Umberto Romagnoli: L’ultimo assalto all’Art.18

| 11 Settembre 2014 | Comments (0)

 

 

In epoca risalente è stato detto che il licenziamento, se per l’imprenditore può essere un capriccio, per il lavoratore è sempre un dramma. Poi, col passare del tempo, ce ne siamo scordati; chissà perché. Ad ogni modo, è quella elementare verità che ha motivato e spinto intere generazioni a rivendicare la soppressione della licenza di licenziare che, con la complicità degli operatori giuridici e segnatamente dei giudici, si era radicata nella prassi assai prima che la legge la concedesse.

Erano in molti a credere che la vicenda avrebbe cessato di produrre drammi esistenziali con l’emanazione di un’apposita legge che, subordinato all’esistenza di gravi motivi l’esercizio del potere di licenziare, conferisse al giudice il potere di ordinare la reintegra del malcapitato, riportando indietro le lancette dell’orologio.  Le cose invece sono andate diversamente, perché la condanna non gli assicura (come dovrebbe) tutto quello e proprio quello che ha diritto di ottenere.

Come qualsiasi ricerca empirica potrebbe documentare, di fatto la reintegra o è spontanea o non ha luogo e non può compiersi a causa dell’irreperibilità nell’ordinamento processuale di appropriati mezzi di coazione diretta capaci di vincere il rifiuto ad adempiere del condannato. Ciò dipende dal fatto che il processo esecutivo è modellato sugli obblighi di dare (del tipo: rilascio di un immobile) e gli obblighi di fare eseguibili coattivamente sono soltanto quelli in cui il soggetto passivo è utilmente surrogabile da un terzo estraneo indicato dal giudice dell’esecuzione. Ed è scontato che l’ostacolo maggiore a farvi rientrare l’obbligo di reintegra è il largo dominio di una cultura ostile all’idea della sostituibilità dell’imprenditore nel suo ruolo di comando e direzione – un’idea poco meno che traumatizzante e certamente eretica.

Pertanto, il ripristino ex tunc (ossia, dal giorno del licenziamento) del rapporto di lavoro ad opera della sentenza non è completo, tranne che dal punto di vista retributivo e previdenziale. La riammissione del lavoratore nel circuito produttivo presuppone l’apprestamento delle condizioni materiali dell’effettivo reimpiego e dunque esige l’effettuazione di un insieme di atti gestionali accomunati da quella che il linguaggio giuridico chiama infungibilità per designarne l’ineseguibilità manu militari in quanto richiedono la cooperazione attiva e responsabile dell’obbligato. Una cooperazione allo stato incoercibile se non in via indiretta, come lo Statuto dei lavoratori aveva espressamente previsto in caso di licenziamento di rappresentanti sindacali: in questo caso, ma solo in questo, l’imprenditore inottemperante è tenuto, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore dell’Inps (Fondo adeguamento pensioni) di una penale pari all’importo della retribuzione dovuta al reintegrando.

Insomma, prevedendo la tutela ripristinatoria del lavoratore ingiustamente licenziato senza disciplinarne le modalità attuative, il legislatore ha preteso di raggiungere il massimo risultato col minimo mezzo. Come dire, perciò, che la sua sfida denota una temerarietà del rossiniano “armiamoci e partite”: l’intendence suivra, deve aver pensato. Ma si sbagliava. Infatti, l’ineffettività dell’ordine giudiziale di reintegra diventerà in fretta una fonte di frustrazioni ed è per evitarle che nel 50% (e passa) dei casi l’iter delle impugnazioni del licenziamento si arresta alla fase trattativista  della conciliazione destinata a chiudersi con una transazione. Per il diritto scritto è un insuccesso. Bilanciato però dal beneficio economico cui allude il motto popolare “pochi, maledetti, ma subito”. D’altronde, una secchiata d’acqua gelida era arrivata dalla stessa Consulta, negando che la formula legislativa della stabilità reale abbia un contenuto costituzionalmente vincolato e dunque riconoscendo che l’art. 18 non è l’unico possibile paradigma attuativo del diritto al lavoro proclamato dalla Costituzione.

