Sabrina Ardizzoni: Le donne di Angela Pascucci nel Pianeta Cina

| 24 Ottobre 2020 | Comments (0)

 

Contributo alla giornata di dialogo sul “Pianeta Cina” del 10 ottobre 2020 a Bologna promosso da Il Manifesto in Rete e la Fondazione Claudio Sabattini

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La Cina è un grande punto interrogativo. Così Claudia Pozzana (La poesia pensante, Quodlibet, 2010) ha sempre invitato a guardare alla Cina non come a un mondo monolitico di facile comprensione, ma come a una realtà problematica dalle mille potenzialità e criticità. Una visione poetica, la sua, in dialogo con il collega poeta Yang Lian (Dove si ferma il mare, Damocle Edizioni, 2016; Origine, Jaca Book, 2020), oggi molto noto e tradotto anche in Italia, un ponte pluriennale di alto livello tra i nostri paesi.

Così oggi ci siamo trovati a parlare di Cina a partire dal lavoro di Angela Pascucci, giornalista del Manifesto venuta prematuramente a mancare nel 2018, che in due libri ci ha offerto non solo uno spaccato polifonico di voci cinesi, ma anche un’occasione per ragionare sulla metodologia del nostro lavoro di ricerca sulla Cina. Talkin’ China, pubblicato dalla ManifestoLibri nel 2008, e Potere e società in Cina, sono il frutto di un lungo lavoro di ricerca sul campo effettuato dalla giornalista de Il Manifesto – insieme a Gaia Perini, oggi presente a questa giornata di riflessione – durante il decennio di presidenza di Hu Jintao (1942- ), con primo ministro Wen Jiabao (1942- ), dal 2003 al 2013, anno in cui è uscito Potere e società per le Edizioni dell’Asino.

Il mio intervento qui parte dalle donne che Angela Pascucci ha raccontato, o che, meglio, hanno raccontato la sua Cina. Perché nel metodo di Angela, da cui noi molto abbiamo imparato, le persone intervistate non sono solo “oggetto” di studio, ma soggetti creativi della loro stessa narrazione. L’osservatore qui è il tramite attraverso il quale si colora la tela dei colori tracciati dai protagonisti della narrazione.

Guardare alle donne cinesi significa avere una lente di osservazione privilegiata sulla società. La rappresentazione delle donne fornisce un focus sulla società “che è sempre politico”, come ha affermato di recente la studiosa Gail Hershatter.1 Interrogare le donne in Cina e nella diaspora significa guardare a una parte di società che rimane spesso nel buio, o viene considerata marginale. Scrivere la storia delle donne significa “riempire gli spazi vuoti della storia”.

Intorno alle donne – ma non solo – si costruiscono delle strutture immaginarie, emozionali, etiche, cognitive che inducono gli individui ad accettare un ruolo, un modello sociale e di genere “corretto”, e con esso si identificano (Dooling 2005: 16).2 Sono le “norme culturali” che rendono un individuo accettato nella società. E norme culturali che si costruiscono sulla base di un immaginario, frutto di un insieme di ideali che negoziano tra il sopra (il livello governativo, il diktat ideologico) e il sotto (le aspirazioni popolari, le masse, il popolo, la “gente comune”).

Ho quindi interrogato i libri di Angela da cui estrapolato tra le sue numerose interviste, tre donne in Talkin’ China, e sei in Potere e società. Alcune di esse vengono richiamate in questo contributo.

Intervistare le donne non è facile. Ce lo dice Angela stessa descrivendo la signora Wu, una contadina che lavora come custode in un orto botanico. Di lei afferma che “Considera noiosa la propria esistenza, e si meraviglia che qualcuno se la voglia far raccontare” (Potere e società, p. 28.) Poi però si concede all’intervista e si racconta, e evidenzia come il suo pensiero più grande oggi sia il figlio di 21 anni, che “smanetta col suo computer notte e giorno”, e “trascina la sua vita nel mondo virtuale, e non ha alcuna voglia di darsi da fare in quello reale”. Oggi li chiamiamo “hikikomori”, e la preoccupazione verso adolescenti chiusi nelle loro stanze a “smanettare” accomuna molte mamme in tutto il mondo. Un mondo comune con una donna qualsiasi di questa parte del mondo. È con spirito umano, quindi, che Angela si avvicina a queste donne, e ci fa avvicinare a loro, con lei.

Tuttavia, il suo è uno sguardo sempre politico.

