Tiziano Rinaldini: L’esperienza del Consiglio di fabbrica alla Fiat

| 15 Luglio 2015 | Comments (0)

 

 

 

Diffondiamo da ” Inchiesta ” a stampa n. 188 aprile-giugno 2015 l’intervento fatto da Tiziano Rinaldini  a Lecco il 30 gennaio 2015 alla Fondazione Pio Galli. Il convegno era su “La rappresentanza sindacale: la lezione dei consigli e il futuro da costruire”

 

Mi attengo al tema su cui è stato richiesto un mio contributo (l’esperienza di fabbrica alla Fiat), tema che ritengo possa fornire utili materiali di riflessione sul problema della rappresentanza sindacale su cui è stato organizzato il Convengo. Non ho l’ambizione di fornire risposte, che non competano a me trovare, ma spero di favorirne la ricerca. Poco fa, Lia Cigarini rifacendosi a Simone Weil, a conclusione del suo intervento, ci ha richiamato ad una verità a cui oggi non è consentito sfuggire nel misurarsi con il tema della rappresentanza.

“La giustizia sociale, una buona vita per tutti e la libertà per le lavoratrici ed i lavoratori o saranno opera delle lavoratrici e dei lavoratori stessi o non saranno” (faccio notare che viene usato significativamente il termine di giustizia sociale e non equità, che è tutt’altra cosa). In questo senso per Lia Cigarini la rappresentanza delle organizzazioni è un problema importante, ma secondario o meglio strumentale rispetto alla presa di coscienza e di ruolo dei deleganti, e cioè soggetti che vivono e lavorano, ciascuno nella sua individualità.

Parto da questo omaggio a Simone Weil poiché, considerando questa affermazione oggi vera più che mai, consente di valutare su questa base se riflettere sull’esperienza del Consiglio di fabbrica della fine anni ’60 e anno ’70 costituisca esercizio di semplice ricostruzione storica o qualcosa che ci possa ispirare anche sul tracciato da perseguire nella fase attuale per affrontare la crisi del sindacato e della rappresentanza.

Prima di approfondire, voglio dire una cosa che considero significativa, sulla quale nel passato non mi era capitato di riflettere. Molti dei dirigenti sindacali che si resero protagonisti e furono decisivi nella scelta di fare del Consiglio di fabbrica la struttura di base del sindacato, erano stati operai, tecnici, impiegati, lavoratori dipendenti. Dico questo senza disprezzo alcuno per gli intellettuali, una parte dei quali svolse un importantissimo ruolo negli anni ’60 (tra l’altro io stesso sono di formazione intellettuale).

In tal senso Pio Galli (ex operaio meccanico e della segreteria nazionale della FIOM) ne è l’espressione più significativa. Un’ altro nome che voglio ricordare (tanto più parlando della Fiat ) è quello di Tino Pace , segretario della Camera del lavoro di Torino, al quale non è mai stato tributato un omaggio adeguato. Si è sempre parlato più di altri che di lui, ed io, che ho avuto modo di partecipare a quelle vicende per una parte di quegli anni, non posso dimenticare che lui come Galli furono decisivi (persino più di Trentin) nel far fare alla Fiom la scelta dei Consigli di fabbrica e dei delegati. Galli e Pace diedero una “spallata” per superare prudenze ed incertezze che prevalevano in parti molto importanti dell’organizzazione con dirigenti pur valorosi, insieme a veri e propri dissensi. Pace a Torino, ad esempio, aprì chiaramente ai lavoratori immigrati, che erano guardati un po’ con la puzza sotto il naso e che invece furono i protagonisti decisivi della riscossa operaia di quel periodo. Vi furono anche altri esponenti di quella generazione del dopoguerra con queste caratteristiche, che furono tra i protagonisti, al di là della Fiat, come Fernex della Fiom, Gavioli della Fim, Guttadauro della Uilm, Capelli e Pedrelli di Bologna, Pedò di Brescia, e Pizzinato qui presente (mi scuso per i tanti altri che non cito). Nel concludere questo mio omaggio, voglio richiamare anche Silvano Consolini, Segretario di Reggio Emilia, che mi accolse nella Fiom e mi iniziò all’esperienza sindacale contrastando le resistenze al nuovo pur presenti pesantemente nel territorio. Era stato operaio delle Officine Reggiane fino alla sconfitta del 1951 e responsabile della Fiom durante la epica (senza cappa) lotta del 1951. Non tutti credettero nei Consigli, ma loro si.

