Fiorenzo Lafirenza: La Cina d’oggi non è solo successi, dobbiamo trasmettere senso critico

| 16 Dicembre 2019 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo da www.corriere.it del 16 dicembre 2019. Fiorenzo Lafirenza è professore ordinario di Lingua e Letteratura cinese presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e l’Africa Mediterranea dell’Università di Venezia Ca’ Foscari

È in quanto didatta della lingua cinese (insegno presso l’Università di Venezia, Ca’ Foscari) che vorrei offrire alcune osservazioni che mi sembrano pertinenti alle diverse voci in risposta alla lettera di Stefania Stafutti e agli interventi che ne sono seguiti (vedi www.inchiestaonline.it; www.sinosfere.com)

Quando, circa un mese fa, ho chiesto ai miei studenti di Lingua cinese del secondo e ultimo anno del corso di laurea magistrale in Lingue, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea (a mo’ di provocazione, lo ammetto) come mai venissero proposte soprattutto tesi che offrono l’occasione di mettere in risalto i progressi compiuti dalla Cina nei più svariati ambiti, dalla protezione ambientale al riciclaggio dei rifiuti, dalla produzione industriale al sempre più rilevante ruolo giocato nell’economia mondiale, all’import-export e all’apprezzamento Made in Italy in Cina, oltre, com’è ovvio, al progetto della Nuova via della Seta visto come una sorta di missione umanitaria finalizzata a fondare una “comunità dal destino condiviso”, mentre nessuno pensasse di proporre una tesi sul problema della repressione dei diritti umani, sul regime carcerario, sull’internamento nei campi di rieducazione di enormi masse di musulmani, sulla gestione politica e culturale del Tibet o sui recenti movimenti di protesta che hanno avuto luogo a Hong Kong, arrischiandosi tutt’al più ad affrontare il problema della disputa tra la RPC e i paesi limitrofi in merito alle isole del Mar Cinese Meridionale, la risposta è stata: “sì, e poi come ci andiamo a lavorare in Cina? E se al momento di rilasciare il visto scoprono che abbiamo trattato di temi sgraditi?”

Ancora, i nostri studenti del corso triennale di Lingue, culture e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea sono invitati a svolgere una delle tipologie di tesi accettate dal nostro Dipartimento, segnatamente quella di traduzione in italiano dal cinese, individuando l’articolo da tradurre tra le migliaia di articoli presenti sulla piattaforma CNKI, un imponente database cinese che raccoglie ogni tipo di materiale riguardante moltissimi ambiti sinologici, tra i quali, tuttavia, per quanto riguarda la contemporaneità, è impossibile trovare qualcosa che esprima una voce critica nei confronti di un qualsivoglia problema che riguardi la Cina. Certo, alcuni articoli affrontano problemi scottanti, ma più spesso che no, con un’ottica ottimista che li vede a un passo dalla soluzione. Ora, se non si vuole negare il fatto che in tutto il mondo, Italia compresa, i giovani di tutto il mondo (e non solo i giovani) sono stati gradualmente privati della capacità e degli strumenti per elaborare un pensiero critico sulla realtà, bisogna ammettere che la mancanza di informazioni sull’altra faccia della medaglia è alquanto perniciosa.

Nella stragrande maggioranza dei casi gli studenti, che oggi, dato che il docente non è più educatore, ma erogatore di servizio, si chiamano “utenti”, si iscrivono ai nostri corsi nella prospettiva di trovare lavoro in Cina o presso aziende cinesi o italiane che hanno delocalizzato in quel paese, ma, a quanto mi consta, non hanno la minima idea della realtà delle cose, ovvero del fatto che l’epoca in cui allo straniero venivano offerte con facilità occasioni di impiego è finita e non tornerà. Né i materiali su cui studiano la lingua, proposti dai docenti che a loro insegnano, li stimolano ad andare oltre al folklore di una Cina in movimento verso il futuro. Così come negli anni Settanta parlavano di comuni popolari, di Lei Feng e della solida guida del PCC, così i testi di oggi parlano di vita nei campus, moda e costume, e di quanto sia moderna la Cina del Ventunesimo secolo.

Giusto per fornire uno strumento di riflessione ai miei studenti, ho proposto loro di guardare su Netflix il docufilm Made in USAUna fabbrica in Ohio, che registra in modo oggettivo le vicende di un impianto dismesso della General Motors a Dayton, nell’Ohio, rilevato da un milionario cinese che vi ha aperto una fabbrica di vetri per auto. Per migliaia di operai a rischio di perdere il lavoro in seguito al fallimento dell’azienda americana, l’arrivo dei cinesi ha significato ritornare a lavorare e riacquistare la dignità perduta a causa della recessione. Il prezzo da pagare in termini di bassi salari e mancanza di sicurezza, tuttavia, non è stato irrilevante.

Devo dire che chi ha seguito il mio suggerimento e ha visto il documentario, ne è uscito alquanto perplesso, avvertendo, in alcuni casi in modo pungente, di essere venuto in contatto con una realtà di cui ignorava del tutto, se non l’esistenza, almeno la portata.

Vogliamo “produrre” persone in grado di parlare più o meno bene il cinese, o vogliamo educare e informare persone in grado di reggere e assorbire l’urto con una civiltà e una cultura che preme per diventare egemone?

Category: Movimenti, Osservatorio Cina

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