Carlo Laurenti: Il profeta e il connaissseur. Postfazione al libro “Immagini Infrante” di Simon Leys

| 16 Gennaio 2016 | Comments (0)

 

Parallelamente al dibattito curato da Amina Crisma “Ritorno a Confucio” ricordiamo il libro di Simon Leys “Immagini infrante. Saggi sulla Cina” , Casa editrice Irradiazioni, Roma 2006

 

Scritti durante un lungo soggiorno a Hong Kong, alla vigilia e subito dopo la morte di Mao, questi testi fanno da corollario a Les habits neufs du Président Mao e a Ombres chinoises, due pamphlet dissacratori firmati con lo pseudonimo Simon Leys dal sinologo belga Pierre Rickmans. Benchè legati all’occasione in cui videro la luce, il tempo sembra aver loro giovato, la sapidità e il tono ne fanno infatti degli interventi atemporali, un po’ come gli strali che il più grande scrittore cinese del secolo scorso, Lu Xun, – qui invocato in apertura e chiusura del libro – firmava con vari pseudonimi sulle effimere riviste degli anni venti, costantemente soppresse dalla censura del Guomindang, ma che rispuntavano sempre, come erbe selvatiche.

I saggi o prose brevi che Lu Xun disseminava come fulminee azioni di guerriglia divennero un genere, lo zawen, ‘miscellanea’ illuminista, come si dice illuminista Nietzsche, di cui Lu Xun fu attento lettore come lo fu delle Operette morali di Leopardi, che leggeva nelle traduzioni giapponesi. In quelle schegge è tuttora racchiusa la coscienza più lucida che la Cina ebbe allora di se stessa, tanto che una diagnosi così irriguardosa dei mali cronici del proprio paese persino le guardie rosse non poterono far altro che adottarla come bandiera. Simon Leys, per la sua solitaria franchezza in quegli anni di oscurantismo ideologico fu il punto di autocoscienza più terso della sinologia occidentale. E per questo ostracizzato. Nemo profeta in patria.

Ma come può un connaisseur, uno storico dell’arte cinese, un erudito trasformarsi in profeta? Proprio la conoscenza approfondita consente di prevedere gli sviluppi futuri, l’autenticità di un vaso antico come l’intento strategico di uno slogan. Si pensi al famoso libretto rosso, che andava agitato nelle adunate e agli alzabandiera: un altro connaisseur, Kristofer Schipper, il sinologo olandese che ha innovato lo studio delle religioni cinesi, ha mostrato come anticamente, già prima dell’invenzione della stampa (che in Cina precede di molti secoli Gutenberg) e ancor più in seguito, i libri avessero valore di talismani, e andassero ‘agitatì, anche e soprattuto da chi non era in grado di leggerli, per allontanare le influenze nefaste, o portati sempre indosso, per protezione talismanica.

Alex Kerr, che in venti anni in Giappone esercitò molti mestieri, nel suo bel libro di ricordi racconta come l’autentico antiquario sia colui che ‘riconosce’ l’oggetto che ancora non ha nome (e dunque mercato), prima che sia, che diventi oggetto1. Oggi che schegge della rivoluzione culturale vanno all’asta come i calcinacci del muro di Berlino, questi scritti meritano di essere letti o riletti non già perchè ormai “modernariato”. Dopo Leys una miriade di situazioni rientrano nella visuale che egli ha colto allora per primo con il suo inconfondibile periscopio, scoprendo un filone. Ombres chinoises nel frastuono della propaganda monocorde aveva il suono di piatti rotti della verità. La lettura di Leys era indispensabile quanto e più della guida Nagel, vermiglia bibbia che conteneva l’ubicazione esatta di templi altrimenti invisibili, scomparsi o trasformati in caserme o grandi magazzini. Ripubblicati in

Francia integralmente, in un solo tomo, gli scritti cinesi di Leys costituiscono un braccio del sestante necessario a capire l’accellerazione del tempo storico in Cina.

