Fausto Bertinotti, Riccardo Terzi. La discorde amicizia

| 16 Marzo 2014 | Comments (0)

 

 

 

Invitiamo alla lettura del libro di Fausto Bertinotti e Riccardo Terzi, La discorde amicizia pubblicato da Ediesse, Roma 2013. Il libro raccoglie uno scambio epistolare tra Fausto Bertinotti e Riccardo Terzi, tra la nascita del governo Monti e le elezioni politiche del 2013, il cui significato vuole essere, come dice il titolo La discorde amicizia, la necessità per la sinistra di organizzarsi come un campo plurale, nel quale sappiano convivere e intrecciarsi le diverse culture politiche. Per incentivarne la lettura viene pubblicata la lettera scritta da Fausto a Riccardo che va parte del libro.

 

Caro Riccardo,

questa lettera nasce dalla lettura del tuo libro La pazienza e l’ironia, Ediesse Roma 201, e da qualche sollecitazione venuta dalle nostre conversazioni, dalle tante cose che vengono alla luce quali punti di vista comuni accumulati in tante storie vissute nella sinistra politica e sociale italiana, come da quelle sulle quali non siamo d’accordo. Le une e le altre però non ci acquietano; restano aperti interrogativi di fondo sulle ragioni di una sconfitta storica, peggio di una rotta, di una mutazione genetica della sinistra e su come uscirne per riprendere il cammino interrotto. «Cercate ancora» è la giusta consegna. Dunque una lettera per reagire così alla sollecitazione di una buona lettura e per avviare un dialogo. Perché tra noi? Un primo perché risiede semplicemente nell’accoglienza del bisogno di invertire una tendenza alla separatezza, all’assenza di dialogo oggi così acuta nel nostro campo. Si potrebbe rispondere perché il confronto si dovrebbe riaprire tra chiunque, in questo nostro mondo così malmesso. Ma forse c’è anche una ragione che ci riguarda più specificatamente. La comune, pur tra noi così politicamente diversi, condivisione di una determinata sconfitta nella più generale sconfitta della sinistra. Quella delle correnti critiche nel movimento operaio. Puoi chiamarlo «revisionismo», se il termine non suona urtante. Esso vuol delineare qui non tanto le correnti politiche e le linee di ricerca storiche del movimento operaio, quanto una propensione, un atteggiamento che ha attraversato la vicenda della sinistra sociale e politica, a partire dagli anni sessanta, in Europa e in particolare in quello che è stato chiamato il caso italiano. Un arcipelago di forze, di militanti, di intellettuali che ha provato a lavorare sul tema della trasformazione della società capitalistica fuori, da un lato, dall’ortodossia eretta a custode della continuità e, dall’altro, dalla propensione ad assumere la modernizzazione come guida di una prassi politica adattativa.

Al di là dei conservatori e al di qua dei miglioristi, senza però mai stare al centro. Anzi, in un certo senso, eccentrici, quasi a formare un luogo dove vivevano le più acute diversità destinate a intendersi, a fiutarsi anche in ragione di una comune propensione a considerare la democrazia, fin dentro l’organizzazione del movimento operaio, un’opzione irrinunciabile, uno snodo essenziale per dare senso alla politica e al cambiamento.

Riprendere le fila di quel dialogo è, dopo la sconfitta e la grande mutazione, un modo per «continuare a cercare». Tu ragioni, se capisco bene, essenzialmente attorno a due questioni che mi sembrano capitali: dove siamo giunti nella crisi della politica e della sinistra e come è potuto accadere che siamo giunti fin qui a un tal punto di smarrimento da determinarne la sua sostanziale inesistenza. Il punto in cui siamo tu lo riassumi in termini assai netti che io condivido per intero: «Ciò che rischia di paralizzarci, di chiuderci in una posizione marginale, è l’adesione acritica al principio della governabilità, della stabilità del sistema, ed è in nome di questo principio che abbiamo compiuto, negli anni passati, una spericolata ritirata strategica, per cui è divenuto sempre più arduo distinguere ciò che è destra e ciò che è sinistra, perché su tutti incombe una legge superiore che fissa rigidamente i confini del possibile. Se non abbiamo il coraggio di oltrepassare questi confini, il nostro ruolo sarà del tutto irrilevante» (R. Terzi, op. cit. p.47)

Tornerò, concludendo questa lettera, su questo argomento, per altro cruciale per il nostro futuro. Prima vorrei discutere sul quando, sul come e sul perché siamo arrivati sin qui. Vaste programme, per dirla con Charles de Gaulle.

