Tiziano Rinaldini: Sulla crisi della democrazia e della rappresentanza

| 27 Marzo 2013 | Comments (0)

 

 

 

Le vicende che hanno preceduto le elezioni, l’esito delle elezioni stesse e le dinamiche che ne stanno conseguendo ci consegnano in tutta evidenza (se ancora ve ne fosse stato bisogno) la conferma di una drammatica crisi della democrazia e della rappresentanza di fronte ai problemi che la crisi di questi anni ha accentuato drasticamente all’interno del modello sociale ed economico affermatosi da 30 anni a questa parte in Italia e nel mondo.

A me pare che non sia di alcuna utilità individuare nel leaderismo e nel populismo o nell’antipolitica questioni centrali, sia quando le si indica come il nemico da combattere, sia quando si ritenga che sia indispensabile assumerle e praticarle “a fin di bene”. Impostata così a sinistra non si va oggi da nessuna parte e si finisce per scambiare la causa per l’effetto.

Non credo vi sia alternativa all’assunzione della piena consapevolezza che la crisi democratica e della rappresentanza ci richiama a considerare direttamente questo come il terreno di ricostruzione delle possibili risposte di efficacia alternativa, di opposizione e di contrasto, e anche di governo.

E’ ormai evidente la profondità e la natura della crisi degli equilibri della precedente fase storica (in particolare europea) sul piano della democrazia e della rappresentanza. E’ evidente la relazione diretta e intrinsecamente connessa al modello sociale ed economico affermatosi, per cui, in questo senso, ad esempio, la Cina non è in ritardo rispetto all’Europa, ma semmai viceversa; analogamente a me pare del tutto fuori strada chi pensa di poter assumere come modello da imitare quello di alcuni paesi del Nord Europa senza cogliere che sono complementari alle articolazioni e caratteristiche del modello globale. Emerge quindi sulla democrazia e le sue forme una criticità interna al modello, ma irrisolvibile facendosi carico delle compatibilità strutturali del modello stesso.

A questo punto le analisi correnti spesso si ritraggono e muovono presumendo di potersi accomodare all’interno ignorando questo duro dato della realtà, un’altra parte prende spunto per mettere all’ordine del giorno una palingenesi più o meno “comunista”. Ciò che resta assente è come rendere possibile e praticata una dinamica per cui gli uomini e le donne possano tornare protagonisti diretti della critica alla loro condizione e della costruzione delle risposte.

A me pare questa la condizione di partenza per avviare processi (e non false partenze) che non vogliano concludersi nella condivisione della realtà attuale o nella propaganda di un mondo a venire che non verrà mai. Senza questa condizione riesce difficile capire come possa essere riaperta una dinamica processuale in grado di cambiare gli attuali equilibri (si fa per dire) di potere ed aprire strade per alternative. E’ da questo punto di vista che si pone il problema a sinistra della ricerca su come fare i conti con la crisi democratica e della rappresentanza assumendo questo come un terreno centrale.

Nell’approfondire e mettere a fuoco questo problema può aiutare richiamare un passaggio presente in un recente contributo di Rossana Rossanda apparso su “Sbilanciamoci” [Riprodotto anche in www.inchiestaonline.it sezione “politica” ] con il significativo titolo “L’io e la società senza la politica”. Rossanda sottolineava come nei percorsi storici dei complessi rapporti “tra gli io e la società” si sia determinata “la necessità di avere dei corpi intermedi che regolano il passaggio da bisogni e desideri dei singoli a quelli del gruppo, che si formano, come del resto anche nel singolo, dall’intessersi di interessi materiali (di classe, dei proletari e non) e immateriali (idee di società, ideologie, primato dell’aristocrazia o dell’uguaglianza)”.

Questa dimensione è oggi sconvolta rispetto alle risposte del passato, e tutt’altro che ridefinita rispetto al futuro. A me pare che sia questo il piano su cui siamo chiamati (costretti) a verificare la possibilità di ricercare nostre risposte che siano in grado di non consegnare ai poteri dominanti il rapporto con la crisi della democrazia e della rappresentanza.

