sentiero che i migranti, a piedi, a piccoli gruppi avevano già iniziato a segnare da qualche giorno. Tutto si allunga di un giorno, di cento chilometri. Cosa sono cento chilometri per questa gente?

Affardellano i piccoli zaini, prendono i bimbi. Voltano le spalle al reticolato, davanti beffardo campeggia, ancora nuovo di zecca nonostante la sassaiola, lo stemma con le stelle dell’Unione. Forse dovremmo scrivere alle nostre frontiere la frase della Bibbia, è meglio dare che ricevere.

Ah i siriani! Li conosco bene i siriani. Ragazzi, tutti ragazzi: è come se avessero quindici anni per me tutta la vita. Hanno un certo modo di dirlo, la loro età, che incanta. Quindici anni ad Aleppo, a Salad-eddin, quartiere triturato dalla battaglie dove un tempo giocavi nelle vie e respiravi l’odore del pane e delle olive. Ogni volta che ne incontro uno tra le immondizie e le tende di questo confine disperato domando loro quanti anni hanno. E mi rispondono parlando di Aleppo di Homs e Raqqa dove c’è l’Isis e mi chiedono quando il confine si aprirà, un giorno due giorni? Mi chiedono, ma io non voglio dire loro che resterà chiuso e dovranno cercarsi un’altra via. Se li accolgono saranno contenti di loro i tedeschi? Ma, ho detto io, potete imparare il tedesco e leggere la loro letteratura e osservare come vivono, i tedeschi, come se foste in viaggio di istruzione e non profughi. Già, perché no? Quando ci saremo… Mi hanno ringraziato, ci hai dato coraggio e uno di loro è tornato indietro, lo zainetto già sulle spalle, andava verso l’autobus, è tornato indietro per stringermi la mano e io gli ho raccomandato di stare attento. Sono scomparsi nella fila. Tante cose cominciano a quindici anni, proprietà, eternità, amore, il saper tutto e non essere mai felici un’altra volta. Le delusioni e il dolore cominciamo molto tempo prima. Dai quindici anni si comincia a pensare ai nemici. L’idea dei nemici è terribile, non ti fa più ricordare l’eternità e te la porti dietro.

Da qui l’Europa avara e tentennante appare come un secchio d’acqua rimasto a lungo all’aria aperta: l’acqua sembra pulita, non ci sono corpi estranei, nessuno ci ha buttato dentro sassi o immondizia. Il secchio è davanti a una casa perbene. Ma se tuffi dentro la mano senti tra le dita una sporcizia finissima che non ha forma né dimensioni e sembra dappertutto. Senti solo che c’è. Un grasso fondo fatto di impercettibili granelli che piovono ininterrottamente da quell’atmosfera retoricamente per bene.

Vieni ti faccio conoscere uno dei «capi», mi propone un ragazzo: è scuro, già duro e magro come un’accetta. Con gli occhi neri come un nero impeto di fuoco della notte. Il suo bastone di comando è un telefonino: dà ordini, cita città di frontiera, punti di sosta, cifre da pagare ai tassisti. E pieno di un orgoglio niente affatto ordinario, ha la dura energia del fulmine: «Perché gli altri sono entrati e noi no? Perché da una certa ora qualcuno ha deciso che no, basta non vi spetta più state lì nella immondizia, sotto il sole? Loro sì e noi no… Si tengono uniti in quella dannata cricca, amministrano la speranza, amministrano il paradiso, hanno tutto in pugno loro. Marceremo, sfonderemo alla fine qui o da un’altra parte andremo di là». E gira il torso, torpido di rabbia e di mestizia. È possente la sua rabbia, una cosa che colpisce allo stomaco.


I resti dell’accampamento

Quando sono arrivato le tende erano centinaia, ora il prato è vuoto, solo i segni tondi lasciati sulle erbacce, come un campo indiano abbandonato: torsi di mela scarpe abbandonate pezzi di cartone plastica abbozzi di fuochi escrementi, ovunque. Qualcuno, ordinato, ha stipato le immondizie in un sacchetto prima di partire. Lunghe colonne si formano accanto ai bus in attesa dove sono le garitte del passaggio di confine. I siriani da una parte, hanno la priorità, gli altri accanto. Già: chi penserà a questi afghani, africani, asiatici che non avranno diritto allo status di rifugiati a nessuna frontiera europea al momento della identificazione? Come questo rivolo del fiume devierà o sarà assorbito dalla terra? Li riconosci, i più derelitti che ancora si aggirano nel campo, cercano un paio di pantaloni in buon stato gettati via da qualcuno più ricco, sacchetti di mele, una bottiglia mezza vuota.

Davanti alla fila il cartello della dogana li interroga: «preziosi da dichiarare». Ai bus si uniscono i taxi: è corsa la voce, sì, prima che partano si può guadagnare qualcosa da questi migranti, trenta euro per andare a Kanijiza, la prima cittadina a dieci chilometri, cento o più per raggiungere il confine croato. Dissuado alcuni siriani: hanno suggerito loro di tornare a Belgrado e poi andare alla frontiera croata, quattrocento chilometri invece di cento… Eppure i serbi hanno dato buona prova, duecentomila passaggi dall’inizio dell’anno. Mi dice un amico, Zakam: non è solo per fare bella figura con l’Unione europea, noi sappiamo cosa vuol dire accogliere profughi, duecentomila sfollati dal Kosovo e ancor di più, prima, dalla Croazia…

Da un reticolato sbuca una famiglia di siriani, giovani, un bimbo in braccio. Arrivano da Sud. Un agente li ferma: Guardate stanno andando via tutti, qui non si passa. Si siedono, muti, osservando gli altri sfilare in direzione opposta. Ieri dalla Macedonia sono entrati altri seimila migranti…

 

Category: Migrazioni, Osservatorio internazionale

About Domenico Quirico: Domenico Quirico è nato ad Asti nel 1951. È reporter per il quotidiano torinese La Stampa, caposervizio esteri. È stato corrispondente da Parigi e inviato di guerra. Si è interessato fra l'altro degli avvenimenti sorti a partire dal 2010-2011 e noti come "Primavera araba". Nell'agosto 2011 è stato rapito in Libia e liberato dopo due giorni. Il 9 aprile 2013, mentre si trovava in Siria come inviato di guerra, di lui si perde ogni traccia.La prima notizia del suo rapimento giunge il 6 giugno quando viene diffusa la notizia che Quirico è ancora vivo. Viene infine liberato l'8 settembre 2013, dopo 5 mesi di sequestro, grazie ad un intervento dello Stato Italiano e infine riportato a casa. Tra le sue pubblicazioni: Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, Mondadori, 2003;Generali. Controstoria dei vertici militari che fecero e disfecero l'Italia, Mondadori, 2007; Naja. Storia del servizio di leva in Italia, Mondadori, 2008; Primavera araba. Le rivoluzioni dall'altra parte del mare, Bollati Boringhieri, 2011. Gli ultimi. La magnifica storia dei vinti, Neri Pozza, 2013; Il paese del male. 152 giorni in ostaggio in Siria, Neri Pozza, 2013; Il grande califfato, Neri Pozza, 2015.

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