Certo il contesto in cui operavano, oggi non c’è; partecipavano, tra l’altro, ad una “visione” (come oggi si dice nel linguaggio “moderno”) largamente condivisa sulla plausibilità e possibilità di una trasformazione radicale del mondo. Ci si muoveva dentro un processo e in relazione ad un’idea del mondo, che si credeva si sarebbe avverata nella realtà. Da lavoro dipendente a lavoro liberato, non come percorso individualistico in gara l’uno contro l’altro. Avere e credere ad un’idea collettiva di liberazione (al di là del fatto che si riesca a realizzarla) è un fattore molto importante perché i lavoratori riescano a coalizzarsi, altrimenti è difficile uscire da una dimensione ristretta e subalterna (dipendente come destino). Questo è un drammatico problema della fase attuale.

Pur avendo chiara questa differenza di contesto, anzi forse anche per questo, mi pare di grande interesse entrare nel merito dei tre punti che connotano l’esperienza del Consiglio di fabbrica alla Fiat. (fine anni ’60-’70). Parto non dal Consiglio di fabbrica, ma da ciò che ci permette di specificare di cosa stiamo parlando quando si parla di Consiglio di fabbrica: il delegato di gruppo omogeneo (il cui insieme forma il Consiglio di fabbrica).

Senza cogliere questo, la definizione Consiglio di fabbrica si presta ad estensioni di riferimento che la rendono generica e comprensiva di situazioni molto diverse. In particolare da un certo punto in poi i Consigli di fabbrica hanno ben poco o nulla a che fare con il nesso fondante dell’esperienza originaria Fiat tra delegato e Consiglio. Il delegato di gruppo omogeneo veniva eletto su scheda bianca all’interno di un gruppo omogeneo di lavoratori (omogeneo in quanto partecipavano sul lavoro a condizioni condivise in un punto del ciclo produttivo); veniva eletto da tutti i lavoratori del gruppo (tutti elettori e tutti eleggibili, iscritti e non iscritti) in quanto tutti condividevano la condizione di lavoro; il delegato era continuamente revocabile; decadeva se non interpretava il gruppo ed in quel caso ne veniva eletto un’ altro che lo interpretasse meglio.

Il gruppo era luogo di confronto e incontro tra le diverse soggettività che lo componevano e che nella comunanza della condizione di lavoro cercavano il modo per costruire insieme un loro punto di vista ed affermarlo nel confronti dell’impresa. Nel contempo il gruppo era situato in un punto specifico e concreto del processo produttivo (il caso tipico è quello della catena di montaggio) ed aveva quindi in mano potenzialmente un potere molto forte, nella fabbrica fordista in particolare. Se si fermava, tutta la fabbrica ne risentiva direttamente. E così si contrattava. In conclusione, se si vuol capire l’esperienza della Fiat e lo sbocco del Consiglio di fabbrica, occorre partire dal fatto che si realizza una forma di democrazia diretta organizzata. Democrazia diretta quindi, che nel contempo non sconfessava ma rilanciava in forme nuove le funzioni di rappresentanza.

Il secondo aspetto che voglio mettere in risalto è che i contenuti su cui il delegato interveniva non erano riducibili alla dimensione salariale e redistributiva (d’altra parte il gruppo omogeneo non aveva senso se questa fosse stata la dimensione connotativa). Certo, anche questa era molto importante, ma già nella forma delle rivendicazioni salariali (uguale per tutti) e nella radicalità quantitativa che assunsero nella prima fase erano espressione di una protesta che travalicava la sola dimensione salariale. Ciò su cui si valorizzava la specifica forma organizzativa del delegato e del gruppo omogeneo era la condizione di lavoro,la cui critica collettiva si traduceva in rivendicazioni, accordi di modifica, una concreta consapevolezza di potere nei confronti del potere delle imprese.La contrattazione per cambiare la condizione di lavoro e non per monetizzarla.

