Ivan Franceschini: Finestra sul lavoro e sindacato in Asia. Cina, Vietnam e Cambogia

| 6 Agosto 2015 | Comments (0)


 

Diffondiamo dal Rapporto Made in China 2014 redatto da Ivan Franceschini per l’Iscos Cisl l’editoriale  e  due interviste significative sul lavoro in Vietnam e Cambogia

 

1. Ivan Franceschini: Germogli di società civile calpestati in Cina

 

Come da consuetudine, l’uscita di questo terzo numero di Made in China è un’occasione per tirare le somme sull’anno appena concluso.

Leggendo queste pagine, scoprirete come il 2014 abbia portato alcune novità per i lavoratori cinesi. Sul fronte delle buone notizie, a parte l’introduzione di alcuni miglioramenti a livello legislativo, quali un emendamento alla Legge sulla Sicurezza sul Lavoro, le autorità di Pechino hanno confermato l’intenzione di procedere con una riforma graduale del sistema della registrazione famigliare, il cosiddetto hukou. Stando a una serie di documenti ufficiali pubblicati nel corso di quest’anno, con l’eccezione di alcune mega-città, saranno presto eliminate quelle barriere che oggi impediscono a decine di milioni di migranti di usufruire dei servizi pubblici nei centri urbani in cui lavorano. Anche se la ricezione tra i migranti non sempre è stata entusiastica – in fondo, la questione dello hukou rimane strettamente collegata a un problema complesso quale quello della terra – diverse provincie cinesi hanno già adottato misure per facilitare il passaggio tra hukou rurale e urbano, con alcuni governi locali che hanno addirittura eliminato ogni distinzione tra i due status.

Purtroppo però le ragioni di preoccupazione non sono poche. A margine delle riforme, nell’anno appena passato le autorità cinesi hanno intrapreso ancora una volta una campagna di intimidazioni e violenze ai danni delle organizzazioni della società civile attive nel campo del lavoro. Se già in passato – in particolare nel 2012 – si erano verificate analoghe ondate di repressione, la sensazione è che oggi la nuova leadership stia agendo in maniera più decisa e sistematica, nell’ottica di una generale riorganizzazione dei rapporti tra stato e società civile. In questo nuovo disegno, sfortunatamente non c’è spazio alcuno per realtà semi-autonome quali le ONG del lavoro che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Ugualmente preoccupanti poi sono i nuovi segnali di chiusura sulla questione del diritto di sciopero, espunto in fase di stesura da un regolamento sulla negoziazione collettiva recentemente adottato nella provincia del Guangdong, così come il rallentamento nella crescita dei salari, con neppure due terzi delle provincie e municipalità cinesi che hanno innalzato il salario minimo negli ultimi dodici mesi.

Se 2013 e 2014 sono stati anni di transizione in cui la nuova leadership ha cercato di consolidare la propria presa sul potere, il 2015 sarà un momento chiave per comprendere che direzione prenderanno le riforme. Nell’anno a venire, non solo si vedrà come le linee guida per la riforma dello hukou saranno messe in pratica, ma si capiranno anche le intenzioni delle autorità di Pechino nei confronti delle organizzazioni della società civile, se la campagna intimidatoria proseguirà fino al totale annichilimento di queste realtà, oppure se sarà possibile trovare un compromesso che ne garantisca la sopravvivenza. Certo è che al momento la situazione appare drammatica, con il governo cinese impegnato a rafforzare la propria presa sulla società civile in una nuova svolta autoritaria dopo anni di relativo rilassamento. Non è un’esagerazione affermare che oggi si sta assistendo alla sistematica distruzione di quei “germogli di società civile” emersi in Cina nei vent’anni passati, tuttavia ciò che è davvero sconcertante è come tutto questo stia accadendo nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale.

 


 

2. Intervista a cura di Ivan Franceschini a Ath Thorn, presidente della Confederazione Cambogiana del lavoro: I recenti scioperi dei lavoratori tessili

 

Il tre gennaio del 2014, soldati delle forze armate cambogiane hanno aperto il fuoco su una manifestazione di lavoratori alla periferia di Phnom Penh, lasciando sul terreno almeno quattro morti e diverse decine di feriti. Questo ha posto fine a uno sciopero – mirato a chiedere un raddoppio del salario minimo legale a centosessanta dollari – che per due settimane ha paralizzato l’industria tessile cambogiana, settore portante dell’economia nazionale. Da allora la situazione sembra essere rientrata, ma la tensione rimane alta. Il salario minimo è stato alzato a cento dollari, ma sul capo dei sindacati pende un’ondata di denunce presentata da imprenditori che hanno visto la propria produzione e i propri impianti danneggiati dalle proteste dei mesi scorsi. Allo stesso tempo, uno sciopero “silenzioso” previsto per la metà di marzo è miseramente fallito di fronte alle divisioni del fronte sindacale e alla necessità dei lavoratori di guadagnare abbastanza per permettersi di tornare a casa a testa alta il prossimo capodanno khmer, che cadrà alla metà di aprile. Ora vi è attesa per ulteriori trattative tra governo, organizzazioni dei datori di lavoro e sindacati, anche se è improbabile che queste porteranno ad un ulteriore aumento del salario minimo. Qui di seguito vi proponiamo un’intervista con Ath Thorn, Presidente della Confederazione Cambogiana del Lavoro (CCL), raccolta a Phnom Penh l’11 gennaio del 2014.

