Gabriele Polo: Democrazia e rappresentanza del lavoro

| 13 Settembre 2013 | Comments (0)

 

 

 

Gabriele Polo (Direttore della Fondazione Claudio Sabattini e della rivista i-mec fiom) interviene a Brescia il 10 maggio 2013 al seminario “Democrazia e rappresentanza sindacale” parlando della democrazia non solo come metodo ma come problema e come pratica.Tutti gli atti del seminario sono disponibili in rete in www.fiom.cgil.it

 

In primo luogo un grazie alla FlOM c alla CGIL di Brescia per l’organizzazione di questa giornata, di questa discussione, seconda di una serie organizzate nel decennale della scomparsa di Claudio Sabattini. Una discussione, un confronto, un’elaborazione che pensiamo siano utili per l’azione sindacale e politica di oggi, riprendendo alcuni temi focali di sempre su cui Claudio aveva dato un importante apporto.

Quando abbiamo deciso di iniziare questa serie di incontri tematici partendo dal problema della democrazia e della rappresentanza sindacale, l’abbiamo fatto per rispettare e ripercorrere la strada che lo stesso Claudio aveva intrapreso.

Perché il tema della democrazia e della rappresentanza del lavoro furono il vero spartiacque nella sua elaborazione, nella sua vita, soprattutto negli anni in cui – come segretario generale della FIOM – ha ricoperto il ruolo più importante della sua militanza sindacale. La democrazia non soltanto come metodo, ma la democrazia come problema e come pratica: un vero e proprio merito della strategia sindacale, insomma, non soltanto una serie pur importante di regole e prassi da rispettare. Nell’elaborazione di Claudio. all’arrivo proprio alla carica di segretario generale della FIOM, il tema della democrazia e della rappresentanza diventa centrale perché, nel suo pensiero, soltanto riconquistando un rapporto molto forte con i lavoratori, avendo un mandato verificabile, era possibile iniziare a risalire quella china, diffusasi per tutti gli anni ’80 e in parte anche negli anni ’90, in cui ì lavoratori, gli operai, e in particolare i metalmeccanici, avevano subito una serie di sconfitte, un progressivo peggioramento delle proprie condizioni, perdendo pure il proprio peso politico. Per Claudio soltanto la riconquista di un fortissimo rapporto con la base che si intende rappresentare poteva dare all’organizzazione sindacale l’energia per poter risalire la china, per poter, sostanzialmente, passare da una fase di arretramento e di “gestione della ritirata” – così si diceva allora – alla coscienza che non c’era “più nulla da scambiare”.

La gestione delle ristrutturazioni industriali e delle crisi – dal decennio della mobilità che si concretizza nelle privatizzazioni e nelle dismissioni, gli anni Ottanta, a quello della flessibilità che si trasforma in precariato, gli anni Novanta – gettano i lavoratori in una condizione in cui non hanno più niente da dare: hanno già dato tutto e sono stati messi in una condizione di grande difficoltà materiale, di debolezza contrattuale e rivendicativa, e perciò è necessaria una svolta che cambi approccio e strategia contrattuale. In quest’ottica l’organizzazione e l’azione sindacale naturalmente non scompaiono, anzi, possono tornare ad avere un ruolo fondamentale soltanto in un legame fortissimo che rivitalizzi la relazione tra rappresentati e rappresentati.

E’ questa la base per un agire democratico, la verifica costante sugli accordi e sulle intese e sulle piattaforme. A partire da lì si può riconquistare una contrattazione degna di questo nome e può esistere un sindacato: quello che allora la Fiom definì indipendente, cioè indipendente dalla controparte, dal mondo politico, soprattutto indipendente da un processo che stava prendendo piede in maniera evidente – anche se in molti non lo vedevano o non volevano guardarlo – quello della globalizzazione, in cui i mercati prendono il sopravvento sulla politica, sulla politica istituzionale, sulla politica sindacale, sulla rappresentanza, sulla cittadinanza per come si era configurata nel dopoguerra in tutta Europa. Da qui la necessità di essere indipendenti anche da un approccio culturale diventato egemone in quegli anni che considerava il lavoro una voce economica dell’impresa e del mercato, altrimenti non sarebbe stato possibile riconquistare forza contrattuale, anche semplicemente difendere o rafforzare il ruolo del contratto nazionale.

Quindi, il sindacato indipendente, che la Fiom mette alla base del percorso iniziato a Maratea nel ’95 e che ancora ne è un elemento costitutivo – al punto che l’indipendcnza è stata inserita nello statuto della Fiom – può esistere soltanto se c’è un forte rapporto democratico con i lavoratori, altrimenti rischia di trasformarsi in isolamento . E’ una rimessa a punto dei due pilastri su cui si è sempre basata la rappresentanza sindacale: la rappresentanza d’organizzazione e quella diretta dci lavoratori. La democrazia d’organizzazione e la democrazia sociale. Due pilastri, entrambi necessari l’uno all’altro.