Ho voluto utilizzare questa citazione (che ci consegna una dura fotografia dell’attuale realtà e della solitudine di ognuno di noi) anche perché mi pare utile per soffermarmi seppur brevemente su caratteristiche della riflessione di questi anni che da un lato colgono ciò che di rilevante e oppositivo si è prodotto nelle tensioni sociali, nei movimenti e anche nel sentire diffuso, dall’altro spesso danno l’impressione di sdraiarvisi sopra limitandosi ad enfatizzarle (e a ridurle al proprio personale pensiero) oppure a osservarle con sussiego riproponendo dall’esterno antiche ortodossie. Si rischia così di vanificare il valore stesso delle tensioni oppositive richiamate e di non riuscire a costruire a partire da esse percorsi di estensione, consolidamento e continuità.

Da questo punto di vista è significativo l’esempio di quanto è accaduto e accade rispetto ai movimenti di massa che si sono determinati dall’Europa agli Stati Uniti. Sono stati e sono variamente denominati. Trovo giustamente significativo l’uso del termine “indignados” nel riassumerne un dato generale di indignazione per la mercificazione di tutti gli aspetti della vita di ognuno di noi. E’anche interessante la traduzione di questo sentimento rappresentandolo come il “99%”. Da lì però non si è avviata una decostruzione di quel 99% in grado di vederne le articolazioni degli interessi e delle culture e di cimentarsi sul come potessero stare insieme o meno al di là dei momenti generali di mobilitazione, in grado di verificare la possibilità di percorsi politici e sociali incisivi e coerenti con la volontà di ognuno di poter contare e decidere.

Ciò che di partenza appare unito non diviene quindi un processo reale di unificazione o coalizione, e così la sua derivante irrisolta ambiguità di partenza può favorire utilizzi tradizionali della politica (da Grillo, nel migliore dei casi, o da “SelBersani” o al peggio da destra) e a cicli ripetitivi di rivolta e restaurazione.

Analogamente si potrebbe riflettere su altre questioni in cui in presenza della crescente emersione del radicamento di vasti sentimenti di opposizione centrati sul territorio o di aperta critica al valore dell’individualismo, invece che uno sviluppo che sappia ricomprendere e svilupparne significato e potenzialità, assistiamo sovente a sterili chiusure in una impari dinamica tra il territorio e il mondo in cui il territorio rischia di apparire chiuso in sé stesso, quasi una monade, un aggiornamento del “socialismo in un paese solo”.

Lo stesso valore della critica all’individualismo a volte rischia di prendere sul serio l’ideologia neoliberista come valorizzazione dell’individualità mettendo come contrasto in campo con molta leggerezza il concetto di comunità (che a me pare perlomeno ambiguo in assenza di una adeguata rivisitazione critica). La riflessione si fa ancora più pregnante se ci riferiamo ai punti chiave della democrazia e del lavoro, e all’utilizzo non meglio specificato con cui vengono messi in campo con conseguenti effetti svianti.

La crisi democratica e della rappresentanza chiama in causa la necessita di cambiamenti e innovazioni profonde in grado di tradurre il problema democratico sul piano sociale e di dare un senso alla cittadinanza che la renda appunto centralmente tradotta sul piano sociale. Senza questo appare come una parola vuota rispetto ai processi in corso, in una crescente schizofrenia tra diritti civili e diritti sociali, e quindi non rispondente al fattore decisivo per determinare una inversione di tendenza negli spazi e nelle condizioni per cui gli uomini e le donne possano essere protagonisti decisivi e decisionali. Anche in questo caso troppo spesso la questione non viene sviluppata. Ad esempio, a fronte di una evidente necessità di un diverso equilibrio tra rappresentanza e democrazia diretta che porti ad un nuovo intreccio che valorizzi gli elementi di democrazia diretta si soggiace anche qui ad una confusa e sterile contrapposizione.

In alcuni non tanto limitati casi inoltre il termine democrazia viene usato per definire ed esigere giustamente percorsi partecipativi decisionali senza che vi sia compreso anche il momento imprescindibile del voto per decidere, quasi che si possa decidere solo se tutti sono d’accordo.

Infine l’interessamento ai problemi riassunti intorno al termine lavoro a partire dalle drammatiche vicende che investono uomini e donne, non si traduce chiaramente rispetto al fatto che i lavoratori e le lavoratrici debbano essere protagonisti decisionali sui processi che li coinvolgono, ma in modo diffuso assistiamo ad un approccio su basi (per me insopportabili) di interessamento compassionevole per la condizione lavorativa con azioni per portare loro il nostro bene.

