Vittorio Rieser: Più democrazia=più produttività? Una risposta a Gianni Marchetto

| 21 Febbraio 2013 | Comments (1)

 

Da tempo l’elaborazione di Gianni Marchetto ruota attorno al rapporto tra democrazia e produttività, e la sua impostazione viene sintetizzata nelle formula +democrazia=+produttività. Ne abbiamo discusso più volte, e qui cerco di sistematizzare le mie obiezioni.

 

1. Più democrazia = più produttività? considerazioni introduttive

La formula +democrazia=+produttività compare spesso, nei testi di Marchetto, collegata a una citazione di Norbert Wiener, secondo il quale, nell’industria capitalistica, l’operaio utilizza un milionesimo delle sue capacità cerebrali. C’è indubbiamente un nesso tra le due cose, e a prima vista sembra quasi una questione di buon senso: certo, se si utilizzassero di più le capacità intellettuali dei lavoratori (e “più democrazia” significa anche questo), la produttività aumenterebbe. In questi termini, l’affermazione potrebbe coincidere con la definizione del comunismo, ed essere una sorta di “utopia regolativa”. (Naturalmente, ci sarebbe poi da vedere cosa si intende per “produttività” in una società comunista).

Ma l’impostazione che dà Marchetto al problema non è questa: egli affronta il problema non in termini di utopia regolativa, ma di linea strategica, riferita alla società attuale. E infatti si riferisce a “produttività” nella sua accezione capitalistica, e – spesso anche se non sempre – nella sua specifica dimensione aziendale. Insomma, +democrazia=+produttività è una linea strategica che viene proposta alla lotta di classe (anzitutto, ma non solo, alla lotta sindacale) in questa società capitalistica.

Questa impostazione, a parer mio, non tiene conto di due elementi essenziali.

Il primo, più immediato e – se vogliamo – “psicologico”, è il seguente: non è detto che quel quid in più di utilizzo delle capacità cerebrali il lavoratore lo voglia dedicare ad aumentare la produttività del suo lavoro, tanto più se questo – come spesso accade – è un lavoro di merda. Lo stesso Marchetto, del resto, analizza spesso le “astuzie” operaie per rendere meno vincolato il lavoro e meno soffocante il suo ritmo: un “di più” di capacità intellettuali usate, non per accrescere la produttività del lavoro, ma per liberarsi di qualche suo aspetto particolarmente oppressivo.

Ma questo rinvia al secondo aspetto, che è quello cruciale: il problema della divisione sociale del lavoro.

Su questo, magari, sarebbe interessante andare a rileggere un vecchio articolo di Bianca Beccalli e Michele Salvati (quando questi era di sinistra), comparso su Quaderni Piacentini negli anni settanta. La divisione sociale del lavoro (ce lo insegna Marx – ma prima di lui anche altri…) non è un “dato naturale”, ma il prodotto (e la caratteristica distintiva) di specifiche formazioni economico-sociali. L’attuale divisione sociale del lavoro è dunque, ovviamente, una divisione sociale del lavoro capitalistica. E questo spiega molte sue caratteristiche immediatamente negative per il lavoratore: nel determinare i contenuti del lavoro, e i modi in cui questo è suddiviso, entra in gioco il sistema di comando capitalistico e il tipo di controllo sul lavoro finalizzato ad estrarne plusvalore. (Anche per questo, i margini di libertà o gli “spazi intellettuali” che il lavoratore eventualmente riesce a conquistarsi o a costruirsi vengono, in primo luogo, utilizzati per attenuare l’oppressività di questo sistema di comando/controllo).

Il problema è che questo tipo di divisione sociale del lavoro non è affatto facile cambiarlo. Lo dimostrano, tra l’altro, le esperienze storiche delle società socialiste. Quella sovietica, fin dai tempi di Lenin, ha assunto come suoi cardini alcuni elementi-chiave della divisione capitalistica del lavoro (si pensi al taylorismo). Quella cinese, invece, ha tentato di scardinare questo tipo di divisione sociale del lavoro: ma questo tentativo è stato sconfitto. Proprio perché quello di Mao Zedong è stato il più importante tentativo di superare la divisione capitalistica del lavoro, vale la pena di esaminarne più da vicino il percorso e gli esiti.

 

2.  l’esperienza maoista in Cina

Quando Mao insiste (e lo fa costantemente) sulla creatività delle masse, sulla necessità di svilupparla e liberarla, si muove esattamente sulla “linea Wiener-Marchetto”. Per lui, la transizione dal socialismo al comunismo consiste appunto nella progressiva liberazione e pieno dispiegamento dell’intelligenza dei lavoratori. Mao è anche lui convinto che questo sia il fattore più potente di aumento della produttività.

(Sarà bene chiarire qui che con “masse” Mao non si riferisce a una indistinta “entità collettiva”; si riferisce all’insieme – molto differenziato, e di cui ha dato analisi puntuali – di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, lavorano sotto comando, che sia quello feudale, o capitalista/imperialista, ma anche, in una fase ulteriore, “comando socialista”).