E’ questo, dal nostro punto di vista, che ha permesso alla Fiom di essere in campo ancor oggi in maniera rilevante, di essere un punto di riferimento politico, materiale, culturale non soltanto nelle e per le lotte dei meccanici, ma anche nella discussione culturale e politica di carattere più generale.

Ed è proprio per questo ruolo che non possiamo rimuovere come questa nostra di­ scussione cade in una situazione di profondissima crisi, sia della democrazia che della rappresentanza. La democrazia in tutto il mondo, in tutto l’Occidente, è stata messa in difficoltà a partire da una globalizzazione, che ha portato con sè una prevalenza del mercato su leggi, regole e strumenti politici, su quello che è stato il concetto su cui si è fondata la democrazia e la rappresentanza politica – e non solo politica – dal dopoguerra a oggi. Era il concetto di cittadinanza che passava attraverso una serie di diritti e di doveri che il cittadino aveva dentro il contesto statale nazionale. La globalizzazione. con la sua violenza, con la sua forza, e il mercato con il prevalere anche ideologico delle leggi di mercato, hanno annichilito la democrazia. Anche con il contributo venuto dal nostro campo politico, che di fronte a questa offensiva ha rinunciato a una visione critica di ciò che avveniva per sposare queste leggi, pensando che lo sviluppo economico, affidato alla libertà di mercato, portasse comunque, come accadeva nel Novecento, ad una distribuzione maggiore della ricchezza e a un benessere generalizzato, di cui avrebbero beneficiato anche i lavoratori. Non capendo che questo tipo di globalizzazione non porta a un allargamento dci diritti e dci benessere, ma a una maggiore selezione dci diritti e del benessere, una selezione competitiva. E la crisi economica di oggi accelera ed esaspera in modo drammatico tutto questo.

Il forte disagio che vivono la democrazia e la rappresentanza lo incontriamo tutti i giorni, fin negli aspetti più paradossali della discussione politica. Siamo di fronte a una verifica elettorale in cui ben il 50% degli elettori non ha votato o ha votato una lista anti-sistema; un elettore su due ha scelto di rimanere fuori dalle forme consuete della rappresentanza, si è espresso contro i partiti “storici” e l’aspetto più evidente è che tutti gli organismi politici e sociali intermedi sono in difficoltà: in primo luogo i partiti, ma anche i sindacati, Ia stessa Confindustria, tutto l’associazionismo, tutto ciò che di organizzato si colloca in un luogo intermedio tra la società ed il potere o le istituzioni. Tutti in sofferenza, nessuno riesce più a veicolare i valori originari e gli interessi di cui vorrebbero farsi portatori attraverso un’opera politica che porti a un risultato.

Il sindacato più di tanti altri, essendo un luogo di confine tra società e istituzioni – un luogo di rappresentanza per definizione – è in grande difficoltà. lo credo – è l’unica osservazione soggettiva che faccio – che il sindacato, il sindacato generale, quindi non un sindacato di mestiere, non un sindacato corporativo, non un sindacato di servizio o di mercato, in questa fase o s’interroga profondamente, trova una risposta a questa crisi di rappresentanza, alla crisi della democrazia, o è destinato a scomparire o a diventare subordinato ad altri soggetti più forti dentro un mondo comandato dal mercato, in particolare all’azienda.

La rappresentanza del lavoro dipendente è sempre caratterizzata su due polarità: una è il modello di relazione anglosassone, quello nato dai sindacati di mestiere, che divide tra skillcd c unskillcd, tra professionalizzati c non professionalizzati, da cui poi, deriva la concezione dci sindacato degli iscritti – o del sindacato per soli iscritti – cui fa riferimento una parte dci sindacalismo italiano che oggi ha portato alle estreme conseguenza quest’impostazione, ad esempio firmando accordi in aziende – come è successo in Veneto – in cui l’accordo integrativo vale soltanto per gli iscritti al sin­dacato firmatario. E’ il modello americano, da noi sempre sottovalutato, perché’ qui è prevalsa sempre la logica del sindacato confederale, ma che si sta diffondendo con l’americanizzazione della nostra società; gli iscritti pagano la tessera, agli iscritti e solo a loro bisogna rispondere, loro alla fine devono decidere. E’ un modello di democrazia verificabile, ed in effetti è un modello di democrazia che tiene conto soltanto di uno dei due pilastri: quello della rappresentanza dell’organizzazione.

L’altro modello è quello più tradizionalmente europeo-continentale, è il modello con­ federale , che intende rappresentare tutto il mondo del lavoro: la Cgil si chiama, appunto, Confederazione Generale, perché le parole hanno un loro senso preciso.

