Franco Chiarello e Lidia Greco: Il fallimento della regolazione. L’Ilva a Taranto

| 13 Novembre 2013 | Comments (0)

 

 

Franco Chiarello e Lidea Greco fanno parte del Dipartimento di Scienze Politiche, Università di Bari “Aldo Moro”

 

Introduzione

Questo contributo suggerisce di leggere il caso dell’ILVA di Taranto come l’esito del fallimento della regolazione privatistica del settore siderurgico, susseguente al processo di privatizzazione dell’industria. Due aspetti meritano di essere considerati per comprendere tale esito. Il primo attiene alla sostanziale sottovalutazione delle necessità istituzionali (cioè di regole socialmente condivise) connesse al processo di privatizzazione. Il secondo aspetto risiede nel fatto che il passaggio dell’industria dallo Stato al privato non ha implicato il passaggio dalla logica di regolazione pubblica alla logica della regolazione del mercato. Alla logica politica è infatti subentrata la logica privatistica di una grande azienda che, da un lato, ha tentato di autonomizzarsi dal contesto socio-istituzionale locale e, dall’altro, ha privatizzato l’assetto regolatorio, con esiti destrutturanti sulla società e l’ambiente locale. I movimenti sociali sorti a Taranto e il maggiore dinamismo istituzionale rappresentano una reazione difensiva dei soggetti socio-istituzionali, ma, al contempo, essa potrebbe mettere in moto un nuovo processo di regolazione.

 

1. La regolazione dell’economia tra società ed ambiente

Il compromesso tra sviluppo economico e coesione sociale è alla base del principio stesso di regolazione (Bagnasco, 2009). Nella concezione della sociologia economica, in particolare nella tradizione polanyana, la regolazione risulta l’esito di relazioni di interdipendenza tra le diverse sfere della società: quella economica, quella politica e quella più propriamente sociale. Diversi filoni di letteratura hanno contribuito al dibattito mettendo in evidenza sia il ruolo delle istituzioni politiche e sociali nel funzionamento del sistema economico (Regini, 2001, 2007), sia la diversa natura delle regole e delle risorse che guidano il comportamento degli attori. Accanto a regole ‘regolative’ – incentivi costruiti intenzionalmente e miranti alla soluzione di problemi di efficienza economica- assumono rilievo le regole ‘normative’, secondo le quali gli attori agiscono secondo concezioni di ciò che è appropriato fare in quella situazione (senso di obbligazione) (March e Olsen, 1989) e le regole ‘costitutive’, schemi mentali e regole di senso che definiscono la logica della situazione e la ‘parte’ assegnata ad ogni attore (Powell e Di Maggio, 1991). Negando la possibilità che l’ordine economico possa discendere da motivazioni individuali, Polanyi stesso (1974) sottolinea che esso è legato piuttosto all’esistenza di regole socialmente condivise. Ciò è tanto più evidente nel caso degli scambi bilaterali che avvengono all’interno di mercati autoregolati (dai prezzi), i quali appaiono come strutture autonome che trovano al loro interno i criteri di funzionamento. Nella più recente lettura dell’opera polanyiana effettuata da Cella (1997), trova spazio il caso delle privatizzazioni. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, la scelta del meccanismo di mercato non implica affatto deregolare; al contrario, qualsiasi forma di regolazione (e di allocazione) produce gli effetti attesi solo in presenza di corrispondenti e coerenti strutture istituzionali. Ed anzi i processi di privatizzazione, per essere portati a buon termine, necessitano di un’attività di creazione istituzionale anche più intensa di altre forme di regolazione, per evitare situazioni di esternalità sia positive che negative, vale a dire di benefici o di costi aggiuntivi che non vengono inclusi nelle transazioni di mercato in quanto gli attori individuali non ottengono alcun profitto dalla loro produzione e che, invece, la collettività deve in qualche modo regolare (Trigilia, 1991).

Sebbene maturata in un altro campo disciplinare, la teoria della regolazione riconosce la centralità delle istituzioni nella vita economica, offrendo una lettura eterodossa dello sviluppo capitalistico (Boyer, 1990; Lipietz, 1988; Coriat, 1991; Aglietta, 1979). Secondo i regolazionisti, a rendere possibili le lunghe fasi di stabilità e coerenza del processo di accumulazione capitalistico, nonostante gli squilibri e le contraddizioni che esso produce costantemente, è il modo di regolazione sociale. Questo si riferisce ai meccanismi regolatori all’interno dello Stato e della società civile, all’insieme delle convinzioni, norme, consuetudini, ecc. che finiscono per essere coerenti con un particolare modello di accumulazione e che, in pratica, lo rendono possibile. Si tratta, in altri termini, dell’insieme delle mediazioni che contengono il processo di accumulazione entro dei limiti compatibili con la coesione sociale di un determinato contesto territoriale: le istituzioni sociali che fanno parte del modo di regolazione trasformano, anche se temporaneamente, le contraddizioni sociali esistenti in semplici differenze, mediandole, regolandole e normalizzandole. Non tutte le combinazioni tra regime di accumulazione e modo di regolazione sono praticabili: le relazioni sociali che permettono all’instabile sistema capitalistico di funzionare, secondo modalità relativamente coerenti e stabili, sono infatti estremamente complesse. In questa prospettiva, appare evidente il ruolo cruciale dello Stato, impegnato costantemente a bilanciare le strategie proprie dell’economia con le questioni riguardanti l’equità e la giustizia sociale secondo una corretta ripartizione dei costi e dei benefici della crescita (Hudson, 2001). Uno stimolante sviluppo della teoria della regolazione ha inteso sollecitare l’integrazione esplicita della questione ambientale all’interno di questo approccio teorico (Alvater, 1990; Bridge, 2000; Gibbs, 1996; O’Connor, 1998). Così come le relazioni sociali servono a stabilizzare i periodi di accumulazione capitalistica, allo stesso modo specifici modi di regolazione ambientale risultano appropriati rispetto ad un particolare modello di crescita, assicurando la quantità e la qualità dello sviluppo capitalistico (Hudson, 2001). Così come emergono contraddizioni di natura sociale, il processo di produzione capitalistico solleva rilevanti contraddizioni di natura ecologica che si manifestano principalmente nella logica divergente tra l’interesse di breve periodo dell’attività economica e l’interesse di più lungo periodo della sostenibilità ambientale (Daly, 1996).

 

2. La parabola dell’industria siderurgica a Taranto: dalla regolazione pubblica a quella privata

 

La regolazione pubblica: un compromesso fragile ma equilibrato

Com’è noto, lo sviluppo dell’industria siderurgica pubblica da parte dell’IRI si inseriva in un più ampio progetto di modernizzazione del Paese che la considerava strategica per lo sviluppo anche di altri settori, come quello meccanico in primis (Affinito et al, 2000; Amatori, 2013; Balconi, 1991).1 Di questo progetto il Mezzogiorno era parte organica: la localizzazione periferica di alcuni complessi industriali sarebbe stata compensata dallo sviluppo di tutta una serie di attività ad essi connesse e da un mercato di sbocco che avrebbe garantito l’assorbimento della produzione. Il prevalere delle istanze pubbliche, confortate dall’espansione vorticosa della domanda di prodotti siderurgici che, tra il 1950 e il 1966, si quadruplica, porta alla formazione della siderurgia statale, gestita da Finsider, che sviluppa grandi impianti produttivi a ciclo integrale.2 Nei primi anni sessanta Taranto diventa il quarto stabilimento Italsider a ciclo integrale (dopo Bagnoli, Cornigliano e Piombino),3 con una capacità produttiva iniziale di circa 3 milioni di tonnellate annue che, con varie espansioni ed infine con il raddoppio, viene portata a circa 10 milioni di tonnellate. Sulla scelta, molto dibattuta, della città jonica influirono una serie di fattori. In primo luogo nell’area vi era una pregressa tradizione industriale di natura ingegneristica e meccanica, sviluppatasi attorno alla costruzione e riparazione delle navi da guerra. Dal punto di vista geografico la sua collocazione al centro del Mediterraneo facilitava sia l’approvvigionamento di materie prime sia l’esportazione di merci. La scelta di Taranto fu infine influenzata da considerazioni di natura politica che videro ampiamente coinvolta la Democrazia Cristiana, sia nazionale che locale (Piattoni, 1996), nonché dalla politica industriale in favore degli insediamenti nel Mezzogiorno.

È indubbio che l’arrivo dell’acciaieria a Taranto sconvolge la struttura economico-produttiva dell’area e altera le dinamiche sociali esistenti, con accentuati processi di proletarizzazione ed urbanizzazione anche se risulta evidente la complementarità tra regolazione formale e relazioni tradizionali, tra valori industriali e valori pre-industriali (Romeo, 1989): si ricordi a questo proposito la figura del ‘metalmezzadro’, coniata da Walter Tobagi, per descrivere la condizione operaia a Taranto. Tuttavia, la presenza produttiva trova nel giro di pochi anni una sorta di accomodamento socio-economico e le contraddizioni legate alla produzione capitalistica si compongono, rendendosi sostanzialmente compatibili con il contesto territoriale.

L’avvio e l’espansione della produzione incide sulla condizione operaia e della popolazione, con un aumento generalizzato di ricchezza e benessere. L’Italsider occupa direttamente circa 20 mila operai, ma lavorano per essa indirettamente altri 8.000 addetti delle ditte sub-appaltatrici ai cui lavoratori si estendono i benefici di quelli direttamente impiegati. In breve tempo, a Taranto, i modelli di consumo e gli stili di vita tendono ad assomigliare a quelli delle città industriali del Nord. In questo quadro di sviluppo eterodiretto, gli attori politici assumono un ruolo cruciale, orientando le politiche pubbliche e canalizzando risorse economiche verso l’Italsider, nel contesto delle altre politiche di intervento straordinario (Trigilia, 1992): ciò consente loro di creare un sistema di consenso sia all’interno dello stabilimento, rispetto alla politica delle assunzioni, sia all’esterno, primariamente a vantaggio della DC, sebbene anche il PCI, e il suo sindacato di riferimento, la CGIL, traggano indubbi vantaggi dalla formazione di un nucleo consistente di classe operaia che essi possono potenzialmente influenzare e mobilitare e dalla quale hanno ricevuto effettivamente consenso elettorale (si veda Vetta, 2012 per i dati sul consenso elettorale). Anche l’Italsider risente quindi del condizionamento dell’autorità pubblica che assegnava alle sue aziende il perseguimento di fini diversi da quelli propri dell’impresa (i cd. oneri impropri) e di cui si faceva portatore il management.

