Tiziano Rinaldini: Una riflessione a partire dal recente contratto dei chimici

| 12 Dicembre 2012 | Comments (0)

 

 

 

Il recente contratto nazionale dei chimici viene introdotto da una premessa che spiega i successivi contenuti come derivanti da una concezione dell’impresa come luogo dove è previsto un unico interesse coeso tra lavoratori e imprenditore.

Il confronto ricondotto su questo assunto viene configurato rispetto ad un mondo esterno ostile, a sua volta da attraversare insieme senza conflitto interno nella ulteriore comune condivisione dello scenario economico e industriale generale, che peraltro viene configurato come pervaso da variabili che sono al di fuori del controllo delle parti.

Le parti quindi (salvo patologie da curare) non possono che avere un unico punto di vista, quello dell’impresa, e si misurano sul piano dell’adeguamento ad esso (sempre con il vincolo della coesione).

Questa ricostruzione non è un’interpretazione, ma una proposizione quasi letterale del testo sottoscritto dalle parti nella premessa del contratto.

A me pare evidente che in questo quadro il contratto nazionale viene privato del suo fondamento come vincolo di certezze sul piano di diritti, normative e trattamenti a cui i lavoratori e le lavoratrici possano riferirsi senza che possano essere rimessi in discussione all’interno delle varie e specifiche realtà imprenditoriali in cui si trovassero ad operare.

Infatti, in particolare nelle fasi di crisi (ancor più poi con le caratteristiche di quella attuale), è questo significato che rende comprensibile il valore del contratto nazionale dal punto di vista di uomini e donne solidali fra di loro nel lavoro e alla ricerca del lavoro.

Nel contempo, dato che ciò rende il contratto strumento non subalterno di volta in volta alle ragioni in atto del mercato, può così esercitare il ruolo di contribuire a spingere l’impresa e il mercato a rendersi disponibili e a ricercare nuovi equilibri più avanzati sul piano sociale, civile e democratico.

Diversamente, in coerenza con la premessa, viene denominato contratto nazionale (come si può verificare mettendo insieme i vari punti stabiliti per i chimici) un quadro di riferimento che da un lato definisce ampi spazi di variabilità a discrezionale disposizione dell’impresa sulle questioni centrali della condizione e del rapporto di lavoro (dall’orario all’utilizzo dell’apprendistato), dall’altro rende tutto ciò ulteriormente derogabile sulla base della situazione aziendale e in presenza di intesa con le rappresentanze sindacali aziendali.

Va da sé che così le rappresentanze aziendali, considerate tra l’altro vincolate al contratto e ai principi prima richiamati che lo ispirano, vengono consegnate senza difese di fronte al ricatto della crisi.

Tutto ciò può ancora considerarsi un contratto nazionale o si trasforma, annullandone il significato, in qualcosa d’altro?

Non diviene forse uno strumento che serve alle imprese per imporre i loro “vincoli”, e che da modo alle loro associazioni in crisi di poter tentare di esistere senza un ruolo reale di rappresentanza che non sia quello di accompagnare la spinta delle imprese a cucirsi senza condizionamenti l’abito che ritengono appropriato per le diverse situazioni e momenti?

Non diviene forse la negazione della possibilità per i lavoratori di costruire e far valere un proprio autonomo punto di vista, che per essere tale non può essere pregiudizialmente assoggettato al contingente unilaterale interesse dell’impresa?

Inoltre, accettando questo quadro, che cosa divengono le organizzazioni sindacali di rappresentanza se non sempre più strutture autoriferite e chiuse in una logica sterile di sopravvivenza fine a se stessa, e quindi strutture non in grado di rappresentare?

Sono domande sempre più legittime, alle quali sarà sempre meno consentito di sottrarsi in presenza della crescente evidente affermazione dell’attuale tendenza nelle relazioni industriali, che divengono sempre meno relazioni e sempre più affermazione di logiche unilaterali impresa per impresa.

Sono domande che richiamano un drammatico interrogativo di fondo sul futuro (o meno) del sindacato, e di conseguenza della democrazia.