Ma andiamo con ordine, vedendo le varie fasi attraverso cui è passata questa impostazione maoista.

Al momento della presa del potere, nel 1949, Mao adotta provvisoriamente il modello sovietico di socialismo. Questo per una serie di ragioni: anzitutto, è prioritaria la ricostruzione economica e statuale-unitaria della Cina; in secondo luogo, un modello diverso è tutto da “inventare” e costruire; infine, il livello di maturità delle masse richiede un lungo processo di formazione e sviluppo.

Quindi, pensa a un processo di transizione abbastanza lungo: ma, fin dall’inizio, con insistenza quasi ossessiva (non solo in istanze più ristrette – i cui materiali sono poi stati diffusi durante la rivoluzione culturale – ma in momenti “ufficiali” e pubblici) Mao insiste costantemente sulle differenze rispetto all’esperienza sovietica, sulla necessità di non ripeterne gli errori. (Si veda, ad esempio, il discorso sui “dieci grandi rapporti”).

Mao però si accorge ben presto che il consolidamento di questo modello di socialismo rischia di costituire un ostacolo insormontabile rispetto a un processo di liberazione in senso comunista. Di qui hanno inizio una serie di tentativi di accelerazione del processo. Questi cominciano già nei primi anni della Repubblica Popolare: il movimento per lo sviluppo della cooperazione agricola è del 1954. (L’eliminazione del gruppo filo-sovietico di Kao Kang, e la stessa campagna dei cento fiori sono altri aspetti del tentativo di evitare il consolidamento di un modello burocratico di socialismo).

A margine, possiamo notare che, fino alla presa del potere, la posizione di Mao si collocava, nella “geografia ufficiale (stalinista)” del movimento comunista internazionale, “a destra”: era contraria al tentativo di rivoluzione immediata nelle grandi città operaie, e proponeva un lungo percorso rivoluzionario partendo dalle “periferie contadine”. Dopo la presa del potere, l’urgenza di impedire il consolidamento di un socialismo burocratico porterà Mao fino a posizioni quasi “ultra-sinistre”, di accelerazione un po’ volontaristica del processo rivoluzionario.

Ma il passo decisivo avviene, a partire dal 1958, col grande balzo in avanti. Questo si configura, nel disegno maoista, come un primo momento di “scatenamento” dell’iniziativa e creatività delle masse, che dovrebbe portare anche a un grande aumento della produzione e della produttività. (La traduzione in termini quantitativi di questo obiettivo, i tassi di crescita “da piano quinquennale sovietico”, gli slogan tipo “superare l’Inghilterra” erano il modo in cui la burocrazia traduceva, in “linguaggio sovietico”, questi obiettivi – ma questo non deve far dimenticare che sviluppo dell’iniziativa di massa e aumento della produzione erano inscindibili nella stessa impostazione di Mao).

Vale la pena di ricordare brevemente alcune componenti di questo “grande balzo”, in cui è evidente il nesso tra l’aspetto politico e quello produttivo. Le comuni agricole, con lo sviluppo “dal basso” di piccole fabbriche, introducono elementi di meccanizzazione dell’agricoltura, ma anche di più generale socializzazione industriale dei contadini; con lo sviluppo di mense popolari gratuite introducono embrionali “elementi di comunismo”. In città, le piccole fabbriche di quartiere vedono un ruolo propulsivo delle donne, e insieme sviluppano produzioni trascurate dalle grandi fabbriche. Con ciò, la divisione sociale del lavoro viene “aggredita” in due suoi aspetti fondamentali: la divisione città-campagna e quella tra uomini e donne. Ma viene “aggredita” anche la divisione del lavoro nella fabbrica. La carta dell’acciaieria di Anshan (in esplicita contrapposizione alla carta dell’acciaieria sovietica di Magnitogorsk) si basa su un’ipotesi di comando collettivo di manager, tecnici e operai, in contrapposizione al modello sovietico di comando unico e di scala gerarchica. (Essa, tra l’altro, ha dato luogo a un ricco processo di “innovazioni incrementali” prodotte dai lavoratori). Infine, viene anche “aggredita” la divisione tra lavoro manuale e intellettuale: gli intellettuali mandati a lavorare nelle campagne, nel grande balzo come nella rivoluzione culturale, sono – se vogliamo – una “semplificazione simbolica” di questo tema, e però proprio su questo punto si verificherà uno scontro sociale violento, su cui si coagulerà (più tardi) un’opposizione alla linea di Mao. In realtà, quest’accelerazione si è alla fine – come sappiamo – risolta in un gran casino, con pesanti conseguenze economiche, aggravate da calamità naturali e dal ritiro degli aiuti sovietici. Certo, questo era dovuto anche al fatto che le masse erano in parte immature per realizzare questi compiti. Ma qui ci interessa vedere gli aspetti di lotta di classe che sono venuti alla luce in questa tumultuosa esperienza.