Non a caso ci racconta l’episodio di Li Jianhua e la moglie. Due contadini migranti, in città, che si spaccano la schiena per anni, poi lui ha un incidente sul lavoro, e la preoccpuazione diventa non solo quella di pagare le cure, ma anche quella di perdere ore di lavoro che non sono tutelate e sono spesso pagate a cottimo. In questa descrizione c’è una volontà di denuncia che ricorda il film di Zhang Yimou del 1992 La storia di Qiu Ju. Questa causa, dice Angela, “ha spezzato il cerchio della sottomissione”.

Perché nella sua ricerca, Angela mette in luce le sottomissioni, e non tanto quelle tra i generi, quanto quelle di classe.

Tra gli intervistati, c’è il capitolo “intellettuali”, una categoria che storicamente in Cina ha goduto di posizioni privilegiate e che ha da sempre avuto il diritto di parola. Ad eccezione di queli anni in cui essere un intellettuale era era già di per se un elemento sufficiente ad essere marchiato come nemico di classe. Gli intellettuali, del decennio di Hu Jintao e Wen Jiabao, erano interlocutori privilegiati per un dibattito costruttivo di una politica nuova di una società nuova. Dai Jinhua, docente a Beida, l’Università più prestigiosa in Cina, le concede un’intervista, in cui le dice che:

“La questione femminile si sovrappone a quella di classe e diventa il discorso prevalente. Prendiamo ad esempio i licenziamenti. La perdita del posto di lavoro delle operaie non viene vista come il frutto di una divisione sociale sempre più aspra, ma come un problema femminile legato al genere. Per cui si è detto: beh, queste donne potrebbero tornare alla famiglia, fare le madri e le mogli. In questo modo l’aspetto di genere ha riassorbito un discorso molto più duro, cioè la divisione sociale che in questo periodo si è creata e approfondita”.

(Potere e società: 113-118. Intervista del 2011)

Sullo sfondo non dimentichiamo che la questione di genere in Cina è legata alla visione tradizionale che poggia le fondamenta sulle multiple tradizioni delle scuole confuciane che hanno dominato nell’ambiente cinese dalla dinastia Han (206 a.C-220 d.C). Il Confucianesimo (che non è certo un pensiero unico, immutabile, ma un insieme di scuole ben articolate e storicizzate in diverse correnti) sta assistendo oggi a una rinascita voluta dallo stato, che è più una “riformulazione”, nella direzione di una riproposizione di un pensiero ideologico unico e in quanto tale portatore di “armonia”.3 In questa tradizione, la società è marcatamente patriarcale e la donna viene relegata nei piani più bassi. La divisione tra yin e yang e la gerarchia del mondo metafisico si riflette in una gerarchia dell’ordine sociale in cui la donna si trova sempre in posizione sfavorevole.

Dopo l’avvio delle riforme politiche ed economiche di Deng Xiaoping, ossia quando ha avuto inizio quel processo che Wang Hui (Il nuovo ordine cinese, ManifestoLibri, 2006) definisce come un processo di de-politicizzazione della Cina, la questione di classe diventa sempre meno importante, ci si focalizza di più su questioni come il genere, le identità nazionali, lo sviluppo economico, ma la partecipazione delle donne alla vita politica rimane importante, anzi.

Angela ci parla delle donne in politica. Sono donne nei piani “bassi” della politica: Yan Yiben, vicesindaco della cittadina di Lijiang, nello Yunnan, gettonata meta turistica di cinesi e stranieri. Donna di una minoranza etnica, quella Naxi, di cui va molto orgogliosa, viene descritta come un’abile politica “capace di trasformare l’intervista in un evento mediatico”, che “trasforma ogni domanda in un comizio elettorale”. Una donna che sa come usare il potere e mantenerlo, tenendo alta la bandiera della “modernità”.

È questa una parola chiave che si sente molto nella bocca di coloro che nei fatti sono ai margini, coloro per i quali la “modernità”, come la intendiamo noi (ma come la intendiamo noi?) è quasi una chimera. Soprattutto dobbiamo tenere presente che anche l’idea di modernità non è univoca, bensì legata allo sviluppo economico e al raggiungimento di un livello “decente” di accesso ai beni di consumo. Il lavoro del vicensindaco Yan consiste nel portare la modernità a Lijiang, nella sua comunità di abitanti, abbastanza omogenea, di contadini di etnia di minoranza, attraverso il turismo. Ossia trasformando Lijiang in un “non luogo molto cinese e molto globale”. È ammirevole l’eleganza con cui Angela inserisce i propri giudizi di valore come note a margine di un discorso, senza nascondersi dietro false oggettività.