Il patto economico e sociale che si viene a costruire nel tempo non è scevro da conflitti e tensioni; sono ben note le vertenze che sistematicamente vedevano confrontarsi amministratori locali, sindacalisti e dirigenza dello stabilimento. Si tratta però di un conflitto controllato, che sostanzialmente assicurava una tranquillità sociale funzionale a quello specifico modello di accumulazione. In questo quadro espansivo, quindi, le contraddizioni sociali, urbane ed ambientali, legate alla produzione capitalistica non si manifestano palesemente, rimanendo sullo sfondo; le istituzioni pubbliche creano le condizioni per una situazione di benessere in cambio di consenso e legittimazione politica. Tra le sfere dell’economia, della società e della politica si generano delle relazioni di reciprocità e di scambio improntato ad una ripartizione di costi e benefici che la grande maggioranza degli attori interessati considera accettabile. Con il processo di privatizzazione, questo equilibrio viene alterato ed un nuovo assetto avrebbe dovuto accompagnare il passaggio dello stabilimento nella sfera dell’economia di mercato. Nel caso della siderurgia a Taranto, la definizione di questo assetto rimane incompiuta con gli esiti di cui si dirà.

 

Il processo di privatizzazione

La privatizzazione dell’industria siderurgica italiana nella prima metà degli anni novanta rappresenta l’esito della convergenza di una serie di condizioni. Innanzitutto, già a partire dalla seconda metà degli anni settanta, per effetto della sfasatura del ciclo tra domanda e consumo tipica del settore, si erano venute a creare le condizioni per un eccesso di capacità, cha avrebbe portato alla riduzione dei prezzi dell’acciaio e ad una competizione aggressiva sui mercati (Dunford e Greco, 2007). A seguito di interventi poco efficaci, nel 1988 la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) elabora il Piano Europeo per la Siderurgia che vincola la concessione di aiuti finanziari al processo di razionalizzazione della produzione a ciclo integrale. Secondo, nel corso di quegli anni, l’Italia aveva perso gran parte del vantaggio competitivo e tecnologico di cui godeva soprattutto per la presenza di ‘oneri impropri’ e la conseguente sottocapitalizzazione di molte aziende manifatturiere. A queste condizioni settorialmente specifiche, si aggiunge il contesto macro-economico italiano che, all’inizio degli anni novanta, attraversa una delle sue crisi più acute con i gravissimi problemi di finanza pubblica che spingono all’abbandono definitivo del modello dell’economia mista perseguito nel dopoguerra. Infine, l’insostenibilità della presenza pubblica nella sfera economica viene alimentata da un’offensiva ideologica che si materializza nell’affermazione del neo-liberismo.

In questo contesto, in cerca di una difficile razionalizzazione, Finsider trasferisce ad una nuova azienda –l’ILVA- i suoi impianti più efficienti, vende quelli meno strategici sotto il profilo industriale (Servola e Marghera) e ne chiude altri (Bagnoli). Dopo solo qualche anno, a causa della combinazione della congiuntura economica negativa e dell’arrivo sul mercato europeo di acciaio a buon mercato proveniente dai Paesi dell’Est, le difficoltà dell’ILVA si manifestano nuovamente.4 All’inizio degli anni novanta, il governo italiano decide quindi di procedere alla privatizzazione dell’industria. L’ILVA viene scorporata in tre entità: ILP (ILVA Laminati Piani); Acciai Speciali Terni (AST) a Terni e ILVA in Liquidazione che assume i debiti della precedente società. I principali beneficiari della privatizzazione della siderurgia risulteranno gli imprenditori privati – tra gli altri, Lucchini, Pittini, Riva – che rilevano, rafforzando la loro capacità produttiva e tecnologica, alcuni tra gli impianti messi in vendita dall’imprenditore pubblico. Con l’acquisizione dell’impianto di Taranto, il gruppo Riva diventa uno dei più grandi produttori mondiali di acciaio. Lo stabilimento ha una capacità produttiva di circa 10 milioni di tonnellate annue, mentre la forza lavoro occupata direttamente ammonta a circa 10 mila occupati.

La privatizzazione del settore è stata dunque ritenuta la soluzione regolatoria più opportuna per riportare efficienza in un’industria chiave dell’economia nazionale e per rispondere alle sfide della competizione internazionale. Si ricordi che, nel 1995, l’Italia è il secondo produttore europeo dopo la Germania, con una produzione annuale pari a quasi il 22% di quella continentale; tale posizione è confermata dagli ultimi dati disponibili, sebbene la produzione sia scesa a quasi 29 milioni di tonnellate (16,2% del totale UE) (Federacciai, 2012). In quegli anni inoltre stava mutando profondamente la geografia globale della produzione e del consumo di acciaio, con il declino degli storici Paesi produttori (europei) e l’ingresso di nuovi produttori sulla scena mondiale, tra i quali la Cina, il Giappone, gli USA, e l’India.