Anche circoscrivendo il campo al Pci, che è l’oggetto della tua indagine, il compito risulta ugualmente assai rilevante per l’influenza del Pci sull’intera sinistra italiana e per come in esso, pur con tutta la sua originalità, sono filtrate tutte le grandi questioni del comunismo e del movimento operaio internazionale. Interrogandoti sull’inizio della crisi, su dove esso si situi, tu rispondi collocandolo nel tempo del Compromesso storico. Dico nel tempo, perché tu attribuisci al Compromesso storico la condizione di essere «più un sintomo che una causa della crisi». La crisi è quella che si era già aperta nel rapporto tra la politica e la società, e contemporaneamente quella che investiva la tradizione politica che, aggredita nelle sue fondamenta sociali e ideologiche, si stava già disfacendo. Il Pci è arrivato all’appuntamento disarmato e il tentativo tutto politico di uscirne non poteva che fallire. Del tentativo, a cui Enrico Berlinguer prestava ispirazione e carisma, varrà la pena di riparlare (assai meno vale la pena di occuparsi della deriva dei berlingueriani), ma è indubbio che si accelera lì e nei suoi dintorni (il governo di solidarietà nazionale) una curvatura moderata del Pci, governista e compatibilista, che tuttavia, in qualche misura, preesisteva a essa.

Ecco, io penso che l’inizio della crisi venga da ben più lontano. So che si tratta di una discussione aperta e tutti noi conosciamo l’opinione sul tema di alcuni dei protagonisti dello stesso Pci che situano assai diversamente il tempo dell’origine della crisi. Particolarmente significativa è quella di Pietro Ingrao che la colloca, non senza argomenti forti, sull’XI Congresso del Pci, in cui si sarebbe consumata la rinuncia ad attualizzare, di fronte alla modernizzazione capitalistica, la grande e decisiva questione della trasformazione della società capitalistica.

Ma mi ha colpito, recentemente, anche una fulminante, sebbene certo assai discutibile, tesi che ho letto in un bel libro, Il barbaro veneziano. Mezzo secolo da comunista, Il Poligrafo, Padova, 2008. Il suo autore, Cesco Chinello, un dirigente del Pci intelligente, colto e appassionato, racconta che, ai primi anni sessanta, tornando da una riunione di partito sulla nuova condizione operaia, aveva pensato che la storia rivoluzionaria del Pci si era conclusa in quella fase, nell’incapacità di cogliere la natura del neocapitalismo e, insieme, della nuova soggettività operaia. Altre tesi, ugualmente interessanti, potrebbero essere citate. Per parte mia penso che l’inizio della crisi stia nel biennio ’68-’69. È la solitudine di Praga che condanna il Pci, il quale capisce la Primavera, ma non la definitiva irriformabilità del socialismo reale che i carri armati sanciscono con l’invasione della capitale ungherese e con la drammatica devastazione del tentativo coraggioso e realistico di riforma della Primavera.

Ed è l’incapacità di andare al cuore della riscossa operaia e studentesca, che dal Biennio rosso, in Italia, pervade larga parte degli anni settanta, a impedire al Pci di farsi protagonista dell’ultima chance di rivolgere il Novecento, da questa parte del mondo, in un processo di trasformazione della società, di mutamento del modello economico e sociale e del rapporto tra le classi. Il Pci manca allora la possibilità di un’uscita da sinistra dalla crisi del partito operaio. Lo scioglimento del Pci, dopo il crollo dei regimi dell’Est, sarà l’epilogo, drammatico e non obbligato, certo, ma pur sempre epilogo, dell’occasione mancata. Ma, forse, anche per continuare a rifletterci, è come in uno snodarsi del cannocchiale: insieme a grandi imprese e a conquiste politiche e sociali assai importanti, insieme alla costruzione di una straordinaria comunità politica, «il paese nel paese», ci sono tappe, tornanti nei quali, rifacendo la storia anche con i se, è possibile evidenziare una ferita patita – e forse irreparabilmente – o un’occasione mancata, che corrompono un tessuto, che lo espongono alla «malattia». Converrà allora riflettere ancora su questa nostra storia, in tutta la sua complessità, dall’antifascismo e dalla Resistenza, al corso del movimento operaio nell’intero dopoguerra. Perché siamo arrivati a questo punto? E quali sono, in particolare, gli errori della nostra generazione politica, visto che come diceva Giorgio Gaber: «La nostra generazione ha perso»?

