Alberto Bradanini: Iran e Vicino Oriente. Rompicapo regionale e grandi potenze

| 1 Giugno 2021 | Comments (0)

 

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Una sana adesione al principio di complessità consiglia la massima cautela quando si tenta di dare un senso agli eventi che si dipanano nel cosiddetto Grande Medio Oriente, definizione con la quale definiamo solitamente la regione che dall’Iran, attraversando i territori mediorientali propriamente detti, abbraccia anche i paesi del Nord-Africa che si affacciano sul Mare Nostrum.

Come altrove, anche qui i fattori identitari sono costituiti dalla lingua, l’etnia, il colore della pelle, la religione – questa a sua volta suddivisa in confessioni (o famiglie religiose) talora ostili l’una all’altra – che interagiscono in modo diverso a seconda dei tempi e dei luoghi. La religione, messaggera di orizzonti messianici, occupa un posto centrale nelle identità di quelle popolazioni, vittima e insieme protagonista di settarismi, arretratezze socioculturali e posture antimoderne, cui si aggiunge un’endemica instabilità politica che impedisce l’affermarsi di priorità centrate sullo sviluppo umano, il controllo pubblico delle risorse e la giustizia sociale. A quanto sopra si sommano poi le pesanti interferenze esterne dell’Occidente americano-centrico, di stampo neocoloniale e imperialista, che soffiano sul fuoco delle diversità storiche, etniche e religiose, con la complicità delle oligarchie locali, civili o ecclesiastiche fa poca differenza, per imporre come sempre la propria agenda di potere ed estrazione di risorse.

Ma è il profilo strutturale, vale a dire l’iniqua distribuzione della ricchezza e la scarsa consapevolezza della natura sociale del conflitto tra dominati e dominanti (un analfabetismo qualitativamente non diverso da quello diffuso in Europa), che sembra sfuggire alla narrazione pubblica, un profilo insieme fonte e prodotto di ritardo culturale, povertà e instabilità sistemica, con poche differenze tra paese e paese, foriero di conflitti etnici/religiosi, lacerazioni migratorie e terrorismo. Quest’ultimo, le cui radici sono squisitamente politiche, e con le armi della politica andrebbe affrontato, è anch’esso filiazione diretta di ingiustizie sociali e interferenze esterne: combatterlo con la repressione, come pure occorre fare, non sarà mai sufficiente.

 

La scena politica

Se gettiamo un rapido sguardo sul Grande Medio Oriente, ecco cosa appare ai nostri occhi:

· un’ingombrante presenza Usa attraverso basi militari in molti paesi della regione, una presenza fondata su ragioni economiche (il petrolio), politiche (un composito amalgama di vantaggi reciproci e ideologia tra Usa e Israele), imperialistiche (gli interessi delle corporations e dell’industria militare, la tutela del petrodollaro quale strumento di dominio finanziario planetario), geostrategiche (l’ostilità verso Russia, Cina e altri paesi resistenti alla sottomissione, tra i quali l’Iran). Queste dinamiche interagiscono tra loro sotto l’ombrello della teoria Usa del caos (dividere amici e nemici, alimentare tensioni e conflitti, neutralizzare i contender states e via dicendo, allo scopo di perpetuare il dominio sul mondo); l’ipertrofia espansionista dell’impero americano (portatore di radici messianiche neotestamentarie, la nazione indispensabile secondo l’espressione coniata da W. Clinton) costituisce un permanente fattore di instabilità (anche) in MO;