La cessione da parte dell’IRI (più precisamente di Fintecna) al gruppo Riva avviene il 16 marzo del 1995: con essa passa di mano il 100% di ILVA Laminati Piani alla quale erano stati precedentemente conferiti gli impianti di Taranto, Genova, Torino e Novi Ligure. Con la cessione si apre tuttavia anche un contenzioso riguardo alle problematiche ambientali. Secondo la ricostruzione fatta in Parlamento dall’on. Vico, l’IRI garantiva di non aver posto in essere “atti e comportamenti di natura dolosa o gravemente colposa in materia ambientale, impegnandosi al riguardo, a tenere indenne l’acquirente da perdite risultanti da violazioni di legge in materia di ambiente”5. Nel 1996 viene invece attivato un arbitrato che si conclude nel 2000 con un sostanziale nulla di fatto. Il lodo congela infatti il contenzioso ambientale fino al 2008 quando Fintecna e Riva decidono di rinviare l’attribuzione di oneri ambientali ad un momento successivo. In ogni caso, sin dal momento della privatizzazione, l’IRI accantona 140 milioni di euro per il risanamento ambientale di Taranto, investendoli in titoli di Stato (Ruotolo, 2012). In effetti, nel bilancio Fintecna del 2012, appaiono degli accantonamenti di fondi, tra l’altro, per far fronte alle passività derivanti dagli impegni assunti in sede di privatizzazione e razionalizzazione societaria effettuate dalle società dell’ex gruppo IRI.

 

La regolazione privata: accomodamenti imposti e squilibrati

Piccolo gruppo siderurgico attivo dal 1954, con l’acquisizione dello stabilimento ILVA di Taranto, il gruppo Riva incrementa notevolmente la sua capacità produttiva e diventa, come già anticipato, uno dei maggiori produttori mondiali di acciaio. L’arrivo di Riva a Taranto non produce un cambiamento limitato al perimetro della fabbrica, confinato cioè al modello produttivo e al meccanismo dell’accumulazione, ma intacca più profondamente le relazioni sociali ed istituzionali; è il modello di regolazione stesso ad essere alterato, con la rottura del precedente compromesso.

Innanzitutto, Riva modifica la strategia produttiva con l’obiettivo di tornare all’efficienza puntando principalmente sulla riduzione dei costi. Nel periodo 1995-2000, si registra un aumento della produzione e degli utili aziendali a fronte della diminuzione degli investimenti fissi. Appare evidente quindi che la qualità dell’acciaio prodotto a Taranto tende a diminuire e che lo stabilimento sforna prodotti che, per tipologia e qualità, tendono ad allinearsi a quelli dei Paesi nuovi arrivati alla produzione siderurgica (De Cecco, 2013).6 La riduzione dei costi si sostanzia inoltre nella ri-organizzazione che investe il sistema della logistica, le modalità di gestione del rapporto con i clienti e la manodopera. Più sostanzialmente, infatti, Riva porta avanti un processo di ricomposizione quantitativa e qualitativa della forza lavoro. In primo luogo, snellisce l’organizzazione, diminuendo i livelli gerarchici ed eliminando alcune posizioni dirigenziali. Inoltre, come emerge da recenti indagini della Procura di Taranto, pone ai posti di comando dei ‘fiduciari’, “soggetti non inquadrati nell’organico di ILVA spa, ma riconducibili direttamente alla proprietà e alla famiglia Riva… essi erano lo strumento di controllo della proprietà sulla vita dello stabilimento … si trattava in sostanza di un governo occulto” (La Repubblica, 3 luglio 2013). In secondo luogo, riduce il personale impiegatizio (-38% tra 1995-2000). Infine, modifica la composizione della forza lavoro operaia, incentivando la fuoriuscita di lavoratori con oltre 50 anni (tra il 1995 e il 2001, sono circa 7 mila)7 e l’assunzione di giovani di età compresa tra i 20 e i 25 anni, con contratti inizialmente a tempo determinato e quindi meno onerosi finanziariamente. Il profilo della forza lavoro muta: la perdita di esperienza professionale viene considerata meno importante dell’allontanamento di una certa cultura industriale e di alcune sue rigidità. Appare sempre più evidente inoltre che le condizioni di lavoro subiscono un sostanziale peggioramento: la sequenza di incidenti mortali e non in fabbrica è un sinistro indicatore di questa tendenza, tanto da sollecitare le inchieste della magistratura locale.