Il qui, per la politica della sinistra, è davvero, in ogni caso, molto sconfortante. Tu dici una cosa aspra che condivido appieno, che, cioè, «è diventato sempre più arduo distinguere ciò che è destra e ciò che è sinistra». Così come condivido l’individuazione della causa di questo disastro: «L’adesione acritica al principio della governabilità, della stabilità del sistema». Ma tu concludi che questo accade anche perché «su tutti incombe una legge superiore che fissa rigidamente i confini del possibile». Quando lo hai scritto non potevi neppure immaginare quanto questa legge diventasse «bronzea» portando con sé, proprio in questi ultimi mesi, un’accelerazione potente della crisi della democrazia in Europa sino alla sua concreta sospensione, una sistematica demolizione dell’autonomia della politica, per altro da questa stessa reclamata, e concretizzatasi in una sorta di neobonapartismo finanziario e nell’eutanasia della sinistra.

Ne ho scritto ampiamente in un editoriale per il numero della rivista «alternative per il socialismo» che si intitola, senza ambiguità, L’opportunità della rivolta (Alternative per il socialismo, 18, ottobre-novembre, 2011) La tesi è tanto semplice quanto radicale. La risposta del capitalismo finanziario alla crisi punta a demolire ciò che resta del modello sociale europeo. Il nuovo dogma della parità di bilancio e la deflazione salariale reagiscono all’ultimo aspetto della crisi, rincorrendo una competitività che, a composizione data della produzione di beni e servizi, si avvita tra recessione e riprese parziali senza occupazione, accrescendo le diseguaglianze. Ogni spazio di compromesso e di negoziato sociale viene negato. Le scelte sono imposte, a livello statuale e d’impresa, come ineluttabili e pretese dall’autorità monetaria che diventa il motore di questa «democrazia reale». Essa determina il campo del governo «possibile». Sui suoi confini viene eretto un recinto; la governabilità, di cui hai parlato, delinea il campo del recinto. Dentro ci stanno i «responsabili». La sinistra istituzionale e tanta parte del sindacato, nel concerto delle parti sociali, ci stanno, di fatto, dentro. Non i loro popoli, non parti di essi stessi, militanti, intellettuali, quadri dirigenti. Ma le loro rappresentanze istituzionali sì.

Il recinto. Questo ha capito il variegato movimento che nel mondo contesta questo esito, e che lo contesta nel metodo (antidemocratico) e nel merito (l’affermazione intollerabile delle diseguaglianze). È una costellazione complessa e articolata di protagonisti diversi; sono quelli che respirano ciò che chiamo «l’aria di rivolta». Di loro gli Indignati sono il segno dei tempi. Ma ci sono, a pari titolo, la Fiom, il movimento contro la Tav, quelli che hanno inventato e vinto i referendum sull’acqua bene comune e contro il nucleare, ma ci sono anche le nuove esperienze elettorali di Milano, Napoli, Cagliari e ce ne sono tante altre che nei territori, come su grandi questioni, lavorano insieme, cooperano, creano legami sociali, produzioni per l’uomo. Guardiamo la piazza di questo nuovo mondo e proviamo a capire se da lì può risorgere, riflettendo anche su se stessa, la sinistra, che oggi non c’è. «Fraternamente», Fausto 125%

 

 

Category: Libri e librerie, Politica

About Riccardo Terzi: Riccardo Terzi è segretario nazionale dello Spi Cgil. É nato a Milano l'8 novembre 1941.  Dal 1975 al 1981 ricopre l'incarico di segretario Provinciale dell'allora Partito Comunista Milanese. Esponente di spicco nella cultura della sinistra italiana collabora con diverse riviste, tra cui "Gli argomenti umani" ed è membro della Commissione nazionale per il progetto dei Ds. Il suo ingresso nel sindacato risale al 1983. Dal 1984 entra nella Cgil Lombardia per essere eletto poi segretario generale regionale. Incarico che ricoprirà dal 1988 al 1994. Successivamente e fino al 2003 viene chiamato dalla Cgil nazionale per diventare responsabile delle politiche istituzionali della confederazione. Torna in Lombardia per ricoprire l'incarico di segretario generale regionale Spi-Cgil, fino al 2006, quando, viene eletto segretario nazionale allo Spi-Cgil con delega all'ufficio Studi e ricerche.

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