Vi sono innumerevoli concreti esempi.

Forse il più emblematico è quello del “tabellone” sulle linee di montaggio. E’ una esperienza che si comincia ad affermare nel ’67-’68 e della quale oggi non si parla quasi più. Era richiesto all’azienda che ogni giorno sulla catena venisse indicata la produzione da realizzare e con quanto e quale organico. La conquista del tabellone si consolidò con un accordo del 1975 che prevedeva la programmazione quotidiana su ogni catena di montaggio della produzione richiesta e gli organici necessari realmente presenti e disponibili, con riproporzionamento quindi rispetto alle variazioni di assenteismo, malattia, infortuni….. E’ evidente che in questo esempio (che si può estendere a tanti altri caratterizzanti quella fase)non si rinviano i problemi della condizione operaia alla loro realizzazione in un “altrove”, (ad esempio al comunismo futuro), ma aprono il problema qui ed ora, già all’interno della macchina dell’azienda capitalistica.

Questa logica conduceva (questo è il terzo punto) ad affermare i lavoratori come persone anche sul lavoro, persone che hanno ed affermano sul lavoro un loro punto di vista diverso, autonomo, non identificabile con quello dell’impresa. Non si negava che l’impresa avesse un suo punto di vista che la portava a considerare i lavoratori come un fattore e a definire come “scientifiche” le sue idee organizzative. Si affermava che c’è un altro punto di vista fondato sulla non riducibilità delle persone a fattori della produzione (mai), su cui è possibile costruire proposte e risposte non più “scientifiche” di quelle dell’azienda, ma alternative.

Le imprese definiscono sistema scientifico di organizzazione della produzione e del lavoro ciò che viene costruito sulla base della standarizzazione delle persone, negandone quindi la soggettività. Devo dire che non ho capito una recente iniziativa politica nazionale convocata sulla base dell’utilizzo del termine “fattore umano” come base per una supposta opposizione, quando in realtà si soggiace con questo linguaggio all’essenza della cultura capitalistica.

Questa affermazione di alterità, in concreto quotidianamente sul luogo di lavoro e non solo sul piano teorico, era certo favorita dal fatto che in quel periodo era diffusa la convinzione sulla prospettiva di un cambiamento radicale di sistema. Questa oggi è andata in crisi ed è arduo capire i passaggi su cui il lavoratore possa inserire sentimenti duraturi di contrasto, di solidarietà e giustizia sociale in una prospettiva di radicale alternativa. Però in quel periodo l’esperienza del delegato e del Consiglio di fabbrica alla Fiat con le caratteristiche che così veniva assumendo la dimensione sindacale introduceva, una importante novità. Non si accettava il lavoro così com’è, intanto monetizzando il più possibile, in attesa del cambiamento generale radicale, ma si cercava di conquistare cambiamenti che spostassero qui ed ora gli equilibri di potere sul lavoro. Si cercava quindi di aprire un processo in cui la affermazione di un punto di vista alternativo del lavoratori non fosse rinviato alla “politica”, ma il pane quotidiano della contrattazione e dello scontro/confronto con l’azienda. In questo sta anche la differenza della straordinaria esperienza alla Fiat del 1920-21, che restava necessariamente fuori dalla dimensione sindacale.

Ritengo che in questa novità della esperienza del Consiglio di fabbrica vi sia la ragione di fondo della lunga durata della vicenda sindacale e operaia in Italia negli anni ’70 a differenza di altri Paesi. Una forte rivolta contro il sistema fordista era diffusa in tutto il mondo in quegli anni, ma una lunga durata si realizzò solo dove si produsse un processo di democrazia dal basso, organizzata in nuove forme sindacali come accadde in Italia che influenzava e spingeva verso trasformazioni della stessa dimensione sindacale non più racchiudibile in una dimensione esclusivamente corporativa, rinviando il cambiamento più profondo alla politica partitica, delegata ad essere la sede della consapevolezza generale.

Questa caratteristica fu resa possibile anche dalla capacità alla Fiat di una parte del sindacato di aprire la porta a quella esplosione di lotta evitando nel contempo che si esaurisse nel radicalismo salariale o in vampate di rivolta di corto respiro. Fu difesa quindi la capacità di tradurre su queste basi la lotta operaia in alternativa a chi di fatto si preoccupava solo di controllarla dall’esterno, in attesa che si esaurisse, o anche a chi a sinistra era solo interessato a valorizzarne un aspetto iperpolitico o propedeutico al cambio di sistema. Fu importante la scelta di assumere il Consiglio di fabbrica come struttura di base fondamentale del sindacato a cui venisse vincolato il sindacato.

Anch’io, per la verità, soggiacevo all’inizio all’idea che i Consigli dovessero essere invece autonomi dal sindacato e dai partiti e non piuttosto come evitare che il sindacato fosse autonomo dai Consigli. Non coglievo così la portata storicamente innovativa di quella esperienza, il vero contributo e la caratteristica dei delegati e del Consiglio di fabbrica della Fiat grazie ai quali veniva complessivamente influenzato l’andamento sindacale italiano. Certo, non è solo l’esperienza alla Fiat, ma è alla Fiat che si affermò come valore generale la centralità del delegato e del Consiglio di fabbrica.

Ovviamente le caratteristiche dell’esperienza Fiat se da un lato influenzavano un’intera fase generale nel Paese, dall’altro rinviavano ad altri sviluppi, nuovi e coerenti verso una diversa organizzazione del lavoro in fabbrica, verso nuove politiche nel territorio e nel paese, dalle politiche industriali alle politiche sociali e più in generale al rapporto tra movimenti sociali e stato. Gli effetti propulsivi in una prima fase qua e là furono colti. Parve prendere corpo, ad esempio, una unità sindacale organica fondata sui Consigli e il superamento delle vecchie formazioni. I meccanici arrivarono ad un passo, ma nonostante la decisione con cui una parte (come ad esempio Carniti) intendeva procedere prevalse la prudenza e l’ostilità.

In generale prevalse l’idea che quella esperienza non rappresentava la possibilità di uno storicamente nuovo inizio generale, ma una parentesi rispetto ad una sostanziale continuità storica, da innovare ma non da mettere in discussione. Era la stessa valutazione che portò a non capire che si stavano preparando radicali modifiche del modello capitalistico proprio per evitare gli sviluppi delle caratteristiche di esperienze operaie come quelle della Fiat e gli effetti generali a cui rischiavano di rinviare. Forse la sinistra pensava che, come era già successo nel passato, si potesse sopravvivere alla sconfitta del concreto soggetto politico-sociale in campo che aveva reso possibile quella stagione operaia, e poi tutto sarebbe ripreso più o meno come prima. Non fu solo la sinistra politica (sia radicale che moderata) a non sviluppare le novità di quella esperienza (e di quella cultura che la favorì negli anni ’60), ma lo stesso sindacato nel suo complesso non fu mai completamente convinto di quelle novità. Fa effetto leggere oggi l’intervista nel 1977 di Scalfari a Lama poche settimane prima della svolta dell’Eur.

Vi sono tutti gli elementi che predispongono all’isolamento di esperienze come quelle della Fiat. Il protagonismo dei lavoratori della Fiat era fondato sulla messa in discussione della condizione di lavoro; chiedere di lasciar perdere questo in nome di un “interesse comune del paese” rompeva con questa cultura, colpiva al cuore la forza costruita e non la rilanciava sul terreno di nuove forme di organizzazione del lavoro, come ad esempio il superamento della catena di montaggio ed il lavoro di gruppo. La Fiat non accettò mai questa sfida e attese il momento per poter sconfiggere i delegati ed il Consiglio, cancellare esperienze come quella del “tabellone”,utilizzare alcune prime limitate innovazioni tecnologiche per spazzare via (come alla verniciatura) pause e spazi conquistati sulla vecchia organizzazione del lavoro. Fu il mancato sviluppo dell’esperienza ’68-’69 a determinarne la sconfitta e non l’innovazione tecnologica. L’innovazione tecnologica alla Fiat avvenne in modo generalizzato non a caso dopo la sconfitta del 1980, quando le fu possibile procedere senza più l’interferenza dei lavoratori.

Si conclude così la storia del Consiglio di fabbrica e del delegato Fiat nel senso propulsivo con cui ne ho parlato. Paradossalmente alcune caratteristiche furono messe a frutto (rovesciate) dalla organizzazione neoautoritaria e padronale del lavoro, si pensi ad esempio al team leader e al gruppo sottostante.(si veda ad esempio l’attuale modello Melfi). La presenza sindacale in fabbrica torna così ad avere caratteristiche più dipendenti da identità associative esterne che dalla critica dei lavoratori dal basso della comune condizione di lavoro. Si chiude così l’esperienza del consiglio di fabbrica Fiat.

Il sindacato ed il pensiero politico e culturale della sinistra non ne prese chiaramente atto e continuò a lungo ad usare la parola Consiglio di fabbrica per significare una realtà che aveva sempre meno a che fare con la fase precedente. Si avvia quindi un percorso dominato dal punto di vista dell’impresa e dalla negazione della legittimità di un altro autonomo punto di vista sino alla recente cessazione della Fiat ed al suo passaggio alla FCA (cupola americana).

A conclusione di questa breve riflessione mi chiedo e vi chiedo però se quella esperienza è da consegnare alla storia del passato come tante altre, o ha in sé aspetti fondamentali a cui ispirare la ripresa di percorsi della dialettica lavoro/capitale, senza la quale non vedo uscite dalla crisi della democrazia. Ovviamente non mi riferisco a caratteristiche della realtà in cui quella esperienza si produsse, oggi non più esistenti, come la grande fabbrica fordista e la centralità della catena di montaggio nell’organizzazione complessiva. Mi riferisco a ciò che emerse allora nel rapporto tra democrazia, lavoratori, rappresentanza e dimensione sindacale e che costituì una novità rispetto alla storia precedente.

In primo luogo l’esercizio di forme di democrazia diretta organizzata innestata e costruita sulla critica del quotidiano lavoro concreto, costruita insieme. In secondo luogo contenuti rivendicativi che intervengono (secondo un autonomo punto di vista) direttamente qui ed ora sui meccanismi interni della macchina capitalistica e sulle forme con cui definisce il lavoro. Non si accontentano di intervenire su ciò che è esterno in attesa di chi sa quali rivolgimenti. Infine il tentativo di affermare nel concreto della lotta sociale e delle mediazioni a cui pervenire di un orizzonte di valori ispirati alla giustizia sociale e alla solidarietà.

Come richiamavo all’inizio o il sindacato riesce ad essere uno strumento nelle mani dei lavoratori e delle lavoratrici, oppure il suo futuro non può che essere oggi un futuro di complicità nella mercificazione della persona che lavora o che cerca un lavoro. In questo senso a me piace pensare che l’esperienza del delegato e del Consiglio di fabbrica della Fiat più che concludere il passato può costituire una ispirazione per il futuro.

Non storia conclusa ma storia interrotta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Category: Lavoro e Sindacato

About Tiziano Rinaldini: Tiziano Rinaldini è nato nel 1947 a Reggio Emilia. Ha partecipato alla Fgci e alla Sezione comunista universitaria di Bologna negli anni '60. È entrato nella Fiom a partire dal 1970, prima a Reggio Emilia e poi a Varese. Dal 1976 al 1981 è stato responsabile del settore auto della Fiom nazionale. Dal 1982 ha partecipato al Cres e all'Ires ER. Dal 1986 al 1989 ha fatto parte della Cgil ER nel settore trasporti e dal 1989 al 1995 ha fatto parte della segreteria della Cgil regionale ER. Dal 1995 al 2000 ha fatto parte della segreteria nazionale dei chimici. Attualmente fa parte dell'apparato Cgil ER. Ha scritto numerosi saggi e interventi per «Il Manifesto», «Alternative per il socialismo» e «Inchiesta».

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