L’insieme di queste scelte ha permesso all’ILVA di mantenere i costi bassi, aumentando la produzione e le esportazioni e di conseguenza profitti e dividendi. Tuttavia, questo ha finito per condannare l’azienda al declino, soprattutto dal punto di vista tecnologico ed innovativo, e alla sua insostenibilità anche sotto il profilo sociale ed economico. Il rapporto tra fabbrica e comunità locale si atomizza e risulta improntato a modelli proto-capitalistici. La fabbrica offre ancora salari e posti di lavoro, ma il livello di qualificazione richiesto, le prospettive di crescita e la stabilità occupazionale offerte – in breve il sistema delle garanzie – sono decisamente inferiori a quelli in precedenza promossi dall’imprenditore pubblico. I sindacati, che nel periodo di regolazione pubblica godevano di potere e controllavano sostanzialmente il mercato del lavoro, sebbene con effetti non sempre positivi sull’efficienza dello stabilimento siderurgico, nel periodo della regolazione privata ridimensionano la loro influenza e sono incapaci persino di rispondere a forme eclatanti di violazione dei diritti dei lavoratori, come ad esempio nel caso della palazzina LAF.8 La comunità locale d’altro canto continua ad offrire e a riprodurre forza lavoro, contribuendo a rendere compatibile il modello Riva a Taranto: in questa dinamica gioca un ruolo importante la condizione di difficoltà in cui versa l’area dal punto di vista occupazionale ed industriale, un contesto che offre poche opportunità lavorative e quelle poche si concentrano prevalentemente negli apparati burocratici delle amministrazioni locali e nel settore agricolo. In questa situazione, nonostante il peggioramento delle condizioni occupazionali e delle tutele ad esse connesse, il lavoro da operaio nello stabilimento Riva continua ad assicurare una fonte di sussistenza anche se ormai privo di quell’alone di prestigio che circondava il lavoro all’epoca dell’Italsider. Inoltre, emerge con chiarezza che il legame tra i lavoratori e l’ILVA agisce anche a livello simbolico: il valore del lavoro in quella fabbrica si tramanda di generazione in generazione ed in molti casi il lavoro ‘fisso’ all’ILVA viene preferito a percorsi di istruzione e formazione in cui esiti sono del tutto incerti. In questo contesto, le istituzioni politiche locali si ritrovano fortemente marginalizzate e neutralizzate dall’attore economico forte ed anzi il modello di regolazione privata perseguito da Riva ha il suo perno nell’egemonia dell’economico e nella non interferenza delle altre sfere sociali.

Il passaggio di proprietà dal pubblico al privato e il declino delle politiche pubbliche nell’economia mettono fine al ruolo di intermediazione esercitato dalla politica e evidenziano tutti i limiti del sistema politico-amministrativo locale, contraddistinto da frammentazione e mancanza di forti leadership.

Accanto a questo, il sistema amministrativo è risultato incapace di fornire infrastrutture e sostenere progetti non soltanto in favore dello stabilimento siderurgico ma, com’era nelle intenzioni, per lo sviluppo di attività economiche ad esso complementari, che sarebbero poi diventate autonome. Sono innumerevoli i progetti rimasti incompiuti o non portati avanti o ancora implementati ma con esiti disastrosi, in assenza di una capacità programmatoria o strategica che, in ultima analisi, ha finito per accettare passivamente la realtà esistente. É da osservare, a questo proposito, un ulteriore aspetto che contraddistingue la vita pubblica tarantina. Si tratta della sostanziale osmosi tra politica, amministrazione e associazioni di interessi. Nel corso del tempo, i medesimi soggetti hanno ricoperto diversi ruoli pubblici; ciò assume rilievo non soltanto per segnalare l’ingessatura del sistema della rappresentanza, ma anche e soprattutto per identificare un pesante lock in cognitivo: la capacità di generare ed affermare nuove idee e nuove prospettive è largamente indebolita dall’assenza di ricambio. Inoltre, più che attori di cambiamento, le associazioni degli interessi hanno continuato a preservare l’esistente, coltivando l’idea che il settore siderurgico potesse ancora offrire prospettive di sviluppo ai gruppi sociali da queste rappresentate e, più in generale, al territorio locale. In questo frangente, sebbene la questione ambientale e sanitaria sia ormai socialmente avvertita in tutta la sua rilevanza nella sfera pubblica, essa non trova l’interesse e l’impegno dell’azienda.

 