Nel descrivere i pesanti limiti presenti rispetto alla portata della crisi che ci investe, non ho alcuna intenzione di propormi come chi pretende di avere risposte con cui superarli. Sono consapevole che non siamo in presenza di limiti casuali, ma connessi alla complessità e novità dei problemi che si aprono per la ricerca di risposte nell’attuale contesto storico. Mi è però (questo si) chiaro che il terreno indicato è centrale per avviare qualsiasi percorso di avanzamento, e non è quindi possibile eludere i nodi che si presentano, già parzialmente ma significativamente deducibili da quanto prima accennato. Onde evitare fraintendimenti che ostacolerebbero la comprensione e lo sviluppo del confronto su quanto qui sostenuto, mi è utile precisare che non ignoro la contemporanea necessità (per fare i conti con l’attuale realtà) di linee ed obiettivi che si propongano e vengano perseguiti su altri terreni, dalla politica industriale al rapporto tra economia e trasformazione della natura alla riduzione degli orari di lavoro alle politiche retributive, in definitiva come e per cosa lavorare.

Ciò che intendo sostenere con nettezza è che a questo punto della storia niente di ciò che si riferisce a questi altri terreni è credibile se non viene assunto centralmente e radicalmente a partire dalla dimensione sociale il problema dei diritti, della democrazia e delle forme in cui è possibile esercitarla. Per consentire (anche a me stesso) un ulteriore sviluppo del ragionamento esposto, è utile riprodurlo e verificarlo in rapporto alla dimensione sindacale ed allo stato in cui si trova.

Mi riprometto di approfondire su questo piano il tema in un successivo contributo. Questa scelta viene dal fatto che posso così confrontare quanto sostenuto con una realtà che conosco bene, nella sua storia e nella sua radicale attuale situazione di crisi.

Nel contempo sono però convinto che la crisi di questa realtà è oggi assolutamente centrale per fare i conti con la crisi della democrazia e della rappresentanza e non consente di sfuggire ai nodi prima indicati; non è oggi per niente catalogabile come problema laterale della politica, più o meno delegabile alle organizzazioni sindacali, limitandosi ad auspicare che si mettano d’accordo (da parte di alcuni) o che litighino(da parte di altri).

Passa attraverso questa dimensione un punto dirimente dell’idea di politica per una sinistra che abbia futuro, e che non si illuda quindi di poter limitarsi a cavalcare di volta in volta i movimenti in corso o, peggio ancora, ritagliare per sé una sorta di ruolo mediatorio degli interessi sociali ed economici intesi come componenti di “un’economia reale” assunta in quanto tale come bene comune e interesse generale. Per ancor meglio chiarire, con la dimensione sindacale intendo riferirmi al primo terreno in cui gli uomini e le donne nella loro gran parte incrociando il problema del lavoro, del loro lavoro, producono tensioni e criticità che volendo contare richiedono di coalizzarsi per ottenere risultati, e fuoriuscire da uno stato di impotenza, rassegnazione e adeguamento.

La crisi di questa dimensione è alla base di qualsiasi possibile ricostruzione e la risposta alla crisi di questa dimensione non può che partire dal riconsegnare agli uomini e alle donne la possibilità di un protagonismo decisionale sulle scelte e gli obiettivi da perseguire.

 

Questo testo è pubblicato in “Inchiesta” gennaio-marzo 2013

 

Category: Lavoro e Sindacato, Politica

About Tiziano Rinaldini: Tiziano Rinaldini è nato nel 1947 a Reggio Emilia. Ha partecipato alla Fgci e alla Sezione comunista universitaria di Bologna negli anni '60. È entrato nella Fiom a partire dal 1970, prima a Reggio Emilia e poi a Varese. Dal 1976 al 1981 è stato responsabile del settore auto della Fiom nazionale. Dal 1982 ha partecipato al Cres e all'Ires ER. Dal 1986 al 1989 ha fatto parte della Cgil ER nel settore trasporti e dal 1989 al 1995 ha fatto parte della segreteria della Cgil regionale ER. Dal 1995 al 2000 ha fatto parte della segreteria nazionale dei chimici. Attualmente fa parte dell'apparato Cgil ER. Ha scritto numerosi saggi e interventi per «Il Manifesto», «Alternative per il socialismo» e «Inchiesta».

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