L’impegno del vicesindaco Yan, così come quello della sua collega He Xueying, verso lo sviluppo è sempre teso al mantenimento della cultura del luogo e alla protezione ambientale. Uno sviluppo sostenibile, dice, non è scontato, ma è necessario.

He Xueying è una giovane quadro della township, e viene descritta come “decisa e dall’aria robusta, dalle mani avvezze al lavoro.” Sono donne, contadine che hanno fatto un salto di status a partire da una configurazione socio-culturale tradizionale, di matrice Han o di minoranza etnica, come, in questo caso, Naxi, e che alle mansioni domestiche

della tradizione, aggiungono quelle dei campi e del grande fuori: al nei (dentro) della casa, si aggiunge il wai (fuori). Oggi molte sono le donne a capo dei villaggi, in tutta la Cina, mentre quelle nei piani alti della politica, al contrario, diminuiscono.

La signora Wenxiu fa da contraltare alle contadine-funzionarie: lei coltiva i suoi broccoli biologici in una sperimentazione di coltivazione organica e cooperativa di produzione agraria, sempre nello Yunnan. Da lei emerge una voce sempre comune tra le contadine, che non si lamentano della fatica, ma sentono su di sé la colpa dell’essere nel piano più basso della società: “non siamo abbastanza istruiti/e per essere boss o leader”, ma i suoi figli, non saranno contadini. Questo per lei è il suo sogno cinese.

Una ricerca, quella di Angela, di interrogare e dare voce alle donne, ma anche degli uomini, che stanno tra città e campagna, in una sorta di terzo spazio neutro, che è quello della migrazione.

Così ci presenta Han Huimin, la presidente di un’associazione di donne migranti di Pechino. Una di quelle donne che cercano di creare un senso di collettività, una classe, di organizzare le donne che lasciano le campagne per andare in città a realizzare il loro sogno cinese. Oggi sarebbe più difficile intervistare queste donne, in quanto il raggiungimento della “società armoniosa”, volta alla conquista del “sogno cinese” non permette ai soggetti socialmente attivi di associarsi in gruppi che esprimano istanze diverse da quelle dirette dall’alto.

Donne che ce l’hanno fatta ce ne sono molte. Sono quelle che si esprimono attraverso il linguaggio dell’arte, o della comunicazione, come Yuesai Kan, famosa in America come in Cina, una donna di successo che è stata nominata ambasciatrice della cultura cinese delle donne nell’Unesco. Ma di quale cultura? Il suo successo nel mondo dello spettacolo, della cosmesi e del branding ci catapulta in una Cina ad un’altra velocità. Esprimiamo totale ammirazione per questa donna che ce l’ha fatta, ed altrettanta per le donne del collettivo Women,4 contadini migranti che lavorano in città, nei sobborghi delle periferie geografiche e sociali, che con una telecamera in mano girano un documentario su loro stesse. In questo modo portano avanti un’opera di introspezione che le porta ad avere consapevolezza delle proprie trasformazioni e delle proprie posizioni in bilico in questa società in continuo mutamento.

Infine citiamo qui l’avvocato Li, nome fittizio, un’altra donna dell’élite, un avvocato (avvocatessa) di Pechino che ci fornisce l’occasione di ragionare sul sistema giudiziario cinese, sulle forme di tutele dei lavoratori, ed anche delle donne. Ci mette in evidenza come in Cina “eppure le leggi ci sono, persino buone, ma per una serie di complesse dinamiche in molti casi vengono applicate in un modo non soddisfacente, in altri casi in modo solo parziale”. Una legge, dice, “imbottita nel baratro delle disuguaglianze”.

Nella polifonia cinese messa in luce da Angela emerge la contraddizione della società cinese nella visione della donna: da una parte l’auspicato ritorno a un ideale tradizionale confuciano di “brava moglie, buona madre”, devota alla famiglia e allo

stato; dall’altro un’apertura verso spazi di attivismo politico, come quello del movimento #MeToo, che, nonostante sia stato represso sul nascere, ha avuto un ampio spazio di risonanza e di diffusione, anche a livello dello stato. Pensiamo che a seguito delle istanze portate avanti, se pure con difficoltà, dalle donne contro le molestie sessuali sul luogo di lavoro, è nato un movimento molto ampio sui media, anche mainstream, che ha portato il legislatore a riconoscere, non più tardi di gennaio 2020, il reato di molestia sessuale. Una conquista non scontata. O la legge sulla violenza domestica, che fino a qualche tempo fa non veniva riconosciuta, o comunque non veniva denunciata perché … i panni sporchi si lavano in casa! Solo da pochi anni è un reato riconosciuto, ma le tecnicità dell’applicazione sono tali che la denuncia è quasi scoraggiata.5