· la questione palestinese resta centrale nella regione. Essa è permanente motivo di profondo risentimento verso l’Occidente (soprattutto gli Stati Uniti, potenza protettrice di Israele, insieme alle nazioni potenze coloniali, Francia e Regno Unito) da parte dei paesi e popolazioni islamiche della regione, arabi, turchi, curdi e iraniani. Israele, tuttavia, innesto storico imposto nel XX secolo dalle grandi potenze, è oggi una realtà politica imprescindibile. Circondato da nazioni ostili, rappresenta per gli Usa una questione di politica interna e non estera, in ragione della grande influenza delle lobby e interessi pro-israeliani nella società americana, politica, economia, media e così via. In conflitto sistemico con il mondo arabo, Israele guarda alla questione palestinese in termini di rapporti di forza e con il passivo consenso americano, avendo da tempo abbandonato l’opzione dei due stati, la solo che potrebbe aprire uno spiraglio risolutivo. Inadempiente verso innumerevoli risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Israele è il solo paese della regione in possesso di armi nucleari e non aderente al Trattato di Non Proliferazione (TNP)(1). Non ha nemmeno ratificato la Convenzione Internazionale sulle Armi Chimiche e quella sulle Armi Biologiche;

· le ricorrenti esplosioni di rabbia contro Israele da parte del popolo palestinese oppresso da espropriazioni, soprusi e discriminazioni di ogni genere (non solo dunque gli abitanti di Gaza, un territorio che è divenuto col tempo una vera e propria prigione a cielo aperto) non sono destinate ad arrestarsi in futuro, a meno che gli Stati Uniti non impongano un radicale cambiamento di prospettiva politica al loro alleato, aprendo la strada alla prospettiva dei due stati: non vi sono tuttavia segnali di sorta che ciò stia avvenendo;

· l’intervento russo ha consentito di sconfiggere lo Stato Islamico (Isis). La Russia è stata un positivo fattore per il recupero di un minimo di stabilità in Siria. La (recente) postura europea di ostilità verso la Russia, non solo in Medio Oriente, è figlia del masochistico asservimento europeo al dominio imperiale degli Stati Uniti. L’incubo americano è costituito dalla prospettiva di ipotetica integrazione tra Russia ed Europa che spingerebbe il continente americano verso la marginalità. L’iniziativa cinese Belt and Road, che ha l’obiettivo di avvicinare le estremità del continente euroasiatico infrastrutturando l’Asia Centrale, rende quell’incubo ancor più minaccioso;

· tutti sulla carta hanno combattuto l’Isis (figlio della guerra illegittima Usa-UK contro Saddam), ma Turchia, Arabia Saudita/monarchie del Golfo e Stati Uniti hanno mirato soprattutto a destrutturare la Siria, a indebolire Hezbollah e a contenere l’espansione iraniana. Soldati e armi dell’Isis provengono dai resti dell’esercito iracheno di Saddam e dalla cosiddetta opposizione siriana moderata, armata e finanziata dagli Stati Uniti. La disfatta del Califfato prende avvio con l’arrivo delle truppe russe, legittimamente chiamate dal presidente siriano Bashar al-Assad, che altrettanto legittimamente ha chiesto aiuto a Iran ed Hezbollah;

· anche la Turchia, sempre sulla carta, combatte l’Isis, ma il suo obiettivo è la disfatta dei curdi siriani, percepiti come minaccia esiziale dal panturchismo neo-ottomano in ritardo con la storia, incapace com’è di riconoscere piena cittadinanza politica a una parte consistente della propria popolazione (l’etnia curda rappresenta circa il 25 per cento del totale);

· la Siria è stata invasa (alcune sue regioni sono tuttora occupate) da turchi e americani, in plateale violazione del diritto internazionale. Il presidente siriano Bashar al-Assad (il giudizio etico sulla persona non ha qui alcuna rilevanza) è pienamente legittimato a recuperare il controllo del territorio nazionale contro Isis, turchi e americani (e anche britannici e francesi, diversamente camuffati), ciascuno dei quali persegue una sua agenda;

· l’Unione Europea (Ue) – costola afona della bulimia imperialistica Usa e governata da una tecnocrazia iperliberista non elettiva al servizio delle oligarchie tedesche (e relativi satelliti) – non è un soggetto politico, e dunque svolge un ruolo irrilevante (non è nemmeno in grado di aprire un canale commerciale per prodotti medico-umanitari con l’Iran, paese colpito da sanzioni americane illegali);

· una lunga lista di endemiche violazioni di diritti umani e/o del diritto internazionale da parte americana (tra quelle recenti, Guantánamo, Abu Ghraib, extraordinary renditions, riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan e di Gerusalemme quale capitale di Israele, guerre illegittime…) e la pratica del doppio standard (Iran/Palestina/Arabia Saudita/monarchie del golfo e via dicendo) hanno da tempo tolto agli Usa ogni credibilità;

· diversi popoli sono privi di patria: palestinesi e curdi, innanzitutto, ma anche baluci (divisi tra Iran e Pakistan), lori e qashqai (entrambi in Iran) e altri ancora: la sopravvivenza delle rispettive culture e civiltà è a rischio. L’assenza di una patria per questi popoli costituisce una casua endemica di instabilità politica e sociale;

· il fattore R-Religione (sunniti, sciiti, zaiditi, ismaeliti, alawiti, aleviti, drusi cristiani, ebrei e altri) è ovunque centrale (Libano, Siria, Iran, Arabia Saudita, Bahrein, Egitto e … Israele).

Quasi ovunque contrasti e privilegi delle gerarchie religiose si sommano a quelli dei ceti laici dominanti;

· mentre è da escludersi un attacco dell’Iran contro Israele o gli Stati Uniti (il divario di potenza di fuoco è incolmabile), non si può invece escludere un attacco americano/israeliano contro l’Iran;

· nel mondo islamico – ma anche in Israele – la questione storico-religiosa della separazione tra Stato e Religione è tuttora irrisolta.

 

Alcuni rilievi, tra i tanti.

Sulla carta, gli Stati Uniti sono nemici di Isis e al-Qaeda, ma sono soprattutto nemici di Iran, Hamas ed Hezbollah, tutti non a caso avversari di Israele. Hezbollah è un gruppo terrorista per gli Stati Uniti, i quali tuttavia distinguono singolarmente il braccio militare da quello politico e mantengono un Ambasciatore accreditato in Libano, dove il Partito di Dio è al governo con Sunniti, Drusi e Cristiani. Gli Stati Uniti inoltre sostengono al-Sisi e sono alleati dell’Iraq, che è invece alleato della Siria, amica dell’Iran e di Hezbollah, tutti nemici degli Stati Uniti. Questi ultimi sono anche i principali sponsor politici e militari di Israele, ma finanziano l’ANP(2) e sono alleati dell’Arabia Saudita, la quale è oggi un pragmatico alleato dello Stato Ebraico, con uno sguardo ostile verso l’Iraq. Riad finanzia in modo più o meno occulto talebani, Al-Qaeda e Isis, che sempre sulla carta sarebbero nemici degli Stati Uniti.

Malgrado i legami commerciali, energetici e di armamenti, Ankara e Mosca si trovano su fronti opposti in Libia (la prima a fianco di Al-Sarraj, la seconda di Haftar) e in Siria (dove la strategia di Erdogan appare confusa, dovendo conciliare la sua appartenenza alla Nato con gli accordi energetici con Mosca).

Alla luce di tale rompicapo, l’etica politica e quel poco di diritto internazionale che si è riusciti a costruire al termine del secondo conflitto mondiale – e che gli Usa, considerandolo un ostacolo alla loro bulimia espansionistica, non si fanno scrupolo di violare ogni volta che fa loro comodo – suggerirebbero alle Grandi Potenze di abbandonare il Medio Oriente. Se ciò avvenisse, si potrebbe ipotizzare che, senza ulteriori interferenze neocoloniali, i paesi della regione potrebbero gradualmente avviarsi verso un naturale equilibrio geopolitico. A quel punto, sulla base dei principi di etica politica, la comunità delle nazioni potrebbe attivarsi per contribuire allo sviluppo di istituzioni ponendo al centro gli interessi della persona umana e l’equità sociale. Certo, non tutto verrebbe risolto, ma sarebbe già molto.