Il caso italiano è un caso molto particolare, in cui questo modello confederale per anni ha prevalso, è stato egemone, però oggi comincia a essere in difficoltà, anche in relazione a ciò di cui si accennava precedentemente.

Da questi due modelli, naturalmente, sono derivate delle legislazioni, che hanno dato delle regole alla rappresentanza, al punto che, in alcuni Paesi nel mondo, il diritto di sciopero è legato a tutta una serie di passaggi cui bisogna attenersi, è patrimonio delle organizzazioni, o bisogna avere una determinata soglia di iscritti per essere considerati rappresentativi.

in Italia, la Costituzione non ha fissato delle regole precise. L’organizzazione sindacale sè libera, i diritti sindacali sono garantiti ma non esiste una legislazione e questo anche perché il mondo della politica ha sempre affidato una certa autonomia al mondo sindacale, almeno nelle regole in cui si configurava il rapporto fra le confederazioni o fra i sindacati, c le organizzazioni hanno accettato ben volentieri questa delega della politica.

Così, molto spesso, la qualità della democrazia c della rappresentanza nel mondo dci Lavoro è dipesa dai rapporti di forza che hanno segnato il tasso di democrazia reale, a partire da potere di verifica che i rappresentati avevano su riò che facevano i rappresentanti a livello. Faccio solo due esempi storici: il massimo livello di democrazia, o comunque di democrazia partecipata, della storia sindacale del dopoguerra lo conosciamo dopo il ’68-’69, con i consigli di fabbrica, nella stagione dci consigli, che succede all’erosione delle commissioni interne, con una rivoluzione dentro il concetto di rappresentanza. Basti pensare che alla Fiat Mirafiori: prima del ’68 c’erano 65 membri di commissione interna, dopo il ’69, con il consiglione – tra delegati eletti e designati – i rappresentanti erano quasi mille, perché il rappresentante doveva incarnare nella sua funzione democratica una condizione di lavoro e doveva essere strettamente legato a coloro di cui era sostanzialmente un portavoce di bisogni, richieste, opinioni.

E’ la stagione della grande democrazia sindacale, che non casualmente pone anche al patto confederale unitario e alla nascita – caso unico nel dopoguerra di un sindacato unitario di una categoria, l’Flm. La cui vita è legata a quella stagione, agli anni in cui il rapporto di forza dentro le fabbriche è a favore dei lavoratori, quando le imprese devono contrattare, devono accettare la contestazione del loro potere e accettare che ci sia un contropotere riconosciuto e poi reso istituzionale, nei consigli, con cui confrontarsi.

Subito dopo, con la sconfitta dcll’80, con le grandi ristrutturazioni, conosciamo il momento più basso per la democrazia c la rappresentanza sindacale, quello in cui per anni in alcune situazioni i consigli di fabbrica nemmeno si riuniscono più, le elezioni non ci sono più; sono gli anni della grande solitudine operaia: che poi viene regolamentata con l’ accordo dcl ’93 e con la nascita delle Rsu, organismi ben diversi dai consigli di fabbrica, con le quote protette, con una mediazione molto sbilanciata a favore della rappresentanza d’organizzazione rispetto alla rappresentanza sociale. Questo quadro, questi due esempi aprono poi la strada alla situazione attuale. Le relazioni fra le organizzazioni diventano fondamentali per la rappresentanza e per prendere le decisioni. Diventano a volte persino un blocco per l’esercizio della democrazia e per il potere decisionale dci lavoratori c delle lavoratrici. Anche qui c’è uno spartiacque: penso al referendum, dell’Electrolux a Susegana nel ’99 quando per il lavoro a chiamata viene firmato un accordo sindacale fra una parte dci sindacati in azienda – e lo firmano anche alcuni delegati Fiom – la Fiom chiede un referendum che si può tenere perché viene accettato da tutte le organizzazioni, come impongono gli accordi dci luglio ’93. I lavoratori bocciano inaspettatamente quell’accordo, ed è l’ultimo referendum che si fa in una situazione controversa — a parte quelli imposti dall’alto dalla Fiat pochi mesi fa – a Cassino un accordo diverso nel merito ma sempre sulla flessibilità e gli orari, viene impedito perché Fim e Uilm non sono d’accordo e l’azienda non fornisce gli elenchi degli iscritti per poter fare i seggi elettorali.

 

Oggi siamo ancora fermi lì, al collasso della democrazia e della rappresentanza, in uno stallo che dura da anni, per di più con una rappresentanza sempre più limitata, causa le trasformazioni del mondo dci lavoro, perché in questi anni la platea dci lavoratori è profondamente cambiata e l’estendersi dci precariato ha allargato enormemente il peso cd il numero dci lavoratori che non possono avere una rappresentanza nemmeno dal punto di vista istituzionale, perché non sono figure previste dalle regole ancora in vigore. Ciò comporta l’esclusione milioni di persone e questo è il problema più grave, cui andrebbe posto rimedio, perché altrimenti la rappresentanza che prevale diventa l’unica che “naturalmente” esiste in azienda, quella del padrone. Alla fine è Marchionne, a ricorrere al voto, spacciando per verifica democratica dei plebisciti che hanno il solo scopo di avallare il suo operato.