Rispetto ai pochi scrittori che già avevano preso di mira gli usi e costumi degli stranieri all’estero, Leys ha un vantaggio che lo avvicina al grande scrittore olandese Multatuli2 o al suo amato George Orwell3. Infatti, oltre che scrittore, Leys è un conoscitore profondo della lingua e della cultura cinese come Multatuli lo era – per la sua epoca – di quella di Giava o Orwell della realtà birmana. E come Dekker/Multatuli era funzionario della Compagnia Olandese delle Indie, e Blair/Orwell dell’Impero Britannico, Ryckmans/Leys in Cina si trovava per lavoro. La loro ottica non è dunque quella del viaggiatore, le loro non sono impressioni4. Il loro sguardo perfora il visibile, giunge persino a delineare una fenomenologia dell’interfaccia che si instaura tra osservatore e osservato, quella rete di complicità e mistificazione cui concorre l’entusiasmo della controparte e di cui si è ancora ben lontani dall’aver chiarito il meccanismo. In una postilla a Ombre cinesi Leys poteva scrivere, senza falsa modestia: “credo che le pagine che precedono avranno una sorta di validità permanente5”. Nella “Pinacoteca dei Falsi Sembianti”, degli abbagli reciproci che fin dall’antichità hanno riverberato tra Cina e Europa, gli scritti di Leys costituiranno un tentativo energico di manomissione del dispositivo automatico di trompe-l’oeil.

Infatti, se il settecento francese aveva idealizzato la Cina governata dai filosofi, attingendo alle descrizioni di Matteo Ricci e dei missionari, nell’ottocento crebbe invece la spocchia eurocentrica. Fu solo alla fine del secolo che le arti europee riscopriranno l’Asia e in un crescendo di proiezioni e di subitanee disaffezioni ci si si infatuerà del Giappone di Lafcadio Hearn e dell’India di Tagore, la Cina apparirà nella chiave lirica di Claudel e di Saint-John Perse e via via, passando per la Shanghai in rivolta di Malraux6 si arriverà fino ai resoconti fallaci dei pellegrini nel “socialismo realizzato” stigmatizzati da Enzensberger7.

Proprio all’epoca in cui Immagini infrante fu scritto, non appena la “Banda dei quattro” cadde, la rivista Tel Quel che aveva dedicato due memorabili numeri monografici alla Cina, inalberò repentinamente in copertina la foto dello skyline di New York8, voltando teatralmente gabbana. Contro questo tipo di esotismo modaiolo Leys scaglia persino uno strale al maître à penser Roland Barthes.

La vittima dell’irresistibile pamphlet L’oie et sa farce è, invece, Michelle Loi, che in Francia passava allora come unica esegeta autorizzata del Lu Xun-pensiero. Una sicumera che il samurai errante Leys, sempre pronto a “raddrizzare i nomi e le cose”, non poteva lasciare impunita. L’aforista vuole dire molte cose assieme e alla fine le dice tutte in una sola fucilata. A volte esplode in una boutade, oppure serba il suo potenziale nella spoletta di un titolo. Immagini infrante è una citazione dal Waste land di T.E.Eliot, forse il poema che ha influenzato più poeti e scrittori. Solo otto versi oltre troviamo Una manciata di polvere, il titolo del capolavoro di Evelyn Waugh, un autore che con Leys ha molti tratti in comune, e non è escluso che si tratti di un omaggio indiretto. Waugh fu anche il modello dell’autore cinese preferito da Leys, Qian Zhongshu, l’autore di Wei cheng (La fortezza assediata), satira graffiante del matrimonio, degli intellettuali, e dei matrimoni tra intellettuali.

Immagini infrante sono gli idola venuti meno dopo la sbornia maoista, ma sono anche le vestigia sfigurate della cultura cinese, le statue di Buddha decapitate dai vandali durante la rivoluzione culturale e sono infine quel volto nascosto, irriconoscibile, che il connaisseur ha il compito di evocare, ricomporre. Leys può farsi iconoclasta di false immagini e frantumare le illusioni di una generazione perchè riconosce sotto la maschera che ricopre gli sfregi il vero sembiante. Il pudore impone però una distanza e questa si ottiene grazie allo schermo dell’ironia, quella che Goethe definiva “la passione che si consuma nella distanza”.

Coesistono in Leys le qualità di scrittori francesi controcorrente come Segalen e Farrère, la claritas settecentesca del dettato e l’insofferenza per i facili entusiasmi, un’inclinazione all’understatement che lo avvicina a Waugh e a Orwell9, e proprio dall’essere in mezzo a questi due modi spesso antagonisti10 egli trae la sua inconfondibile cifra, proprio dall’essere egli belga. Come per un Cioran o un Canetti, l’angolatura peculiare che certi autori hanno nel vedere le cose scaturisce anche dal loro essere dislocati fuori da un centro: dai margini si percepisce il mondo in modo diverso e, a volte, rivelatore.