 

Gli sviluppi recenti

Da quando il giovane ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi, ha innescato con il suo sacrificio la miccia della primavera araba (dicembre 2010) la scena regionale ha subito un netto peggioramento: destabilizzazione della Siria, colpo di stato in Egitto, ulteriore frantumazione dell’Iraq, nascita e declino del Califfato, forte assertività della Turchia, ingresso della Russia, degrado politico, istituzionale e sociale della Libia, maggior (ma non illegittima) presenza iraniana, escalation del conflitto in Yemen. Decisamente più segni meno che segni più.

Gli americani, dopo aver invaso illegalmente due paesi sovrani, l’Afghanistan (2001) e l’Iraq (2003), frantumato il diritto internazionale e provocato solo in Iraq la morte di oltre 600.000 persone (Lancet) (3), hanno violato la sovranità siriana (a partire dal 2011), ancora una volta in barba al diritto internazionale, bombardato senza alcuna legittimità la Libia (2011), insieme a francesi, britannici e altre 16 nazioni tra cui l’Italia, causando migliaia di morti, devastando il territorio e aprendo la strada a migrazioni di massa che stanno tuttora destabilizzando l’Italia e l’Europa.

Dopo Bush e Obama, anche Donald Trump ha ordinato bombardamenti etici contro asseriti utilizzatori siriani di gas risultati poi inesistenti, ha proceduto al riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele e della sovranità israeliana sulle alture del Golan (che per il diritto internazionale sono territorio siriano), imposto un piano di pace per la Palestina – concepito in verità da Israele – che legittimava insediamenti illegittimi e cancellava ogni concreta prospettiva di una Palestina indipendente e infine disposto l’omicidio extragiudiziale del generale iraniano Soleimani, esponendo il mondo intero al rischio di un conflitto devastante.

Quanto all’Iran, Teheran può ragionevolmente contare su pochi paesi o gruppi politici: innanzitutto la Siria, ma la logica va qui rovesciata: è Damasco ad aver bisogno di Teheran, e non l’inverso, sebbene quest’ultima mantenga un certo interesse a consolidare una sua presenza sul Mediterraneo e l’alleanza con Hezbollah in Libano, sostanzialmente quale deterrenza in caso di attacco militare da parte americana/israeliana.

Viene poi l’Iraq, paese arabo a maggioranza sciita (nella guerra degli anni ’80, il nazionalismo etnico era prevalso sulla comune fede sciita), con una componente curda foriera di un insidioso contagio sia per Ankara che per Teheran. A loro volta Russia e Cina, portatrici di interessi extra-regionali, sono dall’Iran percepite nella loro storica propensione all’infedeltà (la prima) e al cinismo (la seconda). Tuttavia, se un raccordo strategico con Mosca e Pechino non è per Teheran privo di apprensioni, esso è oggi funzionale agli interessi di tutti e tre. Sospinti dal vento della real politik, i tre paesi tendono verso una convergenza a fusione fredda ma pur sempre convergenza, alimentata da complementarità economiche e dalla comune urgenza di contenere l’espansionismo americano.

 

L’omicidio di Soleimani

Il 3 gennaio 2020 Trump ordina l’assassinio extragiudiziale del generale iraniano Qassem Soleimani. Con un atto di guerra e insieme di terrorismo di stato, venivano calpestati etica politica e principio di proporzionalità (per un mercenario americano colpito da milizie irachene pro-Iran – episodio sul quale la responsabilità di Teheran è tutt’altro che dimostrata – la rappresaglia di Washington aveva già fatto 25 vittime tra i Kataib Hezbollah). La condanna per questo omicidio premeditato nulla ha a che vedere con la qualità etica del personaggio, che non era certo un’anima pia. Gli americani, vale la pena ricordarlo, non difendono qui i loro confini o la loro sicurezza, ma esclusivamente i loro ipertrofici interessi imperiali, e dunque le motivazioni fornite risultano ancor più prive di legittimità.

Se nei riguardi di Teheran gli Stati Uniti perseguissero l’obiettivo del cambiamento di regime, l’omicidio di Soleimani non avrebbe alcuna logica, poiché il presupposto principale verso una metamorfosi di quel paese è costituito da investimenti, commercio e scambi culturali, una strada che l’accordo nucleare voluto da Obama avrebbe potuto aprire.