 

D: Può presentare ai lettori di questa newsletter la sua organizzazione?

R: La CCL è una delle principali confederazioni sindacali in Cambogia. In questo paese ci sono sindacati che sono vicini al partito al governo, altri che sono vicini all’opposizione e alcuni altri che sono indipendenti. La CCL fa parte di quest’ultimo gruppo. Il nostro obiettivo è assicurarci che i lavoratori cambogiani siano trattati con giustizia, il che significa buoni salari, buone condizioni lavorative e vera libertà di associazione. Per raggiungere questo scopo, lavoriamo su tre aspetti: in primo luogo, formiamo leader sindacali e attivisti sul diritto del lavoro e sugli ultimi sviluppi politici ed economici; in secondo luogo, organizziamo nuovi sindacati industriali o proviamo a rafforzare i sindacati già esistenti; infine, rappresentiamo i lavoratori sia alla base che a livello nazionale. Al momento, CCL copre nove settori, inclusi il tessile, il turismo, le costruzioni, i servizi pubblici, l’agricoltura e il lavoro informale. Abbiamo filiali in tutto il Paese, per un totale di oltre ottantamila membri.

 

D: Quali sono state le ragioni alle spalle del recente sciopero dei lavoratori tessili?

R: Secondo le conclusioni raggiunte da un comitato consultivo composto da rappresentanti del governo, dei datori di lavoro e dei dipendenti, un lavoratore che vive a Phnom Penh oggi spende almeno 157-177 dollari al mese. Eppure il salario minimo rimane a ottanta dollari al mese, quindi puoi immaginare quanto sia dura. Per sopravvivere i lavoratori devono fare straordinari, quindi finiscono a lavorare dodici ore al giorno, senza alcun riposo la domenica o durante le feste. Normalmente, in questo modo possono guadagnare attorno ai 140 dollari, che pure sono a malapena sufficienti a sopravvivere. Per questo provano a mangiare meno e vivono in condizioni pessime, con sei o più persone in una sola stanza e appena un bagno comune all’esterno. Inoltre, molti lavoratori tessili lavorano a stretto contatto con sostanze chimiche, tanto che svenimenti di massa accadono di frequente, specialmente nella stagione calda. Per questa ragione, molti lavoratori evitano le fabbriche tessili e cercano di trovare lavoro nei servizi o nel turismo. Alcuni emigrano in Tailandia, Corea o Malesia. In quanto sindacato, ci siamo confrontati diverse volte con le aziende e con il governo negli ultimi anni, ma ogni volta il salario minimo è stato alzato di una manciata di dollari. Quest’anno, siamo rimasti scioccati quando abbiamo sentito che il Comitato Consultivo sul Lavoro aveva deciso di aumentare il salario minimo di appena quindici dollari, da ottanta a novantacinque dollari a partire da aprile del 2014. I lavoratori si aspettavano di ricevere almeno 140 dollari e quindi il 24 dicembre sono scoppiati gli scioperi.

 

D: Cos’è successo a quel punto? Come sono scoppiate le violenze?

R: Il 27 dicembre il governo ha convocato un incontro con i sindacati e i datori di lavoro. Diverse centinaia di migliaia di lavoratori hanno marciato sul Ministero del Lavoro per chiedere salari più altri. Allora le autorità hanno deciso di aumentare il salario minimo di altri cinque dollari, portandolo a cento, ma questo non è stato abbastanza per soddisfare i lavoratori e lo sciopero è proseguito. Il governo a quel punto ha ordinato ai lavoratori di tornare al lavoro ha minacciato di portare in tribunale i sindacati coinvolti nella mobilitazione. Quando, il 2 gennaio, i lavoratori si sono rifiutati di obbedire, violenze sono scoppiate nei pressi della fabbrica Yak Jin, un impianto di proprietà coreana e statunitense. Laggiù l’esercito è ricorso alla violenza contro i dimostranti, picchiando cinquanta persone, inclusi monaci, attivisti e lavoratori. Quindici persone sono state arrestate, ma grazie all’intervento delle Nazioni Unite, cinque monaci sono stati rilasciati dopo breve tempo. Gli altri rimangono ancora oggi in custodia. Lo stesso giorno, altri dimostranti sono stati picchiati dalla polizia fuori da un’altra area industriale, il Canadia Park. Di prima mattina il giorno successivo, forze speciali dell’esercito sono state spiegate all’esterno del Canadia e hanno iniziato a sparare sulla folla, uccidendo almeno quattro persone e ferendone quaranta. Non solo altre tredici lavoratori sono stati arrestati, ma di tre persone non si ha più alcuna notizia da allora. [Nota: due dei ventitré arrestati sono stati successivamente rilasciati su cauzione, ma gli altri sono tuttora in prigione in una struttura ad alta sicurezza nei pressi del confine con il Vietnam]

 

D: Molte voci si sono levate per criticare la richiesta dei lavoratori e dei sindacati di raddoppiare il salario minimo, sostenendo che si tratta di una pretesa potenzialmente distruttiva per l’economia cambogiana. Come risponde a queste critiche?

R: L’ammontare di 160 dollari non è una richiesta arbitraria. Come ho menzionato in precedenza, una ricerca ha stabilito che un lavoratore a Phnom Penh ha bisogno almeno di 157-177 dollari al mese per vivere. Se il governo avesse accettato di negoziare con noi e avesse acconsentito ad innalzare il salario minimo a 130 o 140 dollari al mese, credo che avremmo potuto convincere i lavoratori a tornare a lavorare. Non penso che questo sia abbastanza per spaventare gli investitori stranieri. Ora come ora, i principali acquirenti di prodotti tessili cambogiani sono scioccati dal fatto che il governo cambogiano sia ricorso alla violenza contro i lavoratori e hanno chiesto ai propri fornitori di iniziare a negoziare i salari immediatamente. Il costo del lavoro è solamente una piccola percentuale dei costi di un’impresa. In passato, una ricerca ha calcolato che ogni lavoratore portava all’azienda circa 280 dollari al mese, mentre il costo del suo lavoro si aggirava attorno ai 55 dollari. Inoltre, il numero delle fabbriche tessili in Cambogia sta ancora crescendo: ora ce ne sono circa 960, rispetto alle 500 dell’anno precedente. Se le aziende non traggono vantaggio dalla situazione, perché continuano a venire? Perché non si prendono cura del benessere dei propri dipendenti? Se avessero a cuore i dipendenti, i lavoratori avrebbero più capacità e energie da dedicare alla produzione.

 

D: Avete ricevuto qualche pressione dal governo?

R: Il governo ha minacciato di sospendere la nostra licenza e di usare la legge contro di noi. Anche diverse aziende stanno minacciando di farci causa per i danni causati dai lavoratori durante lo sciopero. Eppure, secondo la legislazione sul lavoro cambogiana, i lavoratori hanno il diritto di scendere in sciopero se non viene loro permesso di negoziare.

 

D: Cosa possono fare i sindacati internazionali per sostenere la vostra causa?

A: I sindacati internazionali, soprattutto quelli italiani, hanno molta esperienza. Sindacati giovani come noi si trovano ad affrontare diversi problemi: da un lato, ci sono i datori di lavoro, che stanno provando a distruggerci; dall’altro, ci sono il governo e i sindacati gialli. Ci troviamo in una situazione pessima. I sindacati internazionali possono aiutarci formando i nostri sindacalisti e i lavoratori, condividendo esperienze e rafforzando il dialogo sociale. Abbiamo bisogno dei sindacati internazionali anche per mettere sotto pressione il governo e gli acquirenti. Questo tipo di cooperazione sarebbe una grande opportunità per i sindacati cambogiani.

 

Ulteriori letture:

– Asian Monitor Resource Centre, A Week that Shook Cambodia: A Fact-Finding Report on the General Strike and Violent Crackdown in Cambodia

– I. Franceschini, Schiavi del telaio?

– I. Franceschini, Voci da Veng Sreng

 

 

3. Intervista di Ivan Franceschini a Angie Tran Ngoc (docente di economia politica presso la California State University, nella foto) sull’istallazione di una piattaforma petrolifera cinese in acque contese con il Vietnam

 


L’undici maggio, l’installazione di una piattaforma petrolifera cinese in acque contese con il Vietnam ha scatenato un’ondata di proteste tra i cittadini vietnamiti. Nei giorni successivi, i lavoratori in diverse aree industriali sono scesi in sciopero contro i propri datori di lavoro cinesi. La mobilitazione ha presto preso una piega violenta, con fabbriche assaltate e date alle fiamme e diverse aggressioni ai danni del personale cinese. Stando al Ministero degli Affari Esteri di Pechino, il bilancio finale degli scontri sarebbe stato di quattro morti e un centinaio di feriti. Sebbene il governo di Hanoi abbia reagito con centinaia di arresti, le conseguenze per l’economia locale sembrano destinate a essere durature. Secondo fonti locali vietnamite riprese dalla stampa cinese, sessantamila lavoratori sarebbero rimasti senza lavoro a causa della chiusura a tempo indeterminato delle fabbriche danneggiate. Di questi, quarantamila riceveranno dei sussidi, gli altri saranno semplicemente liquidati. Allo stesso tempo, centinaia di cinesi residenti in Vietnam si sono riversati nei paesi confinanti, in particolare in Cambogia, in attesa di capire l’evolvere della situazione. Questi tragici eventi hanno portato all’attenzione del pubblico mondiale non solo i sommovimenti geopolitici che stanno avendo luogo in Asia Orientale, ma anche l’esistenza – fin troppo spesso ignorata – di una nuova classe operaia vietnamita che non esita a giocare un ruolo attivo nella vita pubblica del paese. Per meglio comprendere le dinamiche dell’attivismo operaio in Vietnam, abbiamo intervistato Angie Tran Ngoc, professoressa di economia politica presso la California State University e autrice di un recente libro sul movimento dei lavoratori nel paese.

 

D: Dal 2006 il Vietnam ha vissuto una crescita notevole nel numero delle proteste operaie, tanto che da più parti si è parlato di una “ondata di scioperi”. Purtroppo però non ci sono molti studi che prendono in considerazione il periodo posteriore al 2011. Potrebbe dirci com’è cambiata la situazione negli ultimi anni? Il numero degli scioperi continua a crescere oppure lo scontento operaio si è in qualche modo attenuato?

R: Per prima cosa, capiamo cosa è stata quest’“ondata di scioperi.” In Ties That Bind, il mio libro del 2013, ho analizzato le organizzazioni dei lavoratori e le proteste operaie in Vietnam nell’arco di oltre un secolo, con un’attenzione particolare all’attivismo nell’era del Doi Moi (rinnovamento o riforme di mercato), dal 1986. Le ondate di scioperi sono state tre, non solo quella del 2006. L’ondata del 2006 riguardava il congelamento settennale del salario minimo. Quegli scioperi costrinsero lo stato a legiferare e i proprietari delle fabbriche a investimento estero ad accettare un aumento del 40 per cento del salario minimo. L’anno successivo, i lavoratori invece chiedevano aumenti salariali adeguati a compensare l’inflazione galoppante, una situazione che portò le autorità a istituzionalizzare degli aggiustamenti annuali dei salari calcolati sulla base dell’inflazione a cominciare dal gennaio del 2008. Infine, nel 2008 gli scioperi prendevano di mira quei datori di lavoro stranieri che ancora rifiutavano di rispettare la decisione di riaggiustare i salari annualmente sulla base dell’inflazione. Anche se il mio libro copre gli scioperi dal 1995 al 2011, ho continuato a seguire quanto sta accadendo nelle fabbriche vietnamite. Nel considerare i dati statistici, è importante tenere bene in mente the l’economia e la politica vietnamite sono ora intrecciate con il sistema capitalistico globale. L’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) nel gennaio del 2007, la crescente inflazione, la crisi finanziaria globale dell’ultima parte del decennio scorso, così come altre questioni mondiali e regionali, hanno tutte un impatto sui lavoratori vietnamiti.

Nonostante il numero degli scioperi riportati sembri essere sceso negli ultimi anni, lo scontento dei lavoratori vietnamiti non si è placato e le azioni industriali non sono diminuite. Negli ultimi tre anni, gli scioperi riportati mostrano una diminuzione costante: 981 scioperi nel 2011, 539 nel 2012 e 355 nel 2013. La maggior parte di questi scioperi (circa il 70 per cento) ha avuto luogo in fabbriche sindacalizzate; oltre il 70 per cento è successo in imprese di proprietà coreana e taiwanese, per lo più impianti in cui si assemblano per l’esportazione prodotti tessili e scarpe di pelle.

Ciò però non significa che ci siano stati meno scioperi. Questo perché, da sempre, i giornali vietnamiti progressisti che si occupano di lavoro si tengono in equilibrio su una linea sottile che divide ciò che possono riportare e ciò che invece non possono scrivere a causa dei limiti imposti dal partito-stato. Prima che il Vietnam entrasse nell’OMC, lo stato si sentiva costretto a mostrare una certa tolleranza nei confronti del dissenso sul lavoro e della copertura da parte di media “indipendenti.” Questi giornali allora erano in grado di criticare quegli apparati dello stato che, irresponsabilmente, ignoravano le richieste dei lavoratori. Così, essi giocarono un ruolo decisivo nel raccontare quotidianamente l’ondata di scioperi del 2006 che portò tutti gli attori chiave al tavolo dei negoziati, sfociando in un aumento del 40 percento del salario minimo e in una successiva istituzionalizzazione dei riaggiustamenti annuali dei minimi salariali sia per le imprese a investimento estero che per quelle domestiche sulla base dell’inflazione. Tuttavia dopo l’ingresso del Vietnam nell’OMC e man mano che la preoccupazione dello stato per la propria legittimità aumentava a causa del diffondersi degli scioperi, la situazione è cambiata. Dal 2008, lo stato ha limitato non solo i tentativi di resistenza dei lavoratori, ma anche l’attività di questi media. In generale, meno scioperi sono stati riportati sulle pagine di questi giornali, ma questo non significa che le proteste operaie non continuino a verificarsi regolarmente.

 

D: In base alla sua esperienza, quali sono le ragioni principali degli scioperi nel Vietnam di oggi? È vero che, come hanno sostenuto in molti, sta avendo luogo una transizione da proteste basate sui diritti a proteste basate sugli interessi?

R: Non sono d’accordo con questa impostazione semplicistica e anche quanto emerge sul campo dagli scioperi non supporta l’idea di “una transizione da mobilitazioni basate sui diritti a mobilitazioni basate sugli interessi.” Innanzitutto, dalla mia ricerca è emerso che non è possibile separare i diritti dagli interessi! Si tratta di una biforcazione artificiale e irrealistica, che privilegia il linguaggio dello “stato di diritto” adottato sin dal 2001, quando il Vietnam si è ulteriormente integrato nel mondo neoliberale, sorvolando su contesti storici e politico-economici molto più complessi. Una simile divisione non riflette le voci reali dei lavoratori, i quali per identificare le ragioni di uno sciopero spesso usano le parole quyền lợi, “diritti e benefici” come un unico concetto interconnesso, non due. Anche il sindacato centrale – la Confederazione Generale del Lavoro Vietnamita (CGLV) – ha riconosciuto questa inseparabilità. Dal 2010, essa ha riconosciuto tre categorie di sciopero: scioperi per i diritti; scioperi per gli interessi; e una combinazione dei due. Anche nei paesi sviluppati, è forse possibile separare le “assicurazioni sociali, sanitarie e per la disoccupazione” dagli standard lavorativi minimi?

Nei testi delle leggi, questa distinzione tra diritti (requisiti legali stabiliti dalla legislazione sul lavoro) e interessi (richieste superiori ai requisiti legali) tende a servire gli interessi potenti della comunità degli investimenti esteri, non gli interessi dei lavoratori. Questa separazione, codificata in due rispettivi articoli nella sezione sugli scioperi inclusa nel Capitolo 14 della Legge sul Lavoro, permette gli scioperi solamente quando il management non rispetta interessi su cui si è già raggiunto un accordo. Se le violazione invece riguardano “diritti,” i lavoratori devono trovare una soluzione con il management nei tribunali del lavoro, non attraverso gli scioperi. Tuttavia nella vita reale, la maggioranza delle violazioni continua a riguardare standard lavorativi minimi stipulati nella Legge sul Lavoro, e i lavoratori non hanno né il tempo né le risorse necessarie per portare in tribunale il management.

Ad esempio, una delle “violazioni dei diritti” fondamentali che compare tra le ragioni citate più spesso per gli scioperi “selvaggi” in Vietnam è il mancato pagamento dei contributi sociali e sanitari da parte delle aziende. Per legge, il management deve versare il 15 per cento del totale dei salari per l’assicurazione sociale e il 2 per cento per l’assicurazione sanitaria, mentre i lavoratori sono tenuti a pagare il 6 per cento del salario all’assicurazione sociale. Tuttavia, mentre i salari dei lavoratori vengono regolarmente dedotti, dei manager privi di scrupoli spesso si appropriano di questi fondi per i propri interessi e non contribuiscono al fondo generale per l’assicurazione sociale come richiesto per legge. Per capire meglio le strategie adottate dal management per evitare di versare i contributi ai lavoratori, si può far riferimento al mio libro. Una delle modalità più diffuse consiste nel non pagare i contributi dei lavoratori sulla base dei salari totali – che dovrebbero includere anche gli straordinari –  ma solamente sui loro salari di base, cosa che risulta in benefici (assicurazione sociale e sanitaria) sotto-finanziati e assolutamente nessuna assicurazione contro la disoccupazione nel caso in cui la fabbrica chiuda e i lavoratori perdano il lavoro. Un altro esempio dell’inseparabilità di diritti e interessi può essere trovato nella necessità di un salario sufficiente a sopravvivere, superiore al minimo stabilito dallo stato. Nel 2014, il salario minimo per le aree urbane (la regione con il livello più elevato rispetto alle aree suburbane e rurali) – circa 128 dollari al mese – copre appena il 75 per cento delle necessità basilari dei lavoratori.

Una crisi in corso proprio in questo periodo ben dimostra l’interconnessione di diritti e interessi. Il futuro dei sotto-finanziati fondi di sicurezza/assicurazione sociale, ormai in procinto di collassare, è oggetto di discussione nel parlamento vietnamita proprio mentre stiamo parlando! I debiti si stanno accumulando. Stando a dati dell’Ufficio della Sicurezza Sociale vietnamita, alla fine di marzo del 2014 i debiti della sicurezza sociale nazionale ammontavano a oltre 524 milioni di dollari – una crescita del 18 per cento rispetto al 2013 – dei quali 381 milioni erano debiti per la sicurezza sociale e oltre 143 milioni debiti per la sanità. In una situazione del genere, i lavoratori sono coloro che ci rimettono di più. Centinaia di migliaia di lavoratori si sono trovati con salari ridotti per pagare le tasse, ma il management o si è appropriato di questi soldi per i propri interessi o semplicemente si è rifiutato di contribuire ai fondi previdenziali, ignorando quanto previsto dalla Legge sul Lavoro. I lavoratori poi rimangono bloccati quando i proprietari o i manager scappano dal paese o si spostano in un’altra regione in Vietnam, lasciandosi alle spalle solo delle proprietà in affitto che non possono essere recuperate per pagare gli arretrati o i debiti.

A causa della propria mobilità, i lavoratori migranti soffrono molto più della manodopera locale. Quando perdono il lavoro, e con esso la propria assicurazione sociale e quella sanitaria, non possono permettersi di rimanere in città, ma devono emigrare in qualche altra provincia o regione per ricominciare daccapo. Ora come ora, su 300,000 imprese presenti in tutto il paese, solamente 150,000 partecipano e contribuiscono ai fondi per la sicurezza sociale (dati del Ministero del Lavoro, degli Invalidi e degli Affari Sociali). D’altra parte, la disciplina finanziaria dello stato nei confronti dei violatori è stata così inadeguata e la supervisione così inefficace – i funzionari statali sono oberati di lavoro – che il mancato rispetto delle norme non è stato punito e si è fallito nel dare un esempio a altri che portavano avanti le stesse attività illegali. Ancora una volta, i lavoratori sono stati coloro che hanno maggiormente sofferto a causa di queste violazioni dei loro diritti basilari. Questa è la ragione per cui sono scesi in sciopero. Molti sindacati locali progressisti li hanno aiutati a portare questi casi in tribunale. Tuttavia, come ho sostenuto nel mio libro, anche con un sistema legale affermato, i tribunali vietnamiti hanno fatto ben poco per smascherare e penalizzare i datori di lavoro che ingannavano sia i propri lavoratori che lo stato.

 

D: Sebbene Cina e Vietnam presentino notevoli affinità dal punto di vista del sistema politico e dell’organizzazione del lavoro, Anita Chan ha sostenuto che i lavoratori vietnamiti abbiano un livello di consapevolezza molto più elevato rispetto alle loro controparti cinesi. Secondo Lei, quali sono i fattori che contribuiscono maggiormente a plasmare la consapevolezza del lavoratore vietnamita?

R: Ancora una volta, eviterei di definirla nei termini di una consapevolezza dei “diritti” da parte dei lavoratori vietnamiti, in quanto piuttosto limitata – essa comunque privilegia il framework legale del sistema di mercato – e astorica. Non è solamente il linguaggio di “diritti contro interessi” che plasma la coscienza dei lavoratori in Vietnam. Come ho sostenuto nel mio libro, si tratta piuttosto della convergenza di una serie di legami: l’eredità storica socialista – inclusi alcuni diritti acquisiti che i lavoratori si aspettavano sotto il regime socialista, quali ad esempio l’assicurazione sociale, sanitaria e per la disoccupazione – così come quei fattori culturali (genere, luogo d’origine, etnia e religione) che uniscono i lavoratori in tempi buoni e cattivi, permettendo lo sviluppo di una coscienza di classe nei momenti di crisi.

In Vietnam, l’eredità storica rimane rilevante. Nella mia ricerca ho trovato prove che dimostrano come nel processo di privatizzazione delle imprese statali che ha avuto luogo dal 2002, i lavoratori si aspettassero che lo stato fosse all’altezza della visione socialista sotto la quale erano cresciuti. Si aspettavano che lo stato li proteggesse dai predatori (capitalisti) che volevano depredarli. Presentavano petizioni al governo, lanciavano appelli alla stampa che si occupava di lavoro e ai tribunali del lavoro, chiedendo a questi attori di difendere quegli stessi valori socialisti che lo stato aveva sposato, nonché di garantire loro la liquidazione e il risarcimento che gli spettavano. I giovani lavoratori non statali, che hanno poca o addirittura nessuna esperienza di vita sotto un regime socialista, ugualmente invocavano l’ideologia socialista (equità, giustizia, no allo sfruttamento) nelle proprie varie forme di lotta. Certamente, le cose potrebbero cambiare in futuro, dato che i lavoratori più giovani, cresciuti in un sistema di mercato con la propria logica e centrato sulla crescita degli investimenti esteri diretti, sono molto più distaccati da una simile coscienza della giustizia.

Tuttavia, in generale, ciò che i lavoratori hanno ricordato allo stato inviando petizioni e lamentele alla stampa e combattendo i capitalisti di oggi per tornare ad avere indennità non salariali e benefici distribuiti nell’ormai conclusa era socialista era un certo senso di titolarità che non necessariamente coincideva con i diritti. Monitorando gli scioperi negli ultimi anni (fino al 2014), ho scoperto che la maggior parte dei lavoratori esprimono preoccupazione per violazioni basilari dei propri diritti e che questi diritti sono strettamente collegati ai cosiddetti “interessi.”

 

D: Come la Cina, il Vietnam ha una legislazione sul lavoro in continua evoluzione. Solo nel 2012 sono stati introdotti un emendamento alla Legge sul Lavoro e una nuova Legge sui Sindacati. Anche in Vietnam, come in Cina, la legge rimane spesso lettera morta a causa della scarsa volontà dei governi locali di supervisionarne l’applicazione?

R: La Legge sul Lavoro vietnamita è molto progressista, specialmente per quanto riguarda la tutela delle donne. Tuttavia, fin troppo spesso essa non è applicata in maniera appropriata nel contesto della catena di fornitura globale, con i suoi rapporti di potere sbilanciati. Un esempio è la già menzionata crisi dell’assicurazione sociale. Ecco come funziona la catena di fornitura globale: la maggioranza dei lavoratori vietnamiti si trova al livello più basso (livello tre) e assembla vestiti e scarpe per fabbriche a contratto/fornitori a investimento estero diretto (livello due), i quali a loro volta prendono ordini da imprese multinazionali (livello uno). Le multinazionali sono molto esperte nel calcolare il prezzo del subappalto sulla base del salario minimo stabilito dal governo (spesso non sufficiente neppure a sopravvivere) e tendono a non approvare le indennità non salariali richieste dai fornitori di secondo livello per calmare i lavoratori. A volte, le fabbriche del secondo livello usano questo come scusa per non accettare le richieste dai lavoratori, anche quando gli aumenti rappresenterebbero solamente una percentuale minima del prezzo di appalto pagato ai fornitori.

La Legge sui Sindacati del 2012 ha offerto un modo per rafforzare la posizione dei lavoratori che allo stesso tempo rappresenta anche un interessante sviluppo recente riguardante il sindacato. Sebbene a oggi la maggior parte degli scioperi abbia avuto luogo in fabbriche sindacalizzate, essi sono comunque considerati scioperi “selvaggi,” in quando non condotti dalla CGLV, ma da lavoratori che spesso rimanevano in condizioni di clandestinità per evitare di essere presi dallo stato e dal management. Riconoscendo la debolezza della CGLV e la forza degli scioperi condotti dai lavoratori, il sindacato ha iniziato a servirsi dell’articolo 5 della Legge, là dove si permette ai lavoratori di avviare e formare sindacati aziendali autonomamente (sempre sotto gli auspici generali della CGLV), invece di attendere che funzionari del sindacato di livello distrettuale o provinciale approccino il management. I funzionari della CGLV sperano che questo farà emergere dei leader di base tra i lavoratori stessi, persone aventi lo stesso background dei lavoratori e rispettati da questi ultimi, pertanto in grado di condurre uno sciopero quando necessario. Questo rafforzamento dei lavoratori al livello di base è una notizia positiva che ben si accompagna al processo di contrattazione collettiva. Sarebbe interessante monitorare i risultati di una tale iniziativa, onde facilitare e rafforzare l’organizzazione del lavoro.

Inoltre, i sindacati sono stati rafforzati da un forum molto potente: la stampa specializzata sui temi del lavoro. In un mio articolo del settembre del 2007, mi soffermavo sull’importanza dei giornali del lavoro, i quali hanno dato ai lavoratori una voce più forte di quanto non accade di solito nell’ambito di sistemi comunisti. Vorrei mettere in evidenza in particolare il ruolo dei due principali quotidiani del lavoro, centrati sui rapporti tra lavoro e management, soprattutto gli scioperi: il Người Lao Động (Il Lavoratore, forum ufficiale della Federazione del Lavoro della Città di Ho Chi Minh) e il Lao Động (Lavoro, l’organo di stampa del sindacato centrale, la CGLV, basata a Hanoi, ma con un ufficio anche a sud). Ho scoperto che sebbene siano tuttora incastonati all’interno della struttura dello stato e del sindacato, questi giornali hanno usato le proprie connessioni e la propria conoscenza del sistema per riportare conflitti all’interno della struttura dello stato e per mediare tra interessi ufficiali divergenti riguardanti l’organizzazione del lavoro a fronte del capitale straniero. I giornalisti hanno tentato di mantenere un equilibrio tra il servire i lavoratori e il dovere di rispondere alle agende politiche del partito, dello stato e dei sindacati.

 

D: In Cina, la comunità imprenditoriale ha sempre avuto una forte influenza sui processi legislativi che hanno portato all’applicazione di nuove leggi e politiche sul lavoro. Ad esempio, nel 2006 le autorità cinesi hanno radicalmente modificato i contenuti di una bozza della Legge sui Contratti di Lavoro favorevole ai lavoratori per evitare la “fuga dei capitali” minacciata dagli investitori stranieri. Che peso hanno gli interessi della comunità imprenditoriale nella formulazione delle politiche sul lavoro in Vietnam?

R: Sforzi lobbistici sostanziali in rappresentanza degli interessi imprenditoriali sia delle associazioni d’affari vietnamite che dei capitalisti globali (incluse la potente Camera di Commercio Americana e le camere di commercio dei principali investitori in Vietnam, quali Corea, Taiwan e Giappone) hanno influenzato la legislazione sul lavoro, in particolare la sezione sullo sciopero della Legge sul Lavoro e il Capitolo 14 della stessa Legge, riguardante la risoluzione delle dispute sul lavoro. In un mio articolo del dicembre del 2007, ho messo in luce due prospettive opposte che all’epoca già esistevano, ma che sarebbero poi riemerse con forza nel dibattito del 2011 che avrebbe portato all’approvazione dell’emendamento alla Legge sul lavoro: 1) Le posizioni pro-lavoro dei delegati delle province in cui gli scioperi sono più diffusi, i quali sostenevano l’inseparabilità di diritti e interessi; e 2) Le posizioni di coloro che invece si immischiavano con la comunità degli investimenti esteri  e volevano permettere ai lavoratori di scioperare solamente quando le violazioni riguardavano interessi, non diritti. L’emendamento del 2012 ha ulteriormente indebolito il ruolo dei lavoratori nel processo di risoluzione degli scioperi.

 

D: Secondo Lei, cosa possono fare il sindacato e la cooperazione internazionale per promuovere la tutela dei diritti dei lavoratori in Vietnam?

R: Ho due suggerimenti. In primo luogo, il movimento internazionale dei lavoratori può rafforzare i diritti sul lavoro in Vietnam contribuendo a potenziare strutture già esistenti: i centri di assistenza legale sul lavoro, stabiliti congiuntamente da alcuni sindacati locali e ONG internazionali, come Oxfam. Negli ultimi anni, questi centri hanno fornito assistenza legale gratuita a lavoratori migranti in condizioni di povertà, rafforzando così la posizione di questi ultimi nei negoziati con il management. I centri sono situati strategicamente in aree ad alta intensità di scioperi nel sud (Ho Chi Minh, Dong Nai, Binh Duong), ma più centri sono necessari nelle regioni settentrionali e centrali, dove pure avvengono scioperi. Questo modello può rafforzare direttamente i lavoratori e facilitare la solidarietà globale del lavoro attraverso la condivisione delle pratiche migliori e delle tecniche di negoziato, nonché mettendo in contatto i lavoratori vietnamiti con i lavoratori di altri paesi, sia online che di persona.

In secondo luogo, considerando come la CGLV stia cercando di rafforzare la capacità dei lavoratori di stabilire sindacati a livello aziendale, il movimento internazionale del lavoro può mandare sindacalisti esperti in Vietnam per condividere informazioni ed esperienze, insegnando ai funzionari del sindacato vietnamita alcune tecniche di contrattazione da mettere in pratica nella contrattazione collettiva. I funzionari della CGLV hanno espresso apertamente il bisogno di migliorare le proprie capacità tecniche di contrattazione. Penso che per essere in grado di negoziare salari sufficienti – non solo salari minimi – e altri benefici, questi sindacalisti abbiano bisogno di capire come funziona la catena di fornitura globale e il rapporto tra il primo e il secondo livello. Inoltre i sindacalisti e le ONG del lavoro globali possono illustrare alla CGVL il ruolo delle iniziative di responsabilità sociale dell’impresa (RSC) nell’economia globale, spiegando loro come richiedere alle imprese multinazionali di applicare genuinamente i codici di condotta (o gli standard lavorativi) – non solo a parole per accontentare i consumatori finali – e come far appello direttamente ai consumatori e utilizzatori finali nei paesi più sviluppati per migliorare le condizioni di lavoro e di vita in Vietnam.

 

Riferimenti bibliografici:

– Tran, Angie Ngoc. Ties That Bind: Cultural Identity, Class and Law in Flexible Labour Resistance in Vietnam, Southeast Asia Program (SEAP), Cornell University Press, November 2013;

– Tran, Angie Ngoc. “The Third Sleeve: Emerging Labour Newspapers and the Response of Labour Unions and the State to Workers’ Resistance in Vietnam,” Labour Studies Journal, Vol. 32, No. 3, pp. 257-279, September 2007;

– Tran, Angie Ngoc. “Alternatives to the “Race to the Bottom” in Vietnam: Minimum Wage Strikes and Their Aftermath, Labour Studies Journal, Vol. 32, No. 4, pp. 430-451, December 2007.

 



Category: Lavoro e Sindacato, Osservatorio Cina, Osservatorio internazionale

About Ivan Franceschini: Ivan Franceschini. Ha conseguito il Dottorato in Lingue, culture e società presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. Oggi è Marie Curie Fellow presso l'Australian Centre on China in the World (Camberra) con un progetto di ricerca sul lavoro cinese in prospettiva globale. Ha vissuto iim Cina dal 2006 e poi in Cambogia per un anno e mezzo. Ha pubblicato nel 2009 Cronache dalle fornaci cinesi (Cafoscarina). Nel 2010 ha curato Germogli di società civile in Cina (Brioschi) insieme a Renzo Cavalieri. Nel 2012 ha scritto il libro Cina.net Post dalla Cina del nuovo millennio, Edizioni O barra O. Nel 2015 ha curato il rapporto Made in China 2014 per conto dell'Iscos Cisl. Sempre nel 2015 ha curato e tradotto l'il libro di Lu Xun, Fuga sulla luna e altre antiche storie rinarrate, Edizioni ObarraO , Milano, 2015

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