Anche Hong Kong era allora un punto d’osservazione privilegiato, una sorta di “orecchio di Dioniso”, da cui ascoltare i bisbigli dell’ “altra”Cina. In questa terra franca si venivano a rifugiare a nuoto i fuggiaschi dalla Cina di cui nella prima parte di questo libro Leys raccoglie le testimonianze. Alcuni di questi avevano dato vita in quegli anni a una singolare rivista che ogni anno cambiava titolo: Minus 8, Minus 7 etc. in un conto alla rovescia fino al fatidico 1984 del romanzo di Orwell. Mi chiedo quanto Leys fosse parte di queste arguzie cifrate. Sempre quell’anno clinamen 1976 andava a ruba nelle librerie di Hong Kong una plaquette degli scritti di Jiang Qing, la vedova di Mao, rilegata con una sardonica copertina in finto coccodrillo viola.

La lettura “orwelliana” della Cina maoista aveva un precursore, il sinologo ungherese Etienne Balasz e, in pieno ’68, la raccolta postuma dei suoi scritti, scelti da René Viénet, con il tiolo La burocrazia celeste11, fu una delle prime “pubblic/azioni” che appariranno poi a ritmo serrato presso vari editori francesi – e a Hong kong in cinese – tutte sotto la sigla complessiva di “Bibliothèque asiatique”. Quasi tutti i libri di Ryckmans/Leys apparvero sotto quest’egida. Balasz aveva individuato nella burocrazia imperiale cinese una sorta di prefigurazione del futuro planetario. Anche il grande studioso di Machiavelli, Claude Lefort, l’autore de L’internationale burocratique12 era della stessa idea e non è escluso che fosse tra le fonti indirette di quel gruppo dinamico che ebbe in Leys la sua punta di diamante.

La fine dell’era di Mao e l’inizio dell’epoca di Deng Xiaoping è riassunta e coincide con l’adozione della cravatta all’occidentale da parte dei membri del Comitato Centrale. La Cina in giacca e cravatta confonderà l’Europa, sbiadendo fino a diventare invisibile.
Tra le sculture moderne in mostra all’entrata del Museo d’arte contemporanea di Shenzhen, città ‘replicante’ contigua a Hong Kong – che quando fu scritto questo libro neppure esisteva e oggi ha oltre quattro milioni di abitanti – figura un’immensa giacca di Mao, vuota, acefala. Titolo: “Mantello”. Un mantello che ha coperto tutto. Quel mantello era un mantello vuoto. Ora è in una teca di vetro, spillato come un coleottero raro, munito solo di questa sobria etichetta. È forse questo “l’abito nuovo del Presidente Mao”? Ma per un’esegesi di questa magrittiana allegoria rimandiamo per ora il lettore a quella “filosofia delle vesti” di cui Thomas Carlyle ha tracciato la sagoma nel suo Sartor Resartus13.

 

Category: Libri e librerie, Osservatorio Cina

About Carlo Laurenti: Carlo Laurenti, sinologo, saggista e cineasta,è nato a Roma nel 1954 e ha studiato a Roma, in Cina e in Francia. Ha tradotto Zhuangzi (Chuang Tzu) e I detti di Confucio (Adelphi), La tentazione d’esistere di Cioran, e per vari editori opere di Maspero, Spence, Leys e Schipper. Ha concepito e redatto il libro fotografico La muda del drago sulla Cina (Poligrafico dello Stato). Ha curato la pubblicazione di volumi bilingui italiano/cinese su Giacomo Leopardi e Giordano Bruno. E’ autore, con Andrea Cavazzuti, di una serie di documentari sulla Cina, Il museo più veloce del mondo (Cult/Sky). Ha girato i documentari Il riflesso dipinto e Variazioni sul tema sull’opera del pittore Ettore de Conciliis, Glimpses of Cosmopolitan Tagore, sui viaggi del poeta bengalese in Asia, presentati in varie università e istituti di cultura italiani nel mondo e in festival cinematografici (Jakarta, Teheran, Honolulu, Wellington, Cambridge, Calcutta, Bruxelles, Pechino). In via di pubblicazione Le venticinque sentenze di Matteo Ricci per Quodlibet mentre è da poco uscito Le cose come sono. Iniziazione al Buddhismo comune di Hervè Clerc per Adhelphi. Sta lavorando a un nuovo documentario incentrato sull’opera di de Concilliis, il Memoriale di Portella della Ginestra, primo esempio di land art in Italia. Fa parte dei docenti della Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa di Rimini che ha il patrocinio dell'Università degli Studi di Urbino.

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