Loris Campetti: Welfare aziendale e modello americano. Quali scelte in Europa e Italia.

| 12 Febbraio 2016 | Comments (0)

 

 

1. Una volta la Malf nella Fiat del dopoguerra

Una volta, quando non esisteva il servizio sanitario nazionale, c’era la Malf, mutua aziendale lavoratori Fiat. “Una manna – racconta su Repubblica Paolo Griseri – a Torino ce l’avevano praticamente tutti, tranne i ricchi e i disoccupati. Due categorie numericamente striminzite. Per noi ragazzi Malf significava visite sanitarie periodiche e, purtroppo, dentista. Si andava in palazzine dove erano concentrati tutti i medici, dai più innocui ai più pericolosi, da quello degli occhi a quello della gola e, inevitabilmente, all’uomo che curava la carie ai denti (…). Non avremmo mai pensato, allora, di definire quell’esperienza ‘una straordinaria opportunità offerta dal welfare aziendale’ . Per noi ragazzi non c’era solo il welfare del dentista. C’era anche quello, molto più divertente e atteso, del Natale bimbi a Torino Esposizioni. Si andava con un tagliando, si faceva la fotografia con Topolino e si ritirava il pacco dono. La cosa buona era che tutto questo non riguardava solo le famiglie dei dipendenti Fiat ma anche quelle delle società collegate, come la Riv che produceva i cuscinetti a sfera per gli ingranaggi delle automobili. Per questo finiva per coinvolgere tutta la città”. Certo, la Torino del dopoguerra era la classica company town, tutto era Fiat e la Fiat di Valletta era tutto, “dalla culla alla tomba”, dall’asilo alla colonia agli anziani Fiat, fino ai campi da sci di Sestriere. Certo, Valletta aveva “bonificato” Mirafiori dai militanti del Pci e della Fiom, come aveva ordinato l’ambasciatrice americana Luce in cambio degli aiuti del piano Marshall, ma c’era pur sempre la Guerra fredda. Del resto, anche nella vicina Ivrea un imprenditore sui generis di nome Olivetti si occupava molto della qualità della vita dei suoi dipendenti e del miglioramento del territorio che ospitava la sua fabbrica di macchine per scrivere, e per di più senza bonifiche politiche. A differenza del suo collega torinese, era alla “comunità” che pensava quello strano imprenditore, e non al dominio. Oggi a Torino di Fiat resta ben poco, capannoni e fabbriche dismesse trasformate in centri commerciali, in luoghi di cultura, in dormitori improvvisati abitati tra uno sfratto e l’altro da migranti e poveracci di ogni paese. Persino la Riv, dove si era fatto le ossa il vecchio senatore Agnelli all’inizio del Novecento,  parla svedese. Se solo i dipendenti della Fiat e delle aziende collegate potessero accedere, come allora, ai servizi mutualistici, la mortalità nella ex company townt sarebbe simile a quella registrata nei campi profughi palestinesi in Libano. Della Ivrea e della comunità olivettiana, peraltro, restano solo nostalgici ricordi (nonché le conseguenze mortali dell’esposizione dei lavoratori all’amianto), dopo la finanziarizzazione targata De Benedetti e l’omicidio di un marchio e una storia prestigiosi.

 

2. Belluno 2016: Il modello sociale Del Vecchio

Facciamo un viaggio nel tempo e nello spazio e dalla Torino anni cinquanta-sessanta voliamo nella Belluno del 2016. Nel libro di pochi mesi fa “Non ho l’età/ Perdere il lavoro a 50 anni” scrivevo: “Il modello sociale Del Vecchio è diventato famoso: rispetto dei lavoratori con cui il rapporto è diretto, ben poco mediato dal sindacato che ammette: ‘Qui c’è poco da contrattare’. Fa tutto lui, il cavaliere, padre padrone. Libri scolastici e borse di studio per i figli dei dipendenti, sanità estesa al familiari, corsi di recupero ancora per i figli ma allargati ad altri bambini e ragazzi che vivono nel territorio, servizio di trasporti anch’esso  allargato all’esterno della fabbrica, convenzioni con gli asili, partnership con la Bocconi per un programma di borse di studio, soggiorni all’estero presso dipendenti Luxottica, 700 ragazzi in vacanza a Caorle con l’azienda che si fa carico dei sette ottavi dei costi. La contrattazione per il sindacato, di conseguenza, non è facile anche perché bisogna fare i conti con due poteri, quello del management e quello del cavaliere. Il conflitto in casa Luxottica non esiste, solo piccole tensioni e non è semplice ricordare quando c’è stato l’ultimo sciopero, e il consenso strappato dal vecchio fondatore tra la maggioranza dei dipendenti ha fatto crollare l’assenteismo al di sotto dei tassi fisiologici. In occasione  dei festeggiamenti per i suoi 80 anni, il fondatore della multinazionale quotata a Wall Street ha regalato ai suoi dipendenti un bonus da 9 milioni di euro in 140.000 azioni. Leonardo Del Vecchio ha dichiarato che ‘i lavoratori sono i veri artefici del successo della nostra azienda’. Al massimo, nel Comitato governance del welfare dove è presente il sindacato, ‘si discute sui mesi di stagionatura del grano’ e mi raccontano che per firmare l’accordo sul welfare nel 2009 è bastata una notte di confronto”.

Del Vecchio, a cavallo tra il modello Fiat e quello Olivetti 60 anni più tardi. Ma in questi 60 anni erano successe molte cose, prima tra tutte la conquista del servizio sanitario nazionale e l’universalità del welfare. Conquiste che oggi vacillano, per molte ragioni che cercheremo di analizzare in questo articolo, non prima di aver fatto un altro viaggio nel tempo e nello spazio.

 

3. Ilva di Taranto

Ilva di Taranto, dagli anni Novanta del Novecento al commissariamento dello stabilimento siderurgico più grande d’Europa. Emilio Riva con i suoi rampolli costruisce il consenso con i “fuoribusta”, dopo aver rottamato la vecchia e sindacalizzata classe operaia tarantina con un utilizzo spregiudicato e massiccio della legge sull’amianto, consentito dallo Stato e ben accolto da sindacati e lavoratori. Arrivano i giovani con contratti precari, dunque strumentalizzabili. Si lavora tanto, in condizioni certo non ottimali e infortuni e omicidi (pardon, morti bianche) non mancano. Il vecchio patriarca eredita dalla gestione pubblica ed estende megastrutture ricreative e sportive la cui gestione è affidata ai sindacati, ricavandone un’acquiescenza che garantisce alta produzione, grossi utili e un pauroso inquinamento pagato dai lavoratori e dai cittadini tarantini. Riva gestisce il tempo libero dei suoi dipendenti, ne condiziona i comportamenti e ne corrompe le coscienze. Al di là delle classiche elargizioni ad personam inventa un sistema premiale mai contestato dai sindacati, almeno fino al sostanziale commissariamento della Fiom tarantina: tessere per la spesa nei supermercati dal valore altamente variabile per operai, impiegati e capi. L’unico requisito necessario è l’assenza di infortuni sul lavoro. Tutto bene, potrebbe pensare chi non è addentro alla vita di fabbrica, soprattutto se siderurgica. Invece tutto male, molto male perché per non perdere la tessera per la spesa in molti sono spinti a tacere incidenti, infortuni, almeno quelli meno gravi. Quando Rosario Rappa fu inviato a Taranto per mettere un po’ d’ordine e di regole nella Fiom, scoprì questa storia dalla Guardia di finanza, perché nessuno dei delegati gliela aveva raccontata, non trovandovi alcunché di strano (la storia si può leggere su “Ilva connection/Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni”, Loris Campetti, Manni editore, 2013). E stiamo parlando dell’unico sindacato che all’Ilva di Taranto, alla fine, la pulizia l’ha fatta, ripristinando l’alterità con l’impresa che è tornata a chiamarsi controparte.

 

4. Il modello americano

Il welfare aziendale che guadagna posizioni su posizioni nel dibattito economico e culturale e sempre più spesso nelle pratiche contrattuali, è dunque la nuova versione del vecchio aziendalismo? Piuttosto che all’Italia dei primi due decenni postbellici, prima della rivolta del biennio ’68-’69 e delle conquiste che ne sono scaturite, l’orizzonte disegnato rimanda al modello statunitense, l’american way of life. Un trend intuito già una quindicina d’anni fa dall’allora segretario generale della Fiom Claudio Sabattini e ripreso dal suo successore Gianni Rinaldini in tempi più recenti. Eppure, in comune con il passato il welfare aziendale ha almeno due finalità: la blindatura del consenso all’impresa, che in sede confindustriale preferiscono chiamare “senso d’appartenenza”, dei lavoratori, a cui è richiesta una fedeltà simile a quella che ha il cane nei confronti del padrone, e la subalternità di un sindacato ridotto, in prospettiva, a supporto aziendale. Un sindacato sterilizzato, a-conflittuale, cogestore esso stesso nelle commissioni paritetiche di pezzi di welfare abbandonati dallo stato, senza neppure gli scambi previsti dal pur discutibile modello tedesco: la presenza nei comitati di gestione e controllo, da un lato, e le forme di tutela anche economiche nei confronti di chi non può accedere al welfare aziendale. Modello americano vuol dire che ti curi i denti o ti operi al fegato solo se hai l’assicurazione, sennò in ospedale neanche ti fanno entrare; e andrai in pensione, quando sarà, solo se della previdenza privata si sarà occupata la tua azienda, o comunque te la sarai pagata da solo. Un modello spietato, classista, ingiusto, al punto che lo stesso presidente Obama ha tentato di mitigarlo, ottenendo risultati soltanto parziali per l’ostracismo di lobbies e radicate culture privatistiche.

Cosa comporterebbe l’affermazione di tale modello in Italia? Primo aspetto da considerare è che da noi i lavoratori dipendenti con un contratto di secondo livello, a cui è collegato il welfare aziendale, rappresentano un’esigua minoranza mentre il rinsecchimento accelerato del welfare pubblico riguarda tutti i lavoratori e i cittadini che un lavoro non hanno, o non hanno più, o ce l’hanno iperprecario o al nero – cioè la maggioranza delle persone. Il secondo aspetto è che in Italia non esistono forme di tutela economiche e sociali previste nella maggior parte dei paesi europei, tipo reddito di cittadinanza e sostegno ai figli come in Germania o in Francia. Come pensano, nella sfera della politica e in quella economica e imprenditoriale, di affrontare questi problemini non da poco, persino per chi ha come unici riferimenti gli utili aziendali e il Pil, cioè i consumi, destinati a regredire in un contesto di crescita della disuguaglianza e della povertà? In linea di massima, riducendo la funzione del contratto nazionale alla definizione di un salario minimo (da working poor per intenderci, e già la Federmeccanica nella sua piattaforma contrattuale parla di salari di garanzia e non di minimi contrattuali e non prevede aumenti salariali ma welfare aziendale), sognando che tale processo spinga la maggioranza delle imprese ad attivare prima il contratto e poi il welfare aziendali. A questo scopo, da qualche anno i governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi hanno puntato su forme crescenti di detassazione incentrate proprio sul secondo livello: ai padroni conviene ridurre in busta paga la quota fissa del salario, ed estendere la parte legata alla produttività, ipervariabile e sottotassata appunto. Ed ecco che anche il welfare aziendale diventa un doppio affare per il padronato, al tempo stesso un business potenziale nella previdenza e nella sanità private e un risparmio nel pagamento della prestazione lavorativa. Parlare di robusta estensione del secondo livello contrattuale è pura ginnastica retorica, una chimera nel sistema industriale italiano, frammentato in centinaia di migliaia di microimprese. E si viaggia in direzione dell’obbligatorietà del secondo pilastro previdenziale, privato naturalmente. Tutte le ultime riforme della legislazione del lavoro e del sistema previdenziale sono funzionali a questo scopo, anche perché il passaggio dal sistema misto a uno esclusivamente contributivo apre un problema individuale del lavoratore e uno collettivo per il sindacato. E’ in questa direzione che si muove la Cisl. Già oggi, per avere una pensione al minimo saranno necessari almeno vent’anni di lavoro continuativo con un salario di almeno mille euro. Andate a spiegarlo all’esercito di giovani disoccupati, precari, intermittenti. Chi è nato negli anni Ottanta, se non ci saranno inversioni di rotta, prenderà una pensione di vecchiaia a 70 anni pari a qualcosa come il 25% di quella dei nonni e dei padri. In Italia siamo messi peggio degli altri paesi europei, basti pensare che la proposta di Alexis Tsipras per la Grecia messa sotto torchio dalla trojka è di portare il minimo di lavoro continuativo necessario ai fini pensionistici a 15, e non 20 anni.

Il progressivo deperimento dell’universalità dello stato sociale, a partire dalla sanità, dall’istruzione e dalla previdenza sta scatenando una guerra generazionale. La fine della solidarietà generale fa crescere l’aziendalismo tra i lavoratori – che devono fare i dipendenti della Luxottica, che già oggi sono costretti a pagare salati ticket per curarsi, rifiutare il welfare aziendale, il carrello della spesa, il sommer camp per i figli, la mutua aggiuntiva, la flessibilità degli orari per aiutare la famiglia? – e alimenta la tendenza alla subalternità e alla corporativizzazione del sindacato. Cresce l’idea della fine del binomio (e del conflitto) capitale-lavoro, essendo notoriamente tutti sulla stessa barca, anzi sulla nave da guerra che combatte contro le navi da guerra nemiche per la conquista dei mercati. L’avversario del rematore della nostra nave da guerra non dev’essere più l’armatore o l’ammiraglio, bensì il rematore della nave nemica. Non ci sono più due soggetti in campo ma uno soltanto, l’impresa, ai cui interessi tutto dev’essere piegato. E’ la legge, con le detassazioni al secondo livello, che decide il modo di contrattare colpendo così l’autonomia del sindacato e lasciando all’impresa la possibilità di ridurre al minimo la parte fissa del salario.

Così come Olivetti era diverso da Agnelli, anche oggi i padroni non sono tutti uguali e differenti sono gli accordi sul welfare aziendale attivati in diverse realtà. Differenti sono anche le reattività dei territori nel sostenere l’estensione dei benefici a fasce di cittadini non legati direttamente all’impresa che investe (o risparmia, se preferite) in questo campo. E diverse sono infine le dinamiche che si sviluppano nelle aziende in crescita rispetto a quelle in difficoltà. Se la Cisl sembra sposare in toto la filosofia del welfare aziendale, in Cgil la discussione è più articolata: si insiste sul principio cardine dell’universalità, per cui il welfare aziendale dev’essere aggiuntivo e non sostitutivo di quello pubblico, ma essendo comunque in caduta libera lo stato sociale, è difficile non prendere in considerazione i singoli casi, anche per non trovarsi di fronte al paradosso di andare direttamente contro gli interessi e i desiderata dei lavoratori interessati.

 

5. Il documento 2015 di Impronta etica

Un documento interessante del 2015 di Impronta Etica – associazione senza fini di lucro per lo sviluppo della responsabilità d’impresa – fissa i punti principali delle finalità del welfare aziendale, partendo da una premessa che sembra contraddire proprio il principio cardine (almeno enunciato) della Cgil: in Italia la spesa sociale privata è tra le più basse in Europa, il 2,1% del Pil contro il 3% di Francia e Germania, il 4,5% del Belgio, il 7,1% della Gran Bretagna, l’8,3% dell’Olanda; dunque, sostiene il documento, c’è “un ampio margine alla crescita” dell’intervento privato “per colmare le lacune del pubblico”.

Welfare sostituivo, ca va sans dire. In questo  testo si definiscono anche le finalità del welfare aziendale: a) benessere del lavoratore e della sua famiglia; b) effetti positivi sul clima dell’impresa; c) ottimizzazione delle risorse economiche e finanziarie dell’impresa; d) miglioramento del capitale umano e della produttività; e) nuove logiche relazionali e concertazione con tutti i soggetti coinvolti. Una specie di miracolo. Le aree di intervento sono, infine, quella “del tempo”, quella “della famiglia” e quella “del se’”.

Il fatto che la politica – con differenze nominalistiche e di facciata tra centrodestra e centrosinistra – in nome dei vincoli di bilancio e dell’”ineluttabilità” dei tagli alla spesa sociale, favorisca le modifiche legislative finalizzate a sviluppare il welfare aziendale, non esclude l’emergere di contraddizioni stridenti. Nel testo dell’accordo siglato nel 2016 alla solita Luxottica da azienda, sindacati di categoria e Rsu, colpisce il meccanismo definito per garantire in qualche modo la “staffetta generazionale” praticata nell’ultimo mezzo secolo nell’occhialeria bellunese. La continuità di questa esperienza, si legge nel testo, è messa in difficoltà “da recenti riforme in materia pensionistica e di ammortizzatori sociali” che “frenano il turnover”. Tradotto vuol dire che la riforma Fornero impedisce, con l’allungamento dell’età lavorativa, il ricambio generazionale. I contraenti l’accordo ne prendono atto e trovano il modo per non interrompere un’esperienza positiva: i lavoratori più anziani – e più usurati, aggiungiamo noi – che non possono più andare in pensione come in passato potranno, su scelta volontaria, passare al lavoro part-time “garantendo – si precisa – il sostegno del costo dei contributi previdenziali volontari per la parte venuta a mancare”. In questo modo fino a 100 giovani saranno assunti con contratto a tempo indeterminato.

 

6. Di fronte a un processo europeo

Il processo di cui stiamo ragionando non è soltanto italiano ma globale, certamente europeo, solo che qui, come abbiamo detto, non esistono reti di salvataggio previste altrove. E per di più, con il prolungarsi della crisi economica vengono a mancare le forme di welfare tipicamente italiane, primo tra tutti il welfare familiare: se nonni e nonne restano in servizio permanente, come racconta Elena de Marchi in uno dei molti articoli sul welfare dal basso che compongono l’ultimo numero monografico della rivista Zapruder, viene meno il sostegno garantito ai giovani dai genitori. Ciò che più ferisce l’esercito dei nuovi disoccupati ultra cinquantenni, troppo vecchi per trovare un nuovo lavoro e troppo giovani per la pensione, è l’impossibilità di aiutare i figli (vedi “Non ho l’età”, già citato). Un fenomeno che coinvolge, a spanne, quasi un milione di famiglie. Di nuovo welfare e welfare informale si discute in molti ambiti, culturali politici e “generazionali”, e il pregevole lavoro di Zapruder aiuta fare il punto sulla situazione, se non ancora un bilancio, senza nascondere i limiti oltre che le chance “per i nuovi modelli di protezione e auto protezione della società” sempre più orfana del welfare state. Così si conclude l’editoriale di Beppe De Sario e Antonio Lenzi: “In una stagione di sgretolamento dei diritti sociali europei e delle stesse ragioni fondative dell’Unione, l’erosione del welfare state prende forme specifiche ma tenute assieme da pulsioni nazionalistiche e istinti neoliberisti ammantati di comunitarismo, come ha sottolineato anche Stuart Hall a proposito della visione di Big society dei conservatori britannici. Eppure il rischio di un welfare della diseguaglianza, che sancisca le fratture della solidarietà sociale europea, trova oggi un simbolo e forse un antidoto proprio nelle figure dei migranti, dei poveri, delle minoranze, dei richiedenti asilo, dei profughi. Le loro esperienze di vita – attraverso le frontiere e nel cuore della società – riecheggiano certo limiti e involuzioni del welfare novecentesco; eppure tornano a rappresentare la parte fuori dall’ordine che ci rammenta un futuro del welfare ancora da immaginare”.

Mentre ci sforziamo di immaginare un nuovo welfare che sostituisca quello vecchio, diventato “della diseguaglianza”, non dobbiamo perdere d’occhio le conseguenze, anche politiche, dei processi in atto, rottamatori delle conquiste novecentesche. Con la vaporizzazione della solidarietà che accompagna la fine dell’universalità dei diritti, cresce tra i lavoratori l’aziendalismo, una sorta di refugium peccatorum. Perche’ stupirsi dunque dell’approfondirsi del fossato che li separa dalla politica, o della loro ricerca non più di un progetto, ma della rappresentanza del disagio? Se poi a occuparsi del disagio in Italia non ci sono Siriza o Podemos ma i Cinque stelle, questa non è certo colpa dei lavoratori.

 

Category: Lavoro e Sindacato, Welfare e Salute

About Loris Campetti: Nato a Macerata nel 1948, ha conseguito la laurea in Chimica nel 1972 e ha insegnato per anni nella scuola media. Entra nel mondo del giornalismo sul finire degli anni '70, dirigendo per circa dieci anni la redazione torinese de il Manifesto. Negli anni successivi per lo stesso quotidiano è inviato per le questioni europee, caposervizio dell'economia e caporedattore. Ha fatto parte del comitato di gestione de il Manifesto. Esperto di relazioni industriali i suoi articoli e libri sono dedicati a questioni sindacali.Ha pubblicato il libro Non Fiat (Cooper , Castevecchi 2002) e Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevole negligenza, sui Riva e le istituzioni (Editore Manni 2013)

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