Per tornare al contratto dei chimici, è utile poi considerare che, sempre in coerenza con la premessa, viene assunto comunemente l’impegno a rivendicare che lo Stato utilizzi il fisco per consentire una tassazione per le quote di retribuzione aziendale distinta e inferiore rispetto a quelle del contratto nazionale (come peraltro già è avvenuto negli ultimi anni a livello generale e con il consenso delle confederazioni). La stessa cosa inoltre (mentre è in pieno svolgimento un pesante arretramento sullo stato sociale) viene richiesta per le quote di salario (diretto, indiretto o differito, che le aziende fanno passare per propria elargizione) dedicate a misure di copertura sociale delimitate al settore e/o all’azienda con gestioni bilaterali.

Ci è parso utile descrivere con precisione i contenuti principali di questo accordo per consentirne una valutazione sul contesto in cui si situa e sulla sua anomalia o meno, a partire dalla consapevolezza che non stiamo tanto parlando di un brutto accordo, ma di un accordo che interviene strutturalmente sulla natura del contratto nazionale.

Spesso infatti si ha l’impressione che nell’osservare le vicende contrattuali la cultura di sinistra persista in una antica superficialità. Le valutazioni paiono più dettate da un pregiudiziale posizionamento per supposti interessi ed equilibri politici generali, che da una attenzione alla intrinseca politicità della contrattazione collettiva e dei suoi atti concreti. E’ come se si continuasse nell’illusione che la politicità del lavoro possa configurarsi a prescindere da ciò che avviene concretamente nelle relazioni di lavoro e nell’esercizio della contrattazione collettiva.

Mi voglio soffermare sul contrasto che è parso seriamente aprirsi tra la delegazione della categoria alla trattativa e la Segreteria della CGIL sulla siglatura dell’intesa.

La Segreteria della CGIL con un atto del tutto inusuale, ha infatti espresso un pubblico ufficiale giudizio critico sull’intesa siglata dalla categoria con richiesta di revisione dei contenuti.

Per la verità però ciò è significativamente avvenuto a trattativa conclusa e senza richiedere il ritiro della firma. Anzi, nei successivi sviluppi, si è pervenuti ad una conferma della sottoscrizione definitiva rinviando ad una fase successiva approfondimenti per tentare di modificarne alcune sue parti.

Il merito del contrasto peraltro non è parso comunque investire l’ispirazione di fondo del contratto dei chimici, ma piuttosto problemi di adattamento interno.

Non è certo irrilevante, per stare al punto forse di maggior rilievo nel contrasto, richiamare la necessità che le deroghe al contratto nazionale vengano vincolate alla chiamata in causa anche delle organizzazioni sindacali firmatarie e non solo delle rappresentanze aziendali, ma l’obiezione viene fatta riconfermando nel contempo la condivisione della scelta della derogabilità.

Si legittimano così interpretazioni più riferibili ad una logica di autoconservazione centralistica fine a se stessa delle organizzazioni, che di alternativa al paventato aziendalismo.

Un sindacalismo aziendalistico (rivolto cioè a intervenire sulle condizioni di lavoro registrando il punto di vista della impresa con accordi che ci riesce difficile definire contrattazione) non viene modificato sostanzialmente se condiviso dalle organizzazioni sindacali, di categoria o confederali. Anzi è forte il rischio che i sindacati assumano caratteristiche che una volta sarebbero state definite da “sindacati gialli”.

E’ giustificata quindi l’impressione che l’iniziale polemica della Segreteria della CGIL di fronte all’accordo dei chimici oscilli tra la contrarietà per la sottrazione alla dimensione centralistica confederale di passaggi contrattuali rilevanti rispetto alle conseguenze sulle generali relazioni industriali e lo sgomento nel vedere tradotta con brutale chiarezza la condivisione delle tendenze nei confronti delle quali si evita di porsi in esplicita opposizione (a partire dalla stessa premessa di quell’accordo) e con chiaro sostegno di quelle parti del sindacato (soprattutto la FIOM, ma non solo) che le contrastano apertamente.

D’altronde, se così non fosse, sarebbe arduo comprendere come la CGIL si è di volta in volta collocata nelle vicende di questi anni, ed ancora in quelle più attuali.