Dopo l’omicidio di Soleimani, Trump aveva persino affermato che gli Stati Uniti, essendo divenuti il primo produttore di petrolio e gas al mondo con lo sfruttamento dello shale gas e oil, non avrebbero hanno più necessità di importare petrolio, e dunque la politica di Washington nella regione mediorientale sarebbe radicalmente cambiata. Tale affermazione, tuttavia, non risponde al vero. Sebbene meno dipendenti dall’oro nero, gli Usa devono egualmente impedire che il petrodollaro venga sostituito da altre valute, se vogliono mantenere lo status di superpotenza monetaria: nel 2000 Saddam Hussein aveva annunciato che l’Iraq avrebbe utilizzato l’euro nelle transazioni petrolifere e non più la moneta del nemico, segnando così il suo destino.

Oggi dunque, il pericolo per la pace e la stabilità nel mondo non viene da una dittatura fascista o comunista, ma dal principale alleato-padrone dell’Occidente, che alimenta il mito di una nazione pacifica e rispettosa del diritto, dietro al quale si nasconde però un’oligarchia mai sazia di potere e ricchezze, che impone la propria bulimia espropriatrice attraverso 686 basi militari disseminate in 74 paesi (4) (solo in Italia i siti militari statunitensi sono 113 (5) e le bombe nucleari tra 65 e 90 (6) in violazione del Trattato di Non Proliferazione, da entrambi ratificato).

 

Mappa delle basi militari Usa solo in medio Oriente

 

 

Tale ipertrofia di potere, lontana dai bisogni della stessa maggioranza di americani, non verrà contenuta dalle deboli restrizioni del diritto internazionale, ma solo da un mutamento radicale negli Stati Uniti (al momento improbabile) o da un graduale riequilibrio di forze sulla scena internazionale, con l’ascesa di Cina, Russia e altre nazioni resistenti, a loro volta chiamate a dare un contributo innovativo, anche attraverso un’evoluzione etico-politica delle loro istituzioni, alla costruzione di un mondo più libero, più giusto e più umano.

 

 Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Entrato in carriera diplomatica nel 1975, ha ricoperto diversi incarichi alla Farnesina e all’estero. È stato Console Generale d’Italia ad Hong Kong (1996-1998), Ambasciatore in Iran (2008-2012) e Ambasciatore a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

 

NOTE

1 Trattato di Non Proliferazione Nucleare

2 Autorità Nazionale Palestinese

3 http://www.italnews.info/2010/10/16/i-dati-ufficiali-dei-morti-nella-guerra-in-iraq/

4 https://www.tpi.it/esteri/basi-militari-stati-uniti-2017082350311/

5 http://www.kelebekler.com/occ/busa.htm

6 https://www.tpi.it/esteri/bombe-nucleari-usa-italia-dati-documenti-20190717372685/

Category: Culture e Religioni, Guerre, torture, attentati, Osservatorio internazionale, Osservatorio Palestina

About Alberto Bradanini: Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Roma La Sapienza nel 1974. Entrato in carriera diplomatica nel 1975, ricopre diversi incarichi alla Farnesina e all’estero, tra cui Belgio, Venezuela, Norvegia e Nazione Unite (Direttore dell’Unicri, Istituto di ricerca delle Nazioni Unite sul crimine e la droga, dal 1998 al 2003). Si è occupato di Cina per lunghi anni, trascorrendo in quel paese dieci anni in diversi momenti, in particolare dal 1991 al 1996 quale Consigliere Commerciale presso l’Ambasciata a Pechino, quindi Console Generale d’Italia ad Hong Kong dal 1996 al 1998. Alla Farnesina ha svolto l’incarico di Coordinatore del Comitato Governativo Italia-Cina dal 2004 al 2007, ed è stato responsabile dell’ufficio istituzionale internazionale di Enel (2007-08). Alberto Bradanini è stato quindi Ambasciatore d’Italia in Iran dall’agosto 2008 al dicembre 2012 e infine Ambasciatore d’Italia a Pechino dal 2013 al 2015. È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

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