3. Il fallimento della regolazione privatistica

L’insieme di questi aspetti delinea quindi uno scenario in cui emerge con straordinaria nitidezza l’indiscusso potere della grande impresa privata. Le contraddizioni sociali ed ambientali trovano una composizione per la mancanza di vie d’uscita al monopolio produttivo del gigante siderurgico che, in caso di chiusura, avrebbe generato una crisi sociale ed economica dall’impatto devastante. Se nell’epoca della gestione pubblica dell’industria siderurgica a Taranto, la sfera economica, politica e sociale hanno definito un rapporto, certo non privo di tensioni, ma in definitiva sostanzialmente equilibrato, fatto di scambi, concessioni, ritorni economici e politici sullo sfondo di una sfera ambientale percepita ma non problematizzata a sufficienza, con la gestione Riva, come si è cercato di dimostrare, l’architettura dei rapporti si modifica sostanzialmente. L’attore economico non si pone come uno degli attori che, nella dinamica della regolazione, concorre insieme agli altri a stabilizzare i rapporti tra economia e società e a trovare un compromesso sostenibile tra l’interesse economico di una grande azienda impegnata in un settore a forte impatto ambientale e gli interessi della collettività. Riva è il principale attore di uno scenario socio-economico, quello tarantino, contraddistinto dalla debolezza e dalla frammentazione degli interessi di cui sono portatori gli altri attori istituzionali e sociali nonché dall’arretratezza socio-culturale, identificabile nella relazione di dipendenza e di subordinazione nei confronti del gigante locale e nella gestione clientelare della cosa pubblica. Riva domina e condiziona la società e le istituzioni locali. Le timide forme di dissenso vengono tacitate alternativamente agitando lo spettro della chiusura dell’impianto, dunque del ricatto occupazionale, o coltivando atteggiamenti paternalistici e richieste di complicità con ad esempio la Chiesa locale, la squadra di calcio, la stampa, ecc. Come è emerso nelle recenti inchieste della magistratura, sono state inoltre poste in essere strategie corruttive e comportamenti palesemente illegali che hanno coinvolto esponenti di rilievo della politica e del sindacato locale. Inoltre, rispetto alle tematiche ambientali, l’imprenditore privato a Taranto, conscio del suo potere di condizionamento, se ne disinteressa totalmente. Egli è riluttante a prendere in considerazione i costi sociali legati alla produzione industriale e lontano da una seppur minima considerazione della sua responsabilità sociale (Magatti e Monaci, 1999). Emerge un modello di regolazione dell’economia asimmetrico sullo sfondo di un accentuato sradicamento dal – e di assoggettamento del – contesto locale. A Taranto, il passaggio dell’industria dalla proprietà pubblica a quella privata non ha implicato quindi il passaggio della produzione siderurgica dalla logica di regolazione della politica alla logica della regolazione contrattualistica del mercato quanto piuttosto alla logica di un’economia deregolamentata. Come ha di recente osservato Guido Rossi, il limite intrinseco a questa concezione del contrattualismo, che costituisce ormai il fondamento ideologico del capitalismo contemporaneo, sta nel fatto che:

… là dove è necessario che esista un ordinamento a tutela di un interesse generale, le norme non possono essere sostituite dal contratto: se infatti è vero che il contratto ha forza di legge tra le parti,…altrettanto evidente è la sua inefficacia nei confronti dei terzi. La norma, al contrario, ha forza di legge per tutti. Del resto, in assenza di una norma generale, il contratto non potrebbe avere forza di legge, né costituire vincolo giuridico: come dire che sarebbe impossibile costringere chi è inadempiente a tener fede ai propri impegni, o a risarcire i danni arrecati” (Rossi, 2006: 23)

All’ILVA di Taranto, il ricorso ad un contrattualismo senza altre regole che quelle dell’azienda ha garantito utili ingentissimi per gli shareholders, nel caso specifico coincidenti con la famiglia Riva, benefici materiali per una minoranza appartenente alle fasce medio-alte dei lavoratori dipendenti e condizioni di sussistenza economica, a dire il vero sempre più problematiche, per gli operai dello stabilimento. Al tempo stesso, però, l’indebolimento (o – il che è lo stesso – il mancato e non sanzionato rispetto) delle norme che avrebbero dovuto regolare l’attività produttiva e i suoi effetti inquinanti dentro e fuori la fabbrica ha avuto pesanti conseguenze negative sulla salute degli stessi lavoratori all’interno dello stabilimento e, all’esterno di questo, su una parte, difficile da quantificare con esattezza ma sicuramente ingente, degli stakeholders rappresentati dalle loro famiglie e dai cittadini di Taranto, in particolare da quelli residenti nei quartieri sorti a ridosso della fabbrica.

Già un’ottantina di anni fa, Berle e Means (1932) avevano constatato, con riferimento specifico alla situazione statunitense ma con intuibili possibilità di generalizzazione ad altre realtà, che le grandi imprese (i “giganti dell’economia” secondo Crouch, 2011) avevano assunto i tratti propri di un’istituzione in senso politico, capaci di competere con l’apparato statale, in termini di potere materiale e simbolico. A partire da questa constatazione, la loro proposta normativa si indirizzava verso una terza via, alternativa sia al contrattualismo che all’istituzionalismo, rappresentata dall’introduzione nella grande impresa dei principi dell’organizzazione democratica, cioè della democrazia industriale. Anche nel caso dell’ILVA si può affermare che una terza via è stata seguita. Ma essa ha proceduto nel senso diametralmente opposto alla democrazia industriale, affermando un potere senza democrazia e la grande impresa si è imposta come una struttura di ferreo dominio, sebbene talvolta dissimulato dal maquillage della benevolenza mecenatesca o da qualche trovata di estetica organizzativa. La massimizzazione del profitto, fondata sulla riduzione dei costi e su mancati investimenti in innovazione tecnologica e risorse umane, in una strategia di ritorno di breve periodo, è risultata prioritaria rispetto ad altri obiettivi, come ad esempio la salute ed il benessere dei cittadini, la qualità del lavoro e della produzione. Nell’ILVA (privatizzata) dunque è arduo trovar traccia di una regolazione contrattualistica (di mercato) che ha sostituito l’architettura istituzionalistica che aveva provato, con alterne vicende, a governare l’Italsider (pubblica). La scelta di questo modello industriale necessitava di un contesto socio-istituzionale improntato alla subordinazione. E ciò ha finito per condannare lo stabilimento e la società tarantina. Il processo di privatizzazione ci pone quindi di fronte, molto più prosaicamente, ad un caso di de-regolamentazione.