Sarà, allora, per mettersi in pace la coscienza e riguadagnarsi un po’ di auto-stima che a distanza di 20 anni il Parlamento attenuerà il problema dei limiti dell’eseguibilità in forma specifica del provvedimento giudiziario, innovando l’art. 18 con una disposizione che introduce la possibilità di monetizzare la reintegra su richiesta del lavoratore che intenda sottrarsi allo stress di un dopo-sentenza capace di procurargli un’emarginazione di cui non vede la fine e che lede la sua dignità (non solo) professionale. Questa anzi è un’opzione cui l’attore pur vittorioso in giudizio finisce per essere invogliato, perché l’indennità sostitutiva della reintegra è in grado di ingolosirlo: ammonta a 15 mensilità. Una cifra importante; che si somma a quanto dovuto a titolo di risarcimento del danno che, mai inferiore a 5 mensilità, è calcolato in misura pari all’importo delle retribuzioni maturate (e non corrisposte) dal giorno del licenziamento – dedotto quanto percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative, “nonché”, pignoleggerà con la mentalità di un contabile che sfiora il ridicolo l’autore dell’ultima riforma dell’art. 18 contenuta nella legge Fornero del 2012, “quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”.

Come dire che la stabilità garantita dall’art. 18 è più immaginaria che reale. Però, il licenziamento ingiustificato comporta un costo la cui entità non trova riscontro nella legislazione straniera.

La criticità appena rilevata non è nemmeno menzionata nella polemica che l’art. 18 non smette di alimentare, ed è destinata a rinvigorirsi in occasione dell’approvazione del renziano Jobs Act. Bisognerebbe chiedersi perché. Ho sempre pensato che la circostanza sia un indizio sicuro del vizio d’origine dell’avversione che la norma suscita da 44 anni. Il vizio consiste nella mancanza di un approccio pragmatico.

Infatti, i duellanti preferiscono enfatizzare l’obbligatorietà della reintegra e sorvolare sulla sua incerta esecutività, indubbiamente accentuata dalla generosa incentivazione legale a desistere di cui può avvalersi l’avente diritto. Inoltre, pur essendo una sfrenata manifestazione di uno screditato formalismo giuridico, con l’insistito richiamo all’irresistibilità di vincoli insopportabilmente penalizzanti della libertà d’impresa sono riusciti a spargere la voce che la reintegra prevista dall’art. 18 rappresenta un’isolata anomalia nel panorama comparato, mentre ciò che costituisce un unicum è semmai l’eventualità di un’indennità sostitutiva della reintegra su richiesta del reintegrando – un’eventualità sconosciuta dalle legislazioni nazionali che ammettevano o ammettono la reintegra.

Stando così le cose, non è difficile perforare la nebbia ideologica che le nasconde e arrivare alla paradossale conclusione che la stabilità immaginaria, specialmente adesso che di posti di lavoro a tempo indeterminato non se ne creano più, è la più ragionevole ed insieme energica tecnica che si possa praticare per punire l’arbitraria riduzione dei pochi che restano. Come dire: se venisse esorcizzato anche il fantasma della reintegra, l’ordinamento giuridico del lavoro si riavvicinerebbe malinconicamente al punto di partenza, perché il licenziamento potrebbe tornare ad essere un capriccio. Un capriccio a buon mercato.

Articolo pubblicato su www.uguaglianza e libertà  l’11 settembre 2014

 


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Category: Lavoro e Sindacato

About Umberto Romagnoli: Nel 1970 diviene professore ordinario di Diritto del lavoro. Dal 1978 al 1984 è preside della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Bologna dove rimane professore fino all'anno accademico 2008-09. Nel corso della propria carriera ha svolto un’ininterrotta attività di studi e ricerche sul diritto positivo, approfondendo particolarmente la storia della cultura giuridica del lavoro. Dal 1985 è condirettore della «Rivista trimestrale diritto e procedura civile». Nel 1987 ha fondato la rivista «Lavoro e diritto». Tra il 1996 e il 2006, alcune Università straniere, tra cui Castilla La Mancha, Buenos Aires e la Cattolica del Perù, gli hanno conferito la laurea Honoris Causa. Tra le sue opere: Il rapporto di lavoro (con Giorgio Ghezzi,Zanichelli, 1995); Il diritto sindacale (con Giorgio Ghezzi, Zanichelli, 1997); Il lavoro in Italia. Un giurista racconta (Il Mulino, 2001); Giuristi del lavoro. Percorsi italiani di politica del diritto (Donzelli, 2009).

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