La lotta per trasformare la divisione sociale del lavoro si scontra con la burocrazia che, nella società socialista, ne è il controllore/regolatore. Nel grande balzo in avanti, questo scontro è complesso ed articolato. Da un lato è scontro con quella parte di burocrazia che si oppone e resiste, avendo chiaro che è in gioco parte del suo potere.

Ma è anche scontro con quella che potremmo chiamare “burocrazia zelante”, che, obbediente alle direttive, le applica in modo – appunto – tipicamente burocratico: gonfiando i dati sui risultati produttivi, o sviluppando politiche pesanti di requisizione rispetto ai prodotti dei contadini. Nei discorsi di Mao alle varie conferenze di partito che si succedono convulsamente durante il grande balzo in avanti, emerge drammaticamente il suo tentativo di far fronte alle contraddizioni: di frenare accelerazioni eccessive ed estremistiche, di difendere i contadini dalle requisizioni (fino a dire “io sto con i contadini che nascondono parte dei loro prodotti”), o anche solo di venire a capo di dati produttivi contraddittori ed oscillanti che gli vengono forniti. Alla fine, comunque, il mix esplosivo tra resistenze ed eccessi burocratici, combinati con l’immaturità delle masse (che a sua volta produce sia resistenze che eccessi) porta alla sconfitta di questo esperimento. Alla sconfitta del grande balzo segue, da parte maoista, una fase di riflessione-preparazione, che ruota attorno ai temi, alle carenze e ai conflitti emersi in quella fase.

La campagna di educazione socialista mira ad accelerare la formazione politica delle masse. Ma, soprattutto, si lavora proprio attorno al tema che Marchetto chiama “democrazia/produttività”. Significativa in proposito è la campagna “imparare da Daqing e da Dazhai”, che avrà il suo massimo sviluppo nella rivoluzione culturale: Daqing è un sito di estrazione petrolifera, Dazhai una comune agricola, che vengono portati ad esempio per la correlazione tra direzione “presa in mano dalle masse” e aumento dell’efficienza/produttività. Lo stesso dicasi, nel campo dell’industria manifatturiera, per l’indicazione di Anshan come esempio da seguire.

La campagna per la meccanizzazione dell’agricoltura è altrettanto significativa: per Mao, iniziativa delle masse e modernizzazione della Cina sono strettamente collegate. Un’altra “nota a margine”. Il tema della modernizzazione viene abitualmente collegato alla linea di Deng Xiaoping, e in effetti ne è un elemento centrale. Ma era stato anche l’elemento centrale della relazione di Zhou Enlai al congresso del 1973 – l’ultimo a cui Zhou e Mao parteciparono – che non fu certo un congresso di vittoria della “destra” (fu anzi quello in cui emerse la “banda dei quattro”); e non si può pensare che tale scelta non avesse l’avallo di Mao. La differenza tra le due linee non sta dunque nella centralità della modernizzazione della Cina, ma nelle strategie e nella prospettiva in cui essa viene concepita.

Ma questi anni di transizione tra grande balzo e rivoluzione culturale sono anche gli anni in cui lo scontro su questi temi assume progressivamente con chiarezza la fisionomia di scontro politico nel partito e non solo di lotta contro “resistenze burocratiche”. Emergono opposizioni aperte alla linea di Mao, e, se al momento vengono sconfitte (Peng Teh-huai), lo scontro è solo rinviato.

La rivoluzione culturale è quindi fin dall’inizio uno scontro politico diretto, per il potere (anche se l’aspetto culturale non è secondario, perché è vista come grande crescita di una coscienza politica di massa). Ma questo nuovo momento della lotta di classe non è più, come in passato, guidato (almeno formalmente in modo unitario) dal partito: è un scontro nel partito e, per certi aspetti, contro il partito. E’, per così dire, una “scorciatoia disperata”, un’accelerazione estrema che si cerca di imprimere al processo rivoluzionario, nello scontro tra due linee tra le quali non può più esserci un “compromesso unitario sul terreno del socialismo”: la linea che dal socialismo porta al comunismo attraverso la liberazione della creatività delle masse e quella che dal socialismo porta al capitalismo (sia pure in una “versione originale” – come quella a cui assistiamo oggi in Cina). Ma lo scontro avviene prima che esistano le condizioni oggettive per la realizzazione della prima di queste due alternative.

A questo punto, la parola d’ordine “ribellarsi è giusto” non è più diretta contro nemici specifici, individuati da un partito che organizza e guida la ribellione, ma, da un lato, è esplicitamente diretta contro il partito (“bombardate il quartier generale!”), dall’altro, di fatto, la sua realizzazione è “lasciata alle masse”, o agli embrioni di direzione e di organizzazione (spesso tra loro divisi e in conflitto) che emergono nel corso di questo processo. E le masse si ribellano: segno che l’analisi di partenza delle contraddizioni nella società socialista cinese e della loro acutizzazione era corretta. Ma si ribellano un po’ su tutto: dalla ribellione contro burocrati-despoti locali alla regolazione di conti tra contadini o famiglie. E spesso i ribelli accusano altri ribelli di essere in realtà partigiani della linea capitalistica. E così via – non è il caso di entrare qui nei dettagli. Vale però la pena di notare che il tema “democrazia/produttività” non è abbandonato. Non solo resta un elemento-chiave degli aspetti più propriamente culturali della rivoluzione, ma è assunto dalle avanguardie più coscienti come la questione centrale, e si realizzano attorno ad esso esperienze importanti. L’esempio più noto è quello delle fabbriche di Shanghai, dove gli operai assumono un ruolo di direzione per molti anni, anche quando la fase acuta della rivoluzione culturale è terminata da tempo – e raggiungono importanti risultati produttivi.

Ma proprio questa esperienza è significativa anche per le ragioni della sua sconfitta. Dopo aver resistito vittoriosamente a tentativi di normalizzazione nella fase di relativo riflusso della rivoluzione culturale, essa termina – anche prima dell’avvento al potere di Deng Xiaoping – per una sorta di “esaurimento interno”: gli operai di avanguardia che sono alla testa delle fabbriche non ce la fanno più a sostenere sia il lavoro operaio sia il lavoro di direzione… e qui torniamo alla questione di quanto sia difficile cambiare la divisione sociale del lavoro formatasi nell’epoca capitalistica.

La rivoluzione culturale viene sconfitta assai presto, quando ancora essa “ufficialmente” prosegue, e quando Mao è ancora vivo e potente – e Mao del resto ne è perfettamente cosciente. Sapeva, in certo qual modo, di essersi trovato di fronte a un dilemma insolubile: da un lato, l’accelerazione estrema del processo rivoluzionario era inevitabilmente destinata alla sconfitta, dall’altro essa era assolutamente necessaria se si voleva impedire il definitivo consolidamento di un socialismo burocratico fondato sul modello capitalistico di divisione sociale del lavoro.

Ma questa esperienza, e il suo esito, dimostrano che è illusorio sperare che la dittatura del proletariato, come “forma politica” della fase socialista, sia uno strumento per la transizione al comunismo. Essa infatti, in quanto nei fatti è una dittatura del partito, irrigidisce la divisione sociale del lavoro esistente rafforzando quella burocrazia che ne è il custode/controllore. Mao in fondo l’aveva intuito, col suo spirito anarchico. Ma, ben prima, l’aveva capito Max Weber, nella sua preveggente analisi – prima di morire nel 1922 – degli esiti che avrebbe avuto la rivoluzione russa. Ma qui rischio di entrare in un altro discorso… Mi limito ad osservare che la burocrazia vittoriosa del Partito Comunista Cinese, dopo aver restaurato la buona, vecchia divisione sociale del lavoro, ha pensato che il meccanismo più efficace per regolarla e riprodurla è ancora il mercato. Così, nella versione cinese del capitalismo, si realizza una forma peculiare di divisione del lavoro: tra il mercato, che regola la divisione sociale del lavoro, e la burocrazia(il partito), che garantisce il controllo politico.

Oggi ci rendiamo conto che, quando le guardie rosse dicevano che Deng e compagni avevano imboccato la via capitalistica, non era una forzatura propagandistica ma era un’analisi ben fondata dell’esito che avrebbe avuto la “transizione” del socialismo cinese.

 

3. Democrazia e produttività nell’esperienza sindacale italiana

La lunga digressione sulla Cina non significa che con questo voglia liquidare il discorso di Marchetto (“se non c’è riuscito Mao, come possiamo riuscirci noi?”). Quindi, dopo la “digressione sulla transizione”, torniamo alla realtà capitalistica e al terreno specifico su cui si muove il discorso di Marchetto: che si riferisce all’Italia, al sindacato, alla produttività aziendale (anche se, come vedremo, il suo discorso sull’orario “20+8+8” investe aspetti più generali della divisione sociale del lavoro).

Il sindacato italiano degli anni ’70 è quello che ha toccato più da vicino il nodo del rapporto tra democrazia e produttività: sia di fatto, con la sua azione rivendicativa e contrattuale, sia nella sua elaborazione teorica, con quella “strategia del controllo” che ha trovato la sua elaborazione più ampia in Bruno Trentin. In questa elaborazione, il controllo esercitato dai lavoratori e dal sindacato, partendo dal controllo della prestazione, doveva estendersi via via alle decisioni strategiche aziendali e – attraverso queste – al modello di sviluppo economico.

In una prima fase, i “margini di democrazia” conquistati dai lavoratori in fabbrica attraverso l’organizzazione dei delegati sono stati (giustamente) utilizzati contro le condizioni oppressive che il modello italiano di sviluppo aveva creato in fabbrica: in particolare, intensità del lavoro e nocività ambientale. Era quindi inevitabile che questo primo livello di conquiste democratiche avesse conseguenze negative sulla produttività. Alcuni “riferimenti storici” possono essere illuminanti.

La riduzione d’orario a 44-45 ore, ottenuta nei contratti del 1963, fu quasi immediatamente “riassorbita” dagli aumenti di produttività. Negli anni della “recessione manovrata” 1964-65, gli investimenti crollarono, ma – non appena la domanda estera trainò la produzione – la produttività riprese ad aumentare malgrado l’assenza di investimenti: segno che gli aumenti di produttività venivano ottenuti esclusivamente “spremendo” i lavoratori. Quando invece si cominciò ad attuate l’ulteriore riduzione di orario (a 40 ore) prevista nel contratto del 1969, questa si tradusse, in prima battuta almeno, in una riduzione di produzione: segno che il ricupero immediato ottenuto attraverso la torchiatura dei lavoratori non era più possibile.

In una seconda fase, la “strategia del controllo” investe aspetti più ampi dell’organizzazione del lavoro e dell’impresa. I diritti di informazione dovrebbero fornire al sindacato strumenti per intervenire sulle strategie aziendali, sia “interne” (investimenti tecnologici) sia “esterne” (quali produzioni vengono decentrate; localizzazioni industriali). L’intervento sull’organizzazione del lavoro non mira più soltanto a ridurre gravosità e nocività, ma punta a forme di rotazione o arricchimenti delle mansioni, a sperimentazioni di lavoro di gruppo, ecc. Quindi, si cominciano ad affrontare aspetti importanti della divisione sociale del lavoro; e la questione della produttività entra nelle strategie del sindacato, nel momento in cui queste intendono intervenire sulle strategie produttive aziendali. Come sappiamo, questa seconda, e più ambiziosa, tappa della “strategia del controllo” resterà largamente inattuata, e la sua sconfitta sarà una componente della più generale sconfitta sindacale degli anni

Proviamo a vedere alcuni fattori che hanno determinato questo esito, rispettivamente dal lato padronale, da quello delle organizzazioni sindacali e da quello dei lavoratori. Il padronato italiano (salvo parziali o transitorie eccezioni) non è disponibile a un compromesso negoziato con la “strategia del controllo”, ma “cerca la rivincita”. Dopo aver già dovuto rinunciare a uno dei “sovrappiù di competitività”, quello legato ai bassi salari, non intende rinunciare all’altro, cioè al controllo autoritario su organizzazione e ritmi di lavoro (quello che gli permette aumenti di produttività anche senza investimenti).

Ma ostacoli a un compromesso negoziato nascevano anche da parte sindacale. Era diffuso il timore di ogni forma di istituzionalizzazione – che nasceva da un curioso intreccio di ideologie di matrice cislina e dell’estrema sinistra, e che portava a diffidare persino delle forme di riconoscimento formale dei consigli dei delegati. Chi parlava di possibili forme di cogestione era considerato un “destro”. Su queste cose vi fu un ripensamento tardivo, quando già i rapporti di forze stavano mutando (il “piano di impresa” di Trentin – un esempio di ciò che Marchetto chiama “alzare l’asticella quando si è fallito il salto”), e un’elaborazione più compiuta quando la sconfitta era ormai consumata (la “codeterminazione” di Sabattini).

Vale la pena di notare come tali posizioni ebbero anche conseguenze negative all’interno del sindacato: accentuando la divaricazione tra chi voleva realizzare il “nuovo modello di sviluppo” solo per via contrattuale e chi lo delegava a un “governo amico”. La conferenza dell’Eur segnò la vittoria della seconda posizione, in cui però il riconoscimento dell’indispensabilità del livello politico-istituzionale si collegava a una corrispettiva riduzione/limitazione dell’autonomia contrattuale del sindacato, e in particolare della sua iniziativa a livello aziendale.

Ma anche dal lato dei lavoratori non si realizzò quel sostegno attivo e generalizzato che aveva caratterizzato la “prima fase”. I mutamenti proposti nell’organizzazione del lavoro erano spesso troppo limitati per segnare un effettivo miglioramento nel modo di lavorare: tutt’al più venivano accettati come “pretesto” per il passaggio di livello. Vi sono stati bensì casi di esperimenti riusciti, che hanno determinato insieme un lavoro più soddisfacente e un aumento di produttività e/o di qualità del prodotto: ma sono state eccezioni. In quanto ai “diritti di informazione”, erano troppo lontani dalla prestazione lavorativa per essere “sentiti”, e solo pochi delegati erano in grado di gestirli. (Vale la pena di notare che dai tabelloni su tempi/organici/produzione di squadra si saltò direttamente alle informazioni sulla strategia aziendale, senza completare l’apparato di informazioni sulla prestazione – ad es. con i “tabelloni di rischio” spesso citati da Marchetto).

Insomma, una maggiore passività dei lavoratori. Che, soprattutto nei nuovi assunti, si accompagnava a un “uso opportunistico” dei margini di libertà conquistati nella fase precedente – con effetti negativi sulla produttività.

