Bruno Maggi: La prevenzione nei luoghi di lavoro in Italia

| 4 Febbraio 2013 | Comments (1)

 

 

 

 

 

 

Al fine di tratteggiare l’attuale approccio alla prevenzione nei luoghi di lavoro in Italia ci riferiamo al quadro legislativo, agli indirizzi disciplinari e alle pratiche correnti. Commentando le norme vigenti, le proposte delle discipline interessate e le pratiche diffuse nei luoghi di lavoro non potremo esimerci dall’esprimere il nostro punto di vista, il che ci condurrà a una valutazione critica. Ci permetteremo quindi, per l’economia di questo testo, di richiamare scritti precedenti in cui abbiamo trattato con maggior dettaglio i vari punti, e argomentato in modo più approfondito la nostra critica.

 

Il quadro legislativo

Le norme attualmente vigenti, “in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”, sono contenute nel d.lgs. 81/2008, modificato dal d.lgs. 106/2009. Il decreto del 2008 ha inteso raccogliere in un “testo unico” tutte le precedenti norme in materia, compreso principalmente il d.lgs. 626/1994 che aveva trasposto nell’ordinamento nazionale la direttiva europea 89/391, detta “direttiva quadro” (così come è avvenuto nei diversi Paesi della Comunità Europea). Poiché il decreto 81/2008 enuncia (art. 1, primo comma) che la sua “finalità” è “il riordino e il coordinamento” delle norme nazionali precedenti “nel rispetto delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali”, i principi di prevenzione contenuti in questo decreto devono anzitutto essere confrontati con quelli espressi dalla direttiva europea del 1989 e dal decreto italiano del 1994 ora abrogato.

La direttiva 89/391 definisce la prevenzione come “il complesso delle disposizioni o misure prese o previste in tutte le fasi dell’attività nell’impresa per evitare o diminuire i rischi professionali” (art. 3, d). Essa quindi stabilisce (art. 6) un ordine gerarchico delle misure da adottare: anzitutto “evitare i rischi”, poi “valutare i rischi che non possono essere evitati”, “combattere i rischi alla fonte”, ecc. Il decreto italiano 626/1994 aveva trasposto questo ordine di misure di tutela con l’art. 3, benché in modo meno chiaro, e indicando prima la valutazione dei rischi, poi la loro “eliminazione” e “riduzione alla fonte”, ma conservava (art. 2) la definizione della prevenzione enunciata dalla direttiva: una prevenzione concepita eminentemente come primaria, cioè rivolta a evitare i rischi e a combatterli alla radice, prima che si manifestino nei luoghi di lavoro.

La prevenzione disegnata da questa definizione è inoltre generale, riguardante l’intera situazione di lavoro; e ciò è peraltro confermato, direttamente o indirettamente, da altre prescrizioni della direttiva e del decreto 626/1994. Infine, la direttiva (art. 6, c. 2, g) e il decreto italiano (art. 3, c. 1, d) prescrivono che la prevenzione deve essere programmata, cioè concepita anticipatamente e in termini generali, e integrata nella concezione delle situazioni di lavoro.

Nel decreto 81/2008, invece, la prevenzione primaria appare totalmente rimossa. La prevenzione è ancora definita (art. 2, n) come il complesso delle misure “per evitare o diminuire i rischi professionali”, ma tali “misure generali di tutela” (art. 15) iniziano con la valutazione dei rischi, non v’è alcuna traccia della prescrizione di evitare i rischi. La valutazione, poi, è limitata ai “rischi presenti” dall’articolo dedicato alle definizioni (art. 2, q). La definizione di prevenzione, inoltre, aggiunge, rispetto alla direttiva europea e al decreto 626/94, che si deve trattare di misure necessarie “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica” – il che può essere interpretato in senso limitativo -, mentre cancella che si deve trattare di misure “prese o previste in tutte le fasi dell’attività nell’impresa” – cioè la dimensione primaria e la dimensione generale della prevenzione. Parimenti il programma della prevenzione, che integra “le condizioni tecniche produttive dell’impresa” (art. 15, b) non corrisponde alla prescrizione della prevenzione programmata e integrata nella concezione delle situazioni di lavoro delle norme abrogate e della direttiva comunitaria.

Si può verificare, peraltro, che quando il decreto 81/2008 parla di rischi (si veda anche, per es., gli art. 9, 18, 25, 26, 28, 32, 34, 36, 41, 44), si riferisce solo a “rischi presenti” o “esistenti”, all’”esposizione ai rischi”, alla “gestione dei rischi”. La deviazione da una visione rivolta alla prevenzione primaria verso un quadro di prevenzione secondaria – che cerca cioè di fronteggiare rischi esