Gianni Scaltriti: «Lavoro, salari, produttività e contrattazione nella metalmeccanica emiliana»

| 6 Aprile 2012 | Comments (0)

Gianni Scaltriti, Segretario generale FIOM-CGIL Emilia-Romagna, intervistato da Eloisa Betti, analizza come la crisi abbia inciso nelle imprese metalmeccaniche di questa regione e come le politiche nazionali siano diverse da quelle regionali

 

Qual è l’attuale dimensione della crisi nella metalmeccanica emiliana dal punto di vista occupazionale?

È necessario fare una premessa sulla dimensione e la portata della crisi e sulle possibili risposte: siamo di fronte alla crisi di un modello, di un paradigma di sviluppo. Siamo di fronte a un processo che richiede almeno una dimensione europea, come dimensione per intraprendere scelte di carattere strutturale che ridefiniscono nuovi scenari e nuovi livelli. Il mio orizzonte è quello di chi tenta di fare i conti con la situazione di questo Paese, e di questa regione, per tentare di non devastare ulteriormente ciò che è già stato devastato.

Dopo che nella prima metà del 2011 si erano manifestati segnali di ripresa che avevano permesso a tutti di dire che il primo semestre del 2011 si era quasi attestato sui livelli del primo semestre del 2007, (quindi eravamo quasi ovunque ritornati alle dimensioni dei volumi di produzione del pre-crisi) nella seconda metà del 2011 abbiamo una situazione di deflagrazione della crisi, sta ricomparendo la cassa integrazione in modo più massiccio e si sta innescando una dinamica di carattere recessivo che pare si estenderà a tutto il 2012.

Allora gli aspetti problematici in Emilia-Romagna sono sostanzialmente due: cassa integrazione e mercato del lavoro. Nel 2008 in Emilia-Romagna si registrano 8 milioni di ore di cassa integrazione, nel 2010 sono arrivate a 165 milioni. I problemi del mercato del lavoro: abbiamo perso 20.000 posti di lavoro ma il problema vero è che abbiamo 165 milioni di ore di cassa integrazione che nascondono un esubero strutturale di organico che si aggira attorno al 4% il che equivale a 60.000 posti di lavoro. Il problema è quindi che ci sono 60.000 posti di lavoro in più nell’industria emiliano-romagnola.

E cosa pensi delle misure messe in atto per contenere la crisi?

Il problema dell’occupazione, della sua qualità, della sua retribuzione e delle ricette per la produttività si possono affrontare da fuori le imprese o dentro le imprese. Io faccio il sindacalista e dovrei operare sui due terreni, ma facendo il sindacalista di una categoria come quella dei metalmeccanici sono portato ad operare dentro le imprese più che sul versante delle politiche del lavoro.

Io penso che non sia sbagliata la strada che si sta cercando di percorrere per quanto riguarda la situazione sociale e la copertura generale degli ammortizzatori sociali che intervengono nel mercato del lavoro. Io non capisco perché tutti i problemi del dualismo del mercato del lavoro debbano derivare da un ammortizzatore sociale, la cassa integrazione, che all’estero ci invidiano proprio perché entra in funzione prima dell’interruzione del rapporto di lavoro e quindi prima della messa fuori dei lavoratori dall’azienda, dalla fabbrica. In questo senso, l’unificazione significa unificare molte prestazioni generali in modo che tengano conto anche dei lavoratori che non sono a tempo indeterminato, ma di tutte le altre figure, figure che vanno ripulite anche ridotte nella direzione di difendere i lavoratori e le lavoratrici dall’abuso di forme contrattuali improprie.

Ritieni che nella metalmeccanica vi siano delle categorie particolarmente svantaggiate e/o oggetto di discriminazione sotto il profilo salariale e contrattuale?

Giovani e donne. Il problema è che chi decide le condizioni di accesso al lavoro sono solo le imprese, non c’entra la presenza del sindacato e le relazioni sindacali, sono le imprese che selezionano e che decidono a quali condizioni si lavora in modo più o meno trasparente. Se facessimo quello che vogliono le imprese sul versante della retribuzione giovanile e del mercato del lavoro la situazione sarebbe peggiore. L’ultimo caso emblematico è la richiesta del salario d’ingresso da parte della Marcegaglia: l’azienda deve fare le assunzioni ma vuole fare le assunzioni con il salario d’ingresso. Le politiche salariali del sindacato hanno sempre avuto come punto di riferimento la professionalità: le questioni legate agli scatti di anzianità sono state superate negli anni ’70. Oggi un lavoratore della metalmeccanica ha cinque scatti di anzianità biennali e può arrivare a mettere insieme al massimo 150-160 euro lordi in più, dopo 10 anni di lavoro in azienda.

D’altra parte, dal punto di vista salariale è assolutamente significativo lo sfruttamento che si fa dei giovani ma non riguarda solo loro, riguarda anche le donne: in Emilia-Romagna c’è il 14% di differenziale salariale fra uomini e donne. Sapendo che non abbiamo mai fatto politiche sessiste dal punto di vista contrattuale, ho l’impressione che siamo nuovamente di fronte al fatto che una discreta parte del monte salari delle lavoratrici e dei lavoratori è governata unilateralmente dall’azienda. Nelle imprese c’è sempre più un problema di governo, di trasparenza e degli affetti del mancato equilibrio del potere dentro le imprese.

Che impatto ha avuto la crisi sul cosiddetto modello industriale emiliano e, nello specifico, sull’industria metalmeccanica?

Essendo l’economia e la struttura industriale dell’Emilia-Romagna, soprattutto della metalmeccanica, più globalizzata e più internazionalizzata di altre aree e avendo imprese più attente e meglio posizionate sul fronte della produttività e redditività, la crisi ha colpito più pesantemente in Emilia che in altri posti. Le imprese emiliano-romagnole hanno quindi subito riflessi più accentuati, perché la fermata è di carattere più generale e ha riguardato anche le situazioni che avevano garantito in passato cicli congiunturali negativi alle imprese emiliano-romagnole di avere una certa tranquillità e un certo andamento. Concentrandoci sulla meccanica, va detto che la meccanica è un sistema che è connesso alle reti di fornitura e subforniture estere, francese e tedesca in particolare. Tutta l’industria legata all’automotive e quindi alla mobilità, intendendo sia la produzione di motori endotermici (per quanto riguarda le applicazioni delle automobili e dei camion, del movimento terra e dell’agricoltura) sia tutta la componentistica che entra in campo in questi cicli, pone l’Emilia-Romagna in una situazione che ha risentito moltissimo delle difficoltà di questi settori, sia dal punto di vista del mercato interno, sia dal punto di vista del mercato europeo e mondiale. Le imprese emiliano-romagnole erano posizionate in posizioni importanti nelle catene di fornitura, quindi di questi grandi settori, non soltanto per le imprese italiane (non solo FIAT ma anche CNA) ma anche per le imprese francesi ed europee: la conseguenza della crisi generale del modello di sviluppo si è risentita in modo molto particolare.

Rimangono fuori da questo ragionamento quei mercati dove le imprese sono leader, mercati che tuttavia non hanno le dimensioni in termini di volumi dell’automotive, come il mercato del packaging, la meccanica di precisione. Queste imprese non vedono quindi gli stessi riflessi in termini di ricorso alla cassa integrazione e abbassamento dei volumi, anche se dal punto di vista quantitativo non hanno paragone con gli altri mercati. La differenza è proprio tra i settori che hanno una funzione e un andamento anticiclico, che non dipende dal consumo ma dagli investimenti: nella meccanica, nel packaging non c’è il consumo della popolazione ma ci sono gli investimenti dei produttori che utilizzano quelle macchine per impachettare sigarette, farmaci, prodotti alimentari ecc… In quelle imprese non c’è riduzione di personale, non c’è ricorso alla cassa integrazione, gli strumenti di flessibilità stanno lì dentro, in una situazione normale.

Dove c’è la crisi si ha il ricorso alla cassa integrazione, il non aumento degli organici, quando c’è stata la ripresa congiunturale c’è stata solo una ripresa di assunzione terporanee, quindi il riutilizzo degli strumenti della precarietà.

Cosa pensi del fatto che gli industriali additino i bassi livelli di produttività come un problema cronico del sistema produttivo italiano, attribuendone parte delle responsabilità ai lavoratori?

Sulla produttività bisogna sottolineare che se non ci sono nuovi prodotti, se non si ridefiniscono i processi, l’unica produttività che si può ritrovare è attraverso la “coscrizione obbligatoria”. In questo senso, il problema della produttività è un problema complesso e dipende da come vanno le cose in azienda: se la produzione costituisce la strada maestra e quindi se si sceglie di ricercare la produttività tendendo all’innovazione dei prodotti, dei processi, dei modelli d’organizzazione o se invece si seguono altre strade che sono quelle della ricerca della mera riduzione dei costi semplicemente attraverso l’incremento dello sfruttamento dei lavoratori. Ci sono troppi premi di presenza che le aziende ci chiedono, sono troppi per il risultato che ci viene chiesto: la produttività. Se io definisco il premio di risultato in base al fatto che il lavoratore è presente o non è presente in fabbrica, quel lavoratore non viene spinto al miglioramento della produttività o dei processi.

Esiste ancora una relazione positiva tra salari, produttività e presenza di un  sindacato organizzato nelle fabbriche come la FIOM? È ancora attuale il modello di relazioni industriali alla base del successo del modello emiliano?

Le imprese emiliano-romagnole, e lo dimostrano anche i dati sull’andamento delle retribuzione, non sono collocate tra le imprese dove i costi dei salari sono bassi, sono collocate tra le imprese in cui i salari sono stati meglio difesi, ancorchè abbiamo perso potere d’acquisto rispetto alle dinamiche generali. La crescita dell’industria emiliano-romagnola è sempre avvenuta in un quadro in cui i salari ed il conflitto sociale legato alla presenza dei contratti, alla presenza del sindacato distribuita e diffusa è sempre stato un elemento di incentivazione, che ha interagito positivamente con il problema della crescita, della qualificazione e della produttività nella dimensione emiliano-romagnola. Quindi in questo c’è già un primo quesito per gli imprenditori che sollevano il problema: voi state sostenendo che ciò che è stato alla base di questa fase di sviluppo e qualificazione del modello non è più valido? Per crescere non c’è più bisogno di seguire una strada? Perché gli imprenditori devono porsi il problema di fare i conti con produttività, competitività, innovazione del prodotto e del processo in uno scenario in cui loro sanno per primi che il conflitto o meglio la presenza organizzata del sindacato non è mai stato un elemento di freno, ma di incentivazione, di sviluppo anche per l’impresa. Un’impresa che non ha a che fare con un punto di vista autonomo dei propri lavoratori è un’impresa a cui viene a mancare una motivazione per la competitività, rappresentata dal fatto che l’impresa per essere competivita deve essere anche in grado di offrire ai propri lavoratori, alle proprie maestranze una qualità del lavoro più elevata che i propri concorrenti.

Come si colloca in questo contesto l’articolo 8 introdotto dal governo Berlusconi? Che impatto ritieni che avrà sui livelli di contrattazione?

Sui livelli di contrattazione non possiamo dimenticare che in questo momento c’è l’articolo 8, che recita che a qualsiasi livello, su base aziendale o territoriale, le aziende possono derogare dal contratto nazionale. Ciò significa che in questo paese la prospettiva è che non esiste più un sistema di regolazione tale per cui l’impresa A che fa concorrenza all’impresa B ha alcune condizioni comuni. I contratti nazionali sono stati in questo modo impallinati egregiamente. Allora io sono uno strenuo sostenitore dei contratti nazionali, e non in alternativa alla contrattazione aziendale, perché va sottolineato che la contrattazione decentrata si fa in alcune imprese e in altre si fa meno. Abbiamo degli esempi ed il tempo è sempre più emblematico da questo punto di vista, il che significa che in azienda non ci sono più diritti, è l’impresa che decide: se tu sei dentro accetti questo patto, se non lo accetti sei fuori.

Cosa pensi dell’accordo FIAT non sottoscritto dalla FIOM ?

La cosa è molto semplice: l’accordo FIAT si pone come un accordo chiuso. In questo paese, se uno non è d’accordo a firmare non ha diritto a essere rappresentato nell’impresa. Se alla Fiat succede questa cosa qui, dove stiamo andando dal punto di vista delle relazioni sindacali? Se io firmo quelle condizioni alla FIAT e un’altra impresa di fianco mi dice: “ora hai fermato lì adesso firmi anche qui”. In questo modo, delle relazioni sindacali e del diritto del lavoro rimangono solo macerie. In questo senso, l’attacco al contratto nazionale, che è una delle caratteristica del nostro paese nel quadro delle relazioni sindacali europee, è assolutamente indicativo. La scelta di FIAT di uscire da Confindustria e di attaccare il contratto nazionale è assolutamente indice del fatto che a FIAT non interessa più il paese, ma il modello competitivo e quindi FIAT va alla ricerca dei propri livelli di competitività assumendo come punto di riferimento relazioni sindacali e modelli contrattuali che non c’entrano niente con la storia del nostro paese, che c’entrano con livelli di competitività degli altri stabilimenti FIAT. È una strategia a lungo termine, ma riconducibile nel caso di FIAT al fatto che i lavoratori devono essere subordinati totalmente alle selte dell’impresa e devono adeguarsi. Non è il problema che prendano di più e abbiano salari più elevati, il problema è i lavoratori debbono accettare quello che l’impresa stabilisce per loro, sia dal punto di vista delle cadenze e delle metodologie organizzative, sia dal punto di vista delle condizioni, dei diritti ecc… In questo senso, la scommessa e il problema del contratto collettivo specifico di FIAT, le politiche di Confindustria per quanto riguarda gli orientamenti generali e quelli assunti dal governo palesano questo aspetto: una destrutturazione e una ristrutturazione delle relazioni sindacali che vede l’azione sindacale completamente subordinata alle logiche dell’impresa.

Quindi se l’impresa ha produzioni di nicchia, può anche dare qualcosa in più a quei lavoratori, altrimenti prevalgono le generali dell’economia rispetto alla contabilità e al modello sociale. L’ultimo accordo separato che tenta di riportare dentro, in deroga al contratto nazionale, una finestra per il settore auto, così come c’è la finestra del settore sinderurgia, che recupera alcune caratteristiche e valori dell’accordo FIAT (sullo straordinario, sulla quantità di ore straordinarie che hanno a disposizione le imprese…). Sono tutti segnali che stanno ad indicare che Confindustria per reggere l’uscita di FIAT e frenare l’uscita di tutto il pezzo dell’indotto legato alla FIAT sta introducendo dentro il contratto nazionale dei meccanici alcune delle norme principali che caratterizzano il contratto collettivo specifico di lavoro che Marchionne ha voluto far firmare a FIM, UILM ecc… in FIAT.

In che senso la questione FIAT pone un problema più sostanziale di democrazia nei luoghi di lavoro e più in generale anche nella società?

Credo che la questione FIAT provocherà di nuovo un fronte generale di carattere nazionale: la questione FIAT pone infatti un problema di democrazia. In questo caso, visto che si tratta di un accordo e non di un ricatto, io sarei tentato di sfidare FIAT e il governo attraverso l’effettuazione di un referendum abrogativo come: “Chi è d’accordo ad abrogare il contratto collettivo specifico di lavoro che la FIAT ha imposto?”. Ci sono dei falsi, non è vero che l’accordo del 29 dicembre del 2010 ossia il cosiddetto “accordo di Pomigliano”, che è stato esteso a tutti attraverso questo contratto collettivo specifico di lavoro, fu sottoposto al voto dei lavoratori. Quindi in senso stretto è l’articolo 8, introdotto su richiesta della FIAT al ministro Sacconi, che permette la derogabilità del contratto nazionale e che sancisce che questi elementi di derogabilità del contratto nazionale siano validi se riconosciuti dalla maggioranza delle RSU o se sottoposti a referendum nel caso della presenza delle RSA. La prima conseguenza di quel quadro è che dal 1 gennaio 2012 in FIAT non esisteranno più le RSU elette dai lavoratori ma solo le RSA, elette esclusivamente dalle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto specifico di FIAT, perché FIAT riconoscerà solo quel tipo di rappresentanza. Ciò implica il tentativo di mettere in discussione le agibilità sindacali che riguardano la FIOM a tutti i livelli.

Quali sono gli effetti dell’accordo FIAT sulle strategie di altri grandi gruppi industriali, come ad esempio Federmeccanica?

Analogamente a quanto fatto da FIAT, Federmeccanica sta tendando di mettere in discussione le agibilità sindacali FIOM nelle altre aziende metalmeccaniche attraverso il recesso dal contratto del 2008, con la motivazione che la FIOM non è firmataria del contratto separato del 2009 e che il contratto del 2008 scade formalmente il 31 dicembre 2011. Formalmente, avendo presentato la piattaforma per il rinnovo del contratto del 2008, questo stesso contratto entra nella fase di “ultra-attività” cosa che implica che esso deve rimanere attivo perché è in corso il rinnovo del contratto stesso. Le indicazioni che Federmeccanica ha dato alle imprese rispetto alla posizione della FIOM sono abbastanza semplici. La FIOM non ha più diritto a 3 delle 10 ore di assemblea previste dallo statuto perché non è firmataria del contratto del 2009. Tuttavia, sul versante dell’iscrizione al sindacato Federmeccanica consiglia alle aziende di riconoscere le deleghe sindacali della FIOM e quindi le rispettive trattenute (i soldi dovuti alle deleghe sindacali), perché la FIOM continua a partecipare ad accordi e tavoli che riguardano anche le situazioni di crisi ecc…In generale, mi pare evidente che la situazione FIAT sta a cuore a molti in termini di generalizzazione, basta prendere in considerazione l’ultimo accordo separato di Fincantieri che prevedere il ricorso alla cassa integrazione straordinaria a 0 ore, procedura che ha sempre significato la predisposizione della lista degli esuberi. Si tratta in sostanza di licenziamenti mascherati perché quei lavoratori non rientreranno dallo strumento temporaneo della cassa integrazione firmato soltanto da FIM e UILM. Questo è uno degli esempi che anche in Emilia-Romagna ha avuto qualche precedente, nonostante il blocco dei licenziamenti che faceva parte degli accordi regionali per l’attraversamento della crisi.

Come si colloca la metalmeccanica emiliana nello scenario di destrutturazione del diritto del lavoro e delle relazioni industriali appena descritto? Quale ruolo della FIOM e della contrattazione aziendale?

In Emilia-Romagna, e faccio riferimento soprattutto a quei territori come le province di Bologna, Modena e Reggio dove la presenza della metalmeccanica e della FIOM è storicamente più determinante, la situazione che abbiamo descritto non ha prodotto in questi anni indebolimento organizzativo dal punto di vista dell’insediamento FIOM. Viceversa, la FIOM è continuata a crescere ed abbiamo raggiunto il massimo storico del tesseramento nel corso del 2010: probabilmente nel corso del 2011 supereremo quel dato o ci avvicineremo a confermarlo nonostante il calo dei potenziali iscritti derivante dal ricorso alla cassa integrazione, dalla riduzione dell’occupazione ecc… Due, la scelta dell’accordo separato, quello del 2009, non è una scelta che abbiamo subito e basta: in Emilia-Romagna abbiamo fatto più di 250 accordi aziendali che hanno confermato l’applicazione e l’ultrattività del contratto del 2008, in alternativa al contratto del 2009 sottoscritto separatamente da FIM e UILM. Quindi in oltre 250 imprese, molte delle quali situate tra Modena, Reggio e Bologna le imprese ci hanno confermato l’applicazione del contratto 2008 e ci hanno confermato le agibilità sindacali. In terzo luogo, in moltissimi casi i rinnovi dei contratti aziendali, a cui hanno partecipato anche FIM e UILM, si sono fatti con le regole di democrazia e di rappresentanza che abbiamo adotatto dentro la FIOM, ossia piattaforme discusse e approvate con il voto dei lavoratori, ipotesi di accordo discusse e approvate con il voto dei lavoratori. Questa situazione sta creando problemi anche alla stessa iniziativa di FIAT, che non ha visto neanche da parte delle RSU l’approvazione del primo contratto collettivo specifico di lavoro che è stato sottoscritto da FIAT con FIM e UILM.

Cosa pensi della polemica sviluppatasi sull’articolo 18 dopo le recenti dichiarazioni della Ministra Fornero e quale impatto ritieni che avrà la manovra del governo Monti sulla crisi in Emilia-Romagna?

È una polemica atavica, l’articolo 18 in sé ha sempre avuto questo carattere simbolico e se va assunto in termini simbolici mi pare che questa campagna e questa polemica si colloca dentro un quadro di attacco al diritto del lavoro che sta svuotando e ha già svuotato tutte le strutture principali del diritto del lavoro novecentesco. Non c’è solo un problema che riguarda l’articolo 18, ma che riguarda il complesso dell’impostazione del diritto del lavoro nel nostro paese dal dopoguerra ad oggi: il diritto del lavoro è stato spezzato, smontato negli ultimi anni. L’iniziativa per tagliare, per bloccare l’articolo 8 della manovra finanziaria e per difendere l’articolo 18 fa parte di un quadro più generale di ridefinizione del quadro delle relazioni sindacali ma in questo senso anche del diritto del lavoro. Siamo davanti ad un problema di ridefinizione dell’articolo 39 della Costituzione e della sua attuazione.

La manovra Monti, la cosiddetta manovra “Salva-Italia”, non contiene elementi di politica industriale, le misure attualmente discusse dal governo non forniscono uno scenario diverso perché non ci sono misure per la crescita. Ora in teoria con la seconda fase ci dovranno essere, ma se la seconda fase sarà tutta sul versante del mercato del lavoro e non sul versante delle politiche industriali saremo da capo, ossia in quella linea secondo la quale per rilanciare la produttività e lo sviluppo devo tagliare diritti.

Se non ci fosse più la giusta causa come reagirebbero le imprese in questo momento di crisi? Quali effetti avrebbe la cancellazione dell’articolo 18 sui licenziamenti?

Aumenterebbe la discrezionalità dei licenziamenti, perderebbe valore la relazione tra giusta causa, articolo 18, legislazione sul lavoro e ammortizzatori sociali, perché è chiaro che gli ammortizzatori sociali servono a rispondere alle congiunture economiche sfavorevoli per difendere i livelli occupazionali e quindi politiche di sostegno alle industrie. Ciò che sta dentro al modello FIAT e che diventerà un faro per certi industriali non è soltanto il problema del licenziamento, della lotta al sindacato, è il problema di affermare il superamento di un quadro che pone alcuni diritti in capo ai lavoratori, alle persone. Questo è il problema che ha visto FIAT uscire da Confindustria, uscire dagli accordi inter-confederali. Certo, c’è un problema che riguarda la FIOM, l’organizzazione e la natura del sindacato. C’è un problema di fondo: il nostro quadro democratico assegna in capo ai lavoratori in quanto persone una serie di diritti e quindi non li assegna alle organizzazione, ma ai lavoratori. La mia personale opinione è che finché ci sarà il diritto di sciopero così come si configura oggi i “padroni” non saranno tranquilli, perché ci sarà la crisi, potrà essere che ti sconfiggono, potrà essere che ti cacciano fuori ma se permane il diritto di sciopero garantito e in capo ai lavoratori, una qualche organizzazione che vede i lavoratori collettivamente organizzarsi per poter, con lo sciopero, garantire i propri diritti e il proprio punto di vista si manterrà dal punto di vista strategico. Adesso l’articolo 18 fa parte di questa combine, adesso la fase 2 del governo Monti dovrà confrontarsi sul fatto che il sindacato che non è d’accordo viene cacciato fuori dai luoghi di lavoro, il sindacato che è disponibile fa accordi con il governo, in un quadro per il quale la combinazione dei dispositivi sulle pensioni, dell’articolo 18, corriamo il rischio di trovarci di fronte ad una grossa campagna di licenziamenti collettivi.

Che cosa pensi del recente “Patto per la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” firmato dalla Regione Emilia-Romagna con le parti sociali?

Il patto si regge su una cosa che abbiamo condiviso tutti e che è stata importante: il blocco dei licenziamenti come risposta alla crisi, cioè che tutte le parti in causa riconoscessero che la risposta alla crisi non era operare attraverso i licenziamenti. Una delle condizioni del patto precedente, il “Patto per l’attraversamento della crisi” 2009-2011, fu rappresentata dall’introduzione degli ammortizzatori in deroga, ossia dall’estensione dello strumento della cassa integrazione praticamente a tutti a prescindere dalla legislazione. È stato possibile applicare la cassa integrazione dell’industria ovunque, per quanto ci riguarda ai dipendenti delle aziende artigiane, andando oltre le normative della bilateralità. Il terzo elemento, da cui questa scommessa del nuovo patto, è che ci siano politiche industriali di carattere generale, lo dico perché quando si parla nel patto del welfare come possibilità per lo sviluppo, della qualificazione, della riduzione della spesa pubblica e l’estensione dei servizi, quando si parla di Green economy, di bilancio energetico si parla di politiche industriali e le politiche industriali non le puoi definire nell’ambito di una regione, le puoi definire a livello generale. Faccio un esempio molto semplice: se noi parliamo di Green economy e di sviluppo della mobilità sostenibile e contemporaneamente si chiudono gli stabilimenti che producono autobus, Iribus ad Avellino e Breda-Menarini a Bologna; se le ferrovie non fanno investimenti sulle reti secondarie, se non ci sono investimenti sulla mobilità sostenibile (auto elettriche, ibridi), se non ci sono queste cose a livello generale, anche per le imprese emiliano-romagnole sarà difficile.

Ritieni che il patto sia il segnale di una possibile via d’uscita diversa dalla crisi dell’Emilia-Romagna rispetto alle strategie contenitive finora messe in atto a livello nazionale?

Il patto è scommessa positiva, è un patto che tenta di definire una risposta alla crisi qualitativamente diversa e che fa i conti con alcuni degli elementi di fondo della crisi del modello di sviluppo: la spesa pubblica, gli indirizzi in termini di economia, la sostenibilità e l’impatto con il territorio, conferma del blocco dei licenziamenti. Tutte queste condizioni sono positive, ma il livello di attivazione di queste misure, di questo piano sarà determinato dal quadro generale delle politiche che verranno scelte dal governo. Se il governo non permette gli investimenti, non modifica il patto di stabilità, non modifica gli indirizzi generali anzi va dall’altra parte faccio fatica a pensare alla Green economy prevista dall’accordo regionale se il governo è d’accordo di tagliare due cantieri di Finmeccanica, della Fincantieri, se il governo è d’accordo nel tagliare le fabbriche di autobus, se il governo è d’accordo nel non fare investimenti nelle ferrovie secondarie. Se il governo dà questo messaggio faccio fatica a pensare che in Emilia-Romagna le potenzialità che questo patto contiene possano trasformarsi in realtà.

Category: Lavoro e Sindacato, Osservatorio Emilia Romagna

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