L’effetto combinato di questi vari fattori sulla produttività fu complessivamente negativo: le imprese italiane non sapevano/volevano adattare il loro funzionamento al nuovo tipo di rapporti sindacali che si era creato in fabbrica. Questo dato incise pesantemente anche sul “senso comune” di gran parte dei lavoratori, preparando così le condizioni per la sconfitta sindacale.

In un’inchiesta tra i lavoratori Fiat, promossa dalla Cgil torinese a metà degli anni ’80, compaiono significativamente – spesso nella medesima intervista – due affermazioni contrastanti: da un lato si dice che alla Fiat “così non si poteva andare avanti”, “si era tirato troppo la corda”; dall’altro – alla domanda su qual era il periodo in cui i lavoratori Fiat stavano meglio – si indicano gli anni ’70. Con la sconfitta degli anni ’80, la questione della produttività ritorna pienamente nelle mani dei padroni – e per i padroni italiani, come sappiamo, democrazia e produttività sono termini antitetici. Ma, come vedremo, la storia non finisce qui.

All’inizio degli anni ’80, il padronato pensa di poter semplicemente ristabilire lo status quo ante. Le componenti più autoritarie, come la Fiat, pensano che – combinato con le nuove forme di automazione flessibile – ciò possa condurre alla quasi totale eliminazione del lavoro vivo (la unmanned factory) o comunque a un’ulteriore dequalificazione di gran parte di esso (ai progettisti del Comau veniva data l’indicazione di progettare impianti “a prova di scimmia”).

Ma le cose vanno altrimenti. Il fordismo-taylorismo che si voleva ristabilire è ormai in crisi: non solo per le nuove condizioni della concorrenza (che fanno saltare gli schemi di produzione in grandi serie uniformi) ma per gli stessi requisiti dell’automazione, che – se riduce il fabbisogno di lavoro in termini quantitativi – ne accresce in termini nuovi i requisiti qualitativi. Insomma, il “lavoro vivo” si vendica, proprio quando sembrava definitivamente sconfitto… E non si tratta solo di lavoro vivo, ma di lavoro intelligente; si tratta – per usare i termini di Wiener/Marchetto – di utilizzare un tantino di più le capacità cerebrali dell’operaio. I modelli giapponesi e i loro derivati sono appunto caratterizzati dal tentativo di ricupero dell’intelligenza operaia, dalla richiesta di un ruolo attivo del lavoratore, condizione indispensabile per lo sviluppo della produttività, della qualità e – soprattutto – della flessibilità.

Ma, in questi modelli, la democrazia non è prevista – se non, talvolta, nelle forme indirette e diluite della “partecipazione”.

Ed è su questo terreno che i sindacati tentano per un po’ di inserirsi. La Cgil lo traduce nell’ipotesi di codeterminazione – che, questa sì, contiene elementi di democrazia, ma rimane un’ipotesi “sulla carta”, perché non ci sono i rapporti di forza per realizzarla. Di fatto, quello che prevale è la “versione cislina” della partecipazione, che dà luogo al proliferare di commissioni bilaterali quasi sempre inconcludenti. Non siamo ancora alla partecipazione “alla Marchionne”, in cui questo termine viene applicato a un sistema di regole spudoratamente autoritario; ma a una partecipazione che non incide minimamente sulle scelte aziendali.

L’assenza o debolezza di uno “stimolo conflittuale” autonomo del sindacato contribuirà, in molti casi, a un “ripiegamento” di questi modelli organizzativi innovativi verso modi di funzionamento molto più tradizionali. La parabola dello stabilimento Fiat di Melfi (progettato e nato come “fabbrica integrata” e poi ripiegato verso il “vecchio stile Fiat”) ne è un esempio significativo.

Oggi, il tema democrazia/produttività sembra assai lontano dalla situazione sindacale italiana, per molteplici ragioni “oggettive”, legate al processo di globalizzazione e, in termini più immediati e pressanti, alla crisi economica. I problemi prioritari dei lavoratori sono altri: l’occupazione (nel duplice senso di difesa del posto di lavoro e di lotta contro la precarietà) e il salario (la quota dei salari sul GNP è stata erosa in tutti i paesi, ma in modo particolare in Italia).

Dal lato dei sindacati, vi è anzitutto la divisione sindacale, che di per sé preclude ogni tentativo di realizzare forme di rapporto tra democrazia e produttività. Più specificamente, nella politica della CISL la partecipazione ha perso ogni connotato democratico, ma – come mostrano gli accordi Fiat – è esplicitamente subordinata alle decisioni unilaterali del padrone. La CGIL, che in linea di principio non ha abbandonato il tema, si trova di fronte al problema preliminare di ristabilire le condizioni di diritto necessarie per affrontarlo: le regole della rappresentanza e una nuova regolamentazione dei rapporti di lavoro.