Ci basti qui rammentare il rapporto con la strana trattativa che nel frattempo si sta svolgendo tra le parti sociali per un patto sulla produttività.

La Confindustria si è presentata con richieste precise e inequivocabili. Sono scritte in un documento ufficiale (che peraltro non è stato portato a conoscenza dei lavoratori e dell’Organizzazione).

Le richieste (con una premessa equivalente a quella dei chimici) sono mirate ad ampliare e rendere possibile l’esercizio di un potere dell’impresa nel cucirsi abiti (condizioni e relazioni di lavoro) ritagliati sulle proprie esigenze, con ampia unilaterale discrezionalità.

Significativamente la stessa richiesta di aumento delle ore di lavoro contrattualmente stabilite è concepita persino come disponibilità consegnata all’impresa di far fare più o meno ore di lavoro a propria discrezione.

L’impresa non si limita alla pretesa di aumentare l’orario di lavoro in presenza di crescente disoccupazione, ma lo concepisce come opzione, flessibile a sua disposizione.

Comunque le richieste si riferiscono a tutti i vari terreni che definiscono la condizione di lavoro.

Infine le relazioni sindacali (e l’intesa del 28 giugno 2011) vengono richiamate come quadro di gestione di questi contenuti e della loro esigibilità, tralasciando tra l’altro quanto nel frattempo avvenuto sul piano legislativo (art.8 dello scorso anno e riforma dell’art. 18) e sul piano delle relazioni con il nuovo contratto del gruppo FIAT sottoscritto da CISL e UIL.

E’ utile notare che sono sostanzialmente gli stessi contenuti su cui la Federmeccanica condiziona il tavolo per il rinnovo del contratto nazionale della categoria (da sempre quello di maggior rilievo), da cui viene esclusa la presenza della FIOM (da sempre la organizzazione più rappresentativa nella categoria).

Chiarito questo quadro che senso ha che la CGIL partecipi al tavolo sulla produttività, non respinga senza ambiguità che vi possa essere un suo svolgimento sulla bozza del documento richiamato, dichiarando comunque impraticabile il confronto senza una preventiva reintegrazione di regole democratiche sulla esclusione della FIOM dalla trattativa per il contratto della categoria? Su questo tavolo è in pieno svolgimento (come è noto a tutti) un percorso di trattativa da cui è preventivamente esclusa la FIOM nella prospettiva di un accordo separato dalle gravissime conseguenze. E’ come se la FIOM non venisse considerata parte della CGIL.

Che senso ha riferirsi allo stesso accordo del 28 giugno 2011 non denunciandone il suo svuotamento a fronte della non denuncia dell’articolo 8 e a fronte della non sconfessione della sottoscrizione degli accordi FIAT con cui vengono negati diritti non derogabili e libertà sindacale ai lavoratori e alla FIOM?

Volendo essere benevoli, l’atteggiamento della Segreteria Confederale appare perlomeno imbarazzato e reticente, imbarazzante e a volte schizofrenico (mentre la attuale CISL sempre più chiarisce di volersi adeguare al quadro esistente sino alla condivisione complice sulle conseguenze, se non quando si arriva alla chiusura degli stabilimenti).

In sostanza non c’è segno di fuoriuscita e cioè di indisponibilità alla condivisone in una dimensione subalterna al significato di quanto spiegato nella citata premessa del contratto nazionale dei chimici.

A parte momentanei strappi (che sino ad ora sono rapidamente rientrati e non hanno avuto coerente sviluppo) e a parte proclami che si stanno accentuando in fase preelettorale, resta fuori dal quadro di quanto realmente praticato una scelta

di tentare di ripartire dal riconoscimento della verità sulla gravità e natura della crisi del sindacato con una conseguente effettiva indisponibilità ad accompagnare la pretesa che l’interesse dei lavoratori e delle lavoratrici sia assimilato ad un supposto interesse generale riassumibile nella condivisione delle compatibilità (impresa per impresa) del modello sociale ed economico esistente.