 

4. Spinte distruttive e reazioni difensive

Le spinte distruttive di un’agire economico senza alcuna adeguata cornice regolatoria hanno però generato delle reazioni difensive e la società ha cominciato a proteggere la sua coesione e la sua stessa esistenza. La situazione di predominio dell’attore economico, prima incontestata, è stata scalfita dalle istanze della cittadinanza, attraverso la partecipazione attiva. La reazione difensiva si è manifestata dall’alto e dal basso. Occorre in primo luogo considerare l’istituzione regionale e la sua azione di salvaguardia dell’ambiente e del territorio. Il Consiglio Regionale, rinnovato con le elezioni del 2005, approva nel 2008 la legge 44 – la cosiddetta legge anti-diossina – fissando il valore limite di emissione nell’atmosfera a cui le imprese pugliesi nel campo della metallurgia devono attenersi, pena la chiusura dell’impianto. La legge ha inoltre stabilito che qualora l’agenzia regionale per l’ambiente (ARPA), deputata al controllo, avesse rilevato il superamento dei livelli limite, la Regione Puglia avrebbe diffidato il gestore degli impianti a rientrare nei limiti stabiliti entro sessanta giorni, pena l’arresto dell’attività in oggetto. Pur non esente da critiche, questo passaggio istituzionale ha segnato un momento di cambiamento valoriale nella comunità tarantina e nelle priorità della politica: al valore del lavoro si affianca per la prima volta il valore della salute. Si tratta di un primo, piccolo, passo verso la salvaguardia dei cittadini di Taranto e delle aree limitrofe e verso la promozione della sostenibilità ambientale. D’altra parte, occorre sottolineare che l’intervento regionale si inserisce in un quadro di carenti rapporti interscalari a livello macro e micro: l’evanescente sostegno fornito dal governo centrale si è coniugato con la perdurante disattenzione delle amministrazioni locali.

Più in profondità e seguendo un percorso spontaneo e dal basso, nella società locale tarantina si manifesta, sin dall’inizio del nuovo millennio, l’attivismo di una serie di associazioni ambientaliste di varia estrazione ideologica ma accomunate dal medesimo impegno di sensibilizzazione dei cittadini contro i rischi provenienti dalla produzione di acciaio. Raccolte in un cartello denominato Altamarea, esse producono dati, sostengono iniziative di informazione e di dibattito, intervengono nel merito delle vicende che riguardano l’industria locale; anche ad esse si deve l’approvazione della legge regionale 44 nonché lo stanziamento dei fondi per l’istituzione del registro tumori. Più significativamente, la loro azione ha inciso a livello simbolico e valoriale, in alcuni casi risvegliando – ed in molti altri formando – una nuova coscienza civica. Essa ha trovato terreno fertile anche nei segmenti più sensibili della popolazione locale, risvegliando un protagonismo orientato dai diritti. Naturalmente la questione della compatibilità tra lavoro ed ambiente è troppo complessa, in quanto riguarda il destino di migliaia di famiglie, per essere scevra da conflitti e ambiguità. Le famiglie che vivono del lavoro nell’acciaieria sembrano, comprensibilmente, meno sensibili alla questione o incapaci di considerare un compromesso possibile tra salute e lavoro.

Ultima e più eclatante è stata l’azione del potere giudiziario che, come troppo spesso accade alle nostre latitudini, si è posta come sostitutiva rispetto a quello degli altri poteri pubblici che avrebbero dovuto definire e garantire l’applicazione delle leggi. Con una sentenza del luglio del 2012, il GIP di Taranto Todisco stabilisce il sequestro dello stabilimento ILVA per il mancato rispetto della normativa ambientale e l’arresto domiciliare per il capostipite della famiglia Riva. Tale azione ha innescato una vicenda politico-giudiziaria che – al momento in cui scriviamo – è ancora in corso e che si può ragionevolmente ritenere una critical juncture nella storia di Taranto, uno di quegli accadimenti cioè che potrebbero modificare il percorso socio-economico della città. Il sequestro ha messo in luce tutte le carenze della gestione Riva a Taranto, ma allo stesso tempo ha squarciato il velo delle inadempienze nonché delle connivenze di cui si è resa responsabile la politica, a tutti i livelli, e la società locale. Le tappe della vicenda giudiziaria sono note alle cronache e non saranno qui ripercorse. Tra le altre cose, è emerso l’accantonamento di ingenti cifre, depositate su conti aperti in alcuni tra i principali paradisi fiscali internazionali: non è ancora chiaro se questo sia il risultato di un’operazione di finanziarizzazione dell’azienda, servita ad abbattere gli utili attraverso il pagamento degli interessi passivi e a ridurre quindi il carico fiscale, o se vi siano delle motivazioni di natura industriale. Per il momento è stato predisposto un sequestro per equivalente: a tanto ammonterebbero infatti i costi da sostenere per bonificare l’area dell’ILVA dall’inquinamento causato nel tempo dalla gestione Riva.