Intanto, la Cina ha allentato la morsa dello hukou, la residenza sociale, e ha riformato la politica del figlio unico. Tuttavia, aprire la possibilità di avere più figli non ha invertito il trend delle nascite: chi aveva una figlia, vuole un figlio maschio; chi aveva un maschio non ha voluto il secondo figlio. Molte donne in città scelgono di non avere figli, o addirittura di non sposarsi, ma se questo le fa avanzare sulla scala sociale, le discrimina eticamente, su di loro si applica un’etichetta, quella delle “donne d’avanzo”, o left-over women,6 che ci ricorda come nella cultura tradizionale le donne non potevano essere superiori ai loro uomini, per titolo di studio o cultura, ma dovevano essere completamente dedite al marito: “Se sposi un cane segui un cane, se sposi un pollo, segui il pollo”, dice l’antico proverbio.

Oggi, chi deve assumere, tra una donna sposata e una non sposata sceglie una sposata con figli, possibilmente due, perché altrimenti incombe la minaccia della maternità, e il gap salariale, a partire dai lavori più umili, fino ai lavori della dirigenza, si allarga.

Due donne ultranovantenni molto note, di successo, da me intervistate nel 2018 e 2019, mi hanno detto: “Nella mia carriera, o nella vita privata non ho mai sentito di essere discriminata in quanto donna”. Ma non sono donne qualunque, sono donne dell’élite.

Una scienziata, Tu Youyou (1930- ) è stata insignita del premio Nobel per la medicina nel 2015 per le sue ricerche scientifiche durante l’epoca di Mao.

Oggi le donne della mia generazione, o più giovani, non possono più dire la stessa cosa.

Se la parola per “femminismo” in Cina è passata da sottolineare la femminilità (nüxingzhuyi) alla rivendicazione di diritti (nüquanzhuyi), questo ci dice che il discorso dei diritti non è chiuso, anzi, è più che mai aperto.

 

NOTE

1 Non ci sono traduzioni in italiano, ma questi due testi sono tra i più rappresentativi: Women in China’s Long Twentieth Century. University of California Press, 2007; The Gender of Memory: Rural Women and China’s Collective Past. University of California Press, 2011.

2 Women’s Literary Feminism in Twentieth-Century China. Palgrave Macmillan, 2005.

3 Sulla riformulazione del Confucianesimo in chiave ideologica attuata dalla Cina del Presidente Xi Jinping (1953- ), si può vedere Scarpari, Ritorno a Confucio-La Cina di oggi fra tradizione e mercato, Il Mulino 2015.

4 Women, che in inglese significa “donne”, in cinese significa “noi”. Cambia la pronuncia, ma la grafia è la stessa.

5 A questo proposito si possono vedere i seguenti articoli: Violenza domestica in Cina e La tragedia di Lamu.

6 Leta Hong Fincher, Left-over Women: the Resurgence of Gender Inequality in China. Zed Books, 2014.

Category: Donne, lavoro, femminismi, Editoriali, Lavoro e Sindacato, Libri e librerie, Osservatorio Cina

About Sabrina Ardizzoni: Docente di cinese in Unibo dal 2005, dopo dieci anni di lavoro come interprete e mediatrice linguistico-culturale, ha iniziato lo studio della lingua cinese presso l'Università di Bologna nel 1986, con un periodo di studio in Cina presso l'Istituto di Lingue e Culture di Pechino e presso l'Università Normale dell'Anhui (1992-1995). Il lavoro di mediazione linguistico-culturale, dal 1998, si è svolto nelle scuole, negli enti locali e ONG. Dal 1995 lavora come interprete e traduttrice in ambito sociale, medico e aziendale. I suoi interessi si concentrano nelle nuove tecniche glottodidattiche, nelle indagini dei cambiamenti sociali in corso nella Cina rurale, con particolare riferimento ai movimenti migratori interni e internazionali e alle questioni di genere. Ha compiuto diverse spedizioni di inchiesta in Cina, soprattutto nelle aree rurali, dove, grazie anche alla collaborazione con istituzioni educative e culturali del Fujian e Jiangxi, sta sviluppando l'ambito di ricerca sulle donne nelle comunità di Hakka, in Cina e nella diaspora.

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