Per maggiore chiarezza, quando mi riferisco al modello sociale ed economico in atto, mi riferisco al suo connotato fondamentale: la negazione della soggettività dei lavoratori e delle lavoratrici, se non considerandola (per negarla) come fattore, al servizio dell’attuale economia (cioè di un unico punto di vista).

Viene quindi negata la possibilità che i lavoratori e le lavoratrici (ognuno e ognuna nella propria totalità di uomo e donna) coalizzandosi su basi democratiche possano essere soggetto sociale e mettere in campo un interesse autonomo, praticare confronto e conflitto tra lavoro e capitale. Si tenta così di impedire una dialettica sociale senza la quale la crisi non potrà essere attraversata che con derive autoritarie ed antidemocratiche.

L’atteggiamento sino ad ora prevalente del sindacato non pare prendere atto della radicalità oggi del problema.

Questo atteggiamento viene infatti più o meno esplicitamente motivato con la necessità di evitare di volta in volta il peggio, di attraversare la fase in attesa di evoluzioni economiche e politiche che consentano un recupero successivo.

Il problema è che ciò con cui oggi ci misuriamo non è semplicemente un buon o cattivo accordo, un successo o una sconfitta, ma una modifica strutturale di sistema che definisce un quadro di relazioni negatorio alla radice della ragione su cui è fondato il senso del sindacato.

Spesso si tende a giustificare le scelte con l’argomento che non vi sarebbero alternative, quando in realtà di volta in volta sono proprio queste scelte che nel quadro descritto coinvolgono l’organizzazione sempre più in un ruolo di difesa di condizioni strutturali costruito per contrastare la ricerca di alternative.

Nella storia a volte, a fronte di modifiche organiche di sistema, accade che non sia data una terza posizione tra complicità e opposizione. Per ricercare e costruire alternative in questi casi è richiesta una collocazione netta come condizione non certo sufficiente, ma necessariamente preventiva.

Ad esempio,se, per poter continuare a dire che c’è il contratto nazionale, si definisce contratto uno strumento che ne contraddice il senso, il sindacato si consegna alla difesa dell’esistente e viene allontanata la verità sulla crisi del contratto nazionale e sui drammatici problemi con cui fare i conti. Il sindacato si è storicamente originato in un contesto (per certi aspetti preventivo) di movimenti di lavoratori che cercano di difendere un loro interesse autonomo, non compatibile. Non è casuale la stessa definizione del movimento operaio come movimento. È in questo ambito che si è storicamente determinata organizzazione, continuità e stabilità.

Se il nesso fecondo (non l’identificazione) tra movimenti e organizzazione viene reso impraticabile e si esaurisce, è il sindacato in quanto tale che perde la sua ragion d’essere rispetto ad una logica di trasformazione che non sia di semplice adeguamento a ciò che viene deciso dai poteri forti.

In conclusione l’approfondimento sul contratto dei chimici non porta affatto a considerarne le caratteristiche come un’ anomalia e un infortunio rispetto alla normalità, ma piuttosto ci può e ci deve aiutare a vedere più chiaramente le conseguenze coerenti che derivano dal perseguire l’illusione di potersi rapportare con le dinamiche della crisi con un approccio di pragmatico adeguamento.

 

Questo articolo è stato pubblicato in “Alternative per il socialismo” nel numero di Novembre, 2012

 

Category: Lavoro e Sindacato

About Tiziano Rinaldini: Tiziano Rinaldini è nato nel 1947 a Reggio Emilia. Ha partecipato alla Fgci e alla Sezione comunista universitaria di Bologna negli anni '60. È entrato nella Fiom a partire dal 1970, prima a Reggio Emilia e poi a Varese. Dal 1976 al 1981 è stato responsabile del settore auto della Fiom nazionale. Dal 1982 ha partecipato al Cres e all'Ires ER. Dal 1986 al 1989 ha fatto parte della Cgil ER nel settore trasporti e dal 1989 al 1995 ha fatto parte della segreteria della Cgil regionale ER. Dal 1995 al 2000 ha fatto parte della segreteria nazionale dei chimici. Attualmente fa parte dell'apparato Cgil ER. Ha scritto numerosi saggi e interventi per «Il Manifesto», «Alternative per il socialismo» e «Inchiesta».

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