Come è evidente, la vicenda di Taranto è estremamente complessa ma ha costituito lo spunto per interrogarsi sui modelli che hanno regolato il funzionamento dell’azienda e il suo rapporto con la città e il territorio dall’epoca del suo insediamento (1960) fino ad oggi. Durante gli anni della proprietà pubblica, le istituzioni politiche svolgono un ruolo attivo, volto a promuovere il posizionamento economico dell’azienda sul mercato senza però rinunciare a coniugare l’obiettivo della redditività aziendale con la garanzia delle tutele del lavoro. Il compromesso che sta alla base del modello istituzionale appare fragile e delicato, bisognoso di una periodica manutenzione, ma tiene nel tempo ed appare sostanzialmente equilibrato. I benefici per il territorio sono tangibili come pure i ritorni per l’azienda e per la politica in termini di fiducia e consenso sociali.

Il passaggio dell’azienda alla proprietà privata sembra apparentarsi ad un deciso cambiamento del paradigma regolativo verso il modello contrattualistico. A ben vedere, tuttavia, la privatizzazione dell’Italsider si può meglio interpretare come un processo che transita dalla regolazione istituzionale alla privatizzazione della regolazione. Infatti, la regolazione di mercato pretende norme che devono essere cogenti sia per le parti contraenti (in questo caso, management e lavoratori) che per i soggetti esterni al contratto (i cosiddetti stakeholders, nel caso specifico i cittadini di Taranto e dei Comuni del territorio). All’ILVA si è affermato invece un modello di relazioni tra gli attori squilibrato e asimmetrico, fondato sul predominio della grande impresa rispetto a istituzioni politiche da parte loro quantomeno deboli e disattente, soprattutto nella loro dimensione nazionale e locale, e ad una società locale fino a tempi recentissimi frammentata e rassegnata. In tale contesto, a prevalere nettamente è stata la logica economica della massimizzazione del profitto a breve termine, perseguita dall’imprenditore privato. Di conseguenza, la scelta di ridurre i costi e di privilegiare la quantità della produzione tradizionale rispetto alla qualità di prodotti innovativi ha avuto un netto sopravvento sulla tutela del lavoro, sulla salute dei cittadini e sulla sostenibilità dell’ambiente

 

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Leggere gli altri articoli sull’Ilva di Taranto pubblicati in questa rivista on line nella sezione “Lavoro e sindacato” e “Ambiente”

 

Note

1 Questa visione trovava l’opposizione dei produttori privati (in primo luogo Falck, ma anche Fiat) che, sulla base di varie considerazioni, ritenevano che l’Italia dovesse ritagliarsi un ruolo sussidiario nell’economia internazionale, producendo ridotte quantità di prodotti ad alto contenuto di valore aggiunto.

2 Accanto all’operatore pubblico si collocavano diversi imprenditori privati, proprietari di piccole e medie imprese che producevano acciaio usando la tecnologia dei forni elettrici, partendo quindi dai rottami metallici e ferrosi.

3 Per la ricostruzione dell’intera vicenda si veda Amatori, 2013; Balconi, 1991.

4 Tra il 1989 e il 1992, grazie ai bassi costi dell’energia e del lavoro, le esportazioni di acciaio dai Paesi dell’Est Europa aumentarono di quasi il 66%, raggiungendo 2,6 milioni di tonnellate, mentre la produzione europea era in calo. L’eccessiva capacità produttiva si tradusse in circa 30 milioni di tonnellate di acciaio grezzo e 25 milioni di tonnellate di laminati.

5 Interrogazione parlamentare dell’on. Ludovico Vico al Ministro dello Sviluppo Economico, mercoledì 17 ottobre 2012, seduta n. 705.

6 Questa strategia risulta in netto contrasto con quella perseguita in precedenza dai manager pubblici sulla scorta del modello tedesco.

7 Si fuoriesce dall’azienda con la CIG, con la mobilità ma anche con la legge 257/1992 sull’amianto applicata al 70% dei lavoratori ILVA con almeno dieci anni di anzianità in fabbrica.

8 La vicenda risale al 1997 quando l’ILVA decide di ‘confinare’ nella palazzina della laminazione a freddo, spoglia e priva di strumenti di lavoro, alcuni (alla fine saranno 80 persone) tra i lavoratori più sindacalizzati e che non avevano voluto accettare la proposta aziendale di lavorare con mansioni e qualifiche inferiori a quelle precedenti. L’inchiesta giudiziaria scaturita dall’indagine del locale ispettorato del lavoro si conclude con la condanna di Emilio Riva ed altri dirigenti per violenza privata.

 

Category: Ambiente, Lavoro e Sindacato, Osservatorio Sud Italia

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