In questo quadro di fronte a una situazione di frantumazione sociale e alla conseguente difficoltà di rappresentare tutte il mondo del lavoro – da chi ha un lavoro a tempo indeterminato a chi è precario -, il vero quesito cui rispondere è se un accordo interconfederale sulla rappresentanza sia sufficiente o se, invece, non sia necessaria anche una legge che, come in altri Paesi nel mondo, ossia una base di regole certe per costruire una nuova democrazia sindacale e una rappresentanza adeguata ai tempi che viviamo.

Una domanda che ne apre immediatamente altre: in primo luogo, perché non è affatto scontato che un Parlamento approvi una legge simile. Ci siamo andati vicini anni fa, – ormai parecchi anni fa – con la Legge Smuraglia che prevedeva un impianto in cui il ruolo dell’organizzazione e il ruolo della rappresentanza diretta interagivano positivamente pur restando ben distinti.

Ma il problema di fondo è che – molto più che un accordo confederale – una legge sulla democrazia impone dei vincoli forti alle organizzazioni.

Una legge rappresenta sempre un problema per un’organizzazione sindacale, perché impone un ‘altra sovranità, perché quando si vota poi quel voto va rispettato, anche contro il parere della stessa organizzazione. Però, una legge, delle regole ben precise che garantiscano non solo l’universalità dci diritti nei luoghi di lavoro, ma anche la possibilità del potere di verifica dei lavoratori rappresenta un’occasione forse unica per coprire un vuoto di politica, di rappresentanza, di democrazia che pericolosamente si sta allargando in questo Paese, dalle istituzioni fino ai rapporti sociali e che dà al futuro un profilo assolutamente imprevedibile.

E’ una sfida, quella della democrazia, che andrebbe colta fino in fondo. Il problema centrale è sempre quello da cui siamo partiti in questo ragionamento, lo stesso da cui, ad esempio, Claudio Sabattini è ripartito lasciando Termoli, in una fredda giornata di febbraio del ’94, dopo che i lavoratori della Fiat avevano bocciato un accordo sulla massima utilizzazione degli impianti alla Fiat (sabati, notti, flessibilità e pieno potere aziendale sugli orari, per garantire un futuro alla fabbrica e promettere nuove assunzioni), firmato da tutte le organizzazioni sindacali, Fiom compresa, senza alcun mandato. Quei lavoratori avevano tutti contro – dai partiti alle istituzioni locali, dai cortei degli studenti alle prediche del vescovo, fino alle loro organizzazioni sindacali. Claudio Sabattini arrivò a Termoli, andò in una tempestosa assemblea per discutere un testo che lui non aveva firmato, l’accordo fu leggermente modificato e poi approvato. Da lì Claudio trasse un convincimento che sintetizzò in una battuta semplice ma molto impegnativa: “Mai più una piattaforma senza un mandato preciso dci lavoratori, mai più un’intesa senza la loro approvazione”.

Partendo da lì la Fiom ha ricostruito se stessa ed è diventata quel che oggi è. Da quel “Mai più”, dal ridarsi un vincolo sociale e una rappresentanza di mandato precisa, anche a costo di mettere in discussione i propri convincimenti e le proprie azioni, di mettere in discussione i propri dirigenti, i propri funzionari, le pratiche quotidiane. Riaffermando che i titolari del mandato sono proprio i lavoratori, a loro va ridato il potere – parola colpevolmente derubricata dal lessico politico c sindacale. Il potere sulle piattaforme e sugli accordi che li riguardano, cioè il potere di cominciare il decidere sul proprio lavoro e sulla propria vita.

 

Category: Lavoro e Sindacato

About Gabriele Polo: Gabriele Polo (San Canzian d'Isonzo, 1957) è un giornalista italiano, è stato direttore del quotidiano il manifesto dal 2003 al giugno 2009, diventandone poi direttore editoriale, oltre che commentatore e inviato. In gioventù è militante di Lotta Continua e poi tra i promotori nei primi anni '80 del gruppo Lotta Continua per il Comunismo. Inizia la sua collaborazione al manifesto nel 1988 di cui è stato direttore dal 2003 al giugno 2009- Attualmente dirige il giornale on line I mec. Tra i suoi ultimi libri: , Il mestiere di sopravvivere, Editori Riuniti, 2000 , Diciottesimo parallelo, la ripresa del conflitto sociale in Italia, Manifestolibri, 2002; Ritorno di Fiom. Gli operai, la democrazia e un sindacato particolare, Manifestolibri, 2011.

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