Quanto ai padroni, c’è anzitutto il fatto che, a fronte di rapporti di forza così sfavorevoli alla classe operaia, non si può certo pensare che essi si pongano “spontaneamente” il tema della democrazia. Ma c’è anche il fatto che, nell’orizzonte di corto periodo che caratterizza gran parte del padronato italiano, neanche il tema della produttività è oggi prioritario, a fronte di un calo della domanda che determina quasi sempre un basso utilizzo degli impianti e talvolta della forza-lavoro stessa. Al massimo, emergono soluzioni tipo quella della Fiat di Melfi, che – intensificando il lavoro – ottiene in 3 giorni la produzione di 5 – e al resto ci pensano gli ammortizzatori sociali.

Ma l’elaborazione di Marchetto non si limita all’organizzazione interna dell’impresa. L’ipotesi Perini-Marchetto di un orario di 36 ore così ripartito “20 lavoro produttivo + 8 lavoro riproduttivo + 8 formazione” non investe direttamente il problema della democrazia, ma investe la questione più generale della divisione sociale del lavoro.

Il tema ha solidi fondamenti oggettivi nel processo di riproduzione della forza-lavoro; e infatti gli stessi capitalisti se lo pongono – e lo affrontano a modo loro:

  • per quanto riguarda il lavoro produttivo, essi praticano sempre più ampiamente forme le più svariate di orari ridotti, ma non a parità di salario! Nel migliore dei casi, il salario è integrato dagli ammortizzatori sociali;

  • per quanto riguarda il lavoro riproduttivo, viene come si sa scaricato sulla famiglia, e quindi sulle donne: oggi, si cerca di smantellare quel Welfare State che in parte affrontava questo tema;

  • infine, la formazione: viene in parte scaricata (in termini di tempo e di costi) sulla forza-lavoro, in parte assunta dalle aziende ma controllandola e usandola come strumento di selezione o di premiazione unilaterale.

Vale la pena di notare qui che, a suo tempo, le 15 ore avevano “aperto una breccia” su questo terreno, e che la loro progressiva estinzione non è solo dovuta all’azione padronale, ma anche a quei “limiti ideologici” del sindacato anni ’70, a cui avevo accennato prima, che lo spingevano a evitare che le 150 ore potessero servire ai fabbisogni aziendali di formazione. Insomma, oggi il tema “democrazia/produttività”, così come quello di una diversa ripartizione del tempo di lavoro, non sono – in termini generali – all’ordine del giorno. Ciò non toglie – come vedremo – che possano esserci situazioni specifiche dove questa tematica può essere “coltivata”, in vista di una sua ripresa in termini più generali.

 

4. Qualche osservazione conclusiva

Come in parte s’è visto, vi sono alcune difficoltà concettuali nella definizione del rapporto tra democrazia e produttività.

Teoricamente – s’è detto – la società comunista dovrebbe realizzare la sintesi al massimo livello di questi due elementi. Ma la società comunista non esiste – e le società socialiste che dovevano rappresentare la “transizione verso…” abbiam visto come sono finite: quella cinese/maoista ha tentato una transizione al comunismo imperniata su questo binomio, ma è stata sconfitta; quella sovietica ha compiuto l’exploit di “minimizzare” ambedue i termini: la mancanza di democrazia veniva “compensata” col tollerare una bassa produttività – di qui il suo crollo. Nel 1965, degli economisti cecoslovacchi mi dicevano che, quando nel 1948 il partito comunista prese il potere a Praga, sotto la spinta degli operai, poi per un periodo la produttività aumento molto, perché gli operai la sentivano come “loro”; quando poi videro che non era così, lasciarono perdere.

Allora, a quale modello sociale ci riferiamo? Nell’elaborazione di Marchetto, il termine produttività è assunto in riferimento alla realtà capitalistica attuale, anzi nella sua accezione specifica di produttività aziendale; il termine democrazia comprende sì alcuni aspetti parziali che si sono talvolta (embrionalmente) realizzati in questo contesto, ma rinvia al di là, a una società in cui le “capacità cerebrali” del lavoratore siano largamente utilizzate. Ora, è pensabile che in una società del genere lo stesso concetto di produttività sia definito in termini diversi (per usare ancora una volta termini cari a Marchetto, in termini di efficacia e non solo di efficienza).

Queste aporie concettuali non comportano però l’abbandono della tematica. Significano tuttavia che +democrazia=+produttività non può essere la base di una strategia organica. Può essere, come ho accennato all’inizio, una utopia regolativa che trova momenti di utile applicazione concreta, pratica in determinate situazioni. In termini generali, significa che, anche nell’attuale società capitalistica, è possibile per i lavoratori conquistare spazi di democrazia che siano compatibili con l’aumento della produttività, o addirittura talvolta lo incentivino. Del resto, Marchetto – che non è un ideologo – ragiona appunto su casi specifici.

Ovviamente, questo non ha nulla a che fare con una prospettiva rivoluzionaria. Basti pensare che l’esempio più “a portata di mano” di “compromesso tra democrazia e produttività” lo troviamo nella Mitbestimmung tedesca.

Vediamo alcuni esempi di come – anche oggi – si potrebbe tradurre in pratica la “tematica di Marchetto” – tenendo sempre presente il contesto reale, per cui l’esperienza sindacale sviluppata negli anni ’70 è ovviamente un riferimento, ma non può essere riproposta pari pari (oggi siamo molto più indietro…).

1. La strategia del controllo sviluppata dal sindacato in quegli anni mantiene la sua validità, anche se le “cose da controllare” sono diverse… Essa costituisce anzitutto un elemento di democrazia nel rapporto tra sindacato e lavoratori (i soggetti del controllo sono i lavoratori, e il sindacato è uno strumento), e quindi è una “bussola” anche nell’impostazione delle forme di rappresentanza e dei criteri di “validazione” dell’attività negoziale. Ma, soprattutto, l’attenzione centrale al controllo delle condizioni della prestazione, che la caratterizzava, è un elemento che andrebbe ripreso, anche nelle condizioni difficili di oggi.

2.L’attenzione alle “aziende virtuose”, continuamente (e vanamente) proposta da Marchetto è un altro elemento importante. Non solo in termini generali: per “non mettere il lievito nella merda” e per analizzare le ragioni di successo di alcune aziende anche nel quadro della crisi (tra l’altro, le aziende in sviluppo sono – ovviamente – quelle dove ci sono più margini oggettivi per la contrattazione sindacale). Ma anche per vedere se e quale rapporto c’è (o si può costruire) tra questo sviluppo ed aspetti di democrazia nelle relazioni sindacali. In una recente indagine sulle industrie modenesi, emerge che le aziende che affrontano con successo il contesto di crisi sono in genere aziende con un buon livello di relazioni sindacali: che a volte si limitano a gestire ad es. gli ammortizzatori sociali, ma altre volte incidono anche su scelte di localizzazione o di ristrutturazione.

3.Infine, andrebbe ripreso il tema della formazione, che oggi l’azione sindacale in genere tratta solo in termini di ammortizzatore sociale (talvolta con l’illusione di costruire con ciò un modello di flessibilità favorevole al lavoratore) – quando non la tratta addirittura in termini di difesa di qualche feudo affaristico ( vedi IAL). I processi di cambiamento in corso determinano continue necessità formative: a livello aziendale, l’intervento/controllo sulle scelte di formazione può influire anche sulle scelte di organizzazione del lavoro che vi si collegano. Dal comunismo siamo scesi alla formazione aziendale… sono cose che capitano a forza di voler evitare le “derive ideologiche”…

Per tornare a un discorso più generale: in sostanza, io credo che il sindacato debba occuparsi sia di democrazia che di produttività, ma che – almeno nella fase attuale – non si possa trovare una “sintesi” tra i due termini. Quindi, il sindacato deve anzitutto lottare per la democrazia sui luoghi di lavoro – cercando, se possibile, che ciò non danneggi la produttività; e deve elaborare proposte per modi di aumento della produttività che non danneggino la condizione dei lavoratori.

La risposta di Vittorio Rieser a Gianni Marchetto è presa dal suo blog

 

 

 

 

 

 

 


Category: Lavoro e Sindacato, Vittorio Rieser e la rivista"Inchiesta"

About Vittorio Rieser: La biografia di Vittorio Rieser è rintracciabile in una sua intervista rilasciata il 3 ottobre 2001 e disponibile in rete e nel suo saggio “L'inchiesta nella fabbrica e nella società” pubblicato in Enrico Pugliese (a cura di). L'inchiesta sociale in Italia, Carocci, Roma 2008. Da questa biografia emergono le figure del padre (ebreo polacco comunista) e della madre (responsabile del partito clandestino comunista di Grosseto e per questo condannata a un anno di carcere dal Tribunale speciale). Vengono poi precisate le esperienze di inchiesta a Palermo con Danilo Dolci e a Torino con Panzieri e il lavoro di inchiesta operaia che porta alla costituzione del nucleo torinese che fonda Quaderni Rossi. Vittorio Rieser è stato poi docente di sociologia industriale all'università di Modena e ricercatore dell'IRES Lucia Morosini di Torino. Fra i suoi libri più recenti: L'imperfetta modernizzazione (con Giancarlo Cerruti), Ed. Ediesse 1995; Lavorare a Melfi: inchiesta operaia nella fabbrica integrata Fiat, Ed. Calice, 1997; Salute, sicurezza e condizioni di lavoro: Una indagine tra le iscritte e gli inscritti della Cgil in Piemonte, (con Fulvio Perini), Ed. Ediesse 2004

Comments (1)

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  1. paolo pini ha detto:

    Un bell’articolo che fa riflettere per chi si occupa di partecipazione e produttività, e fa l’economista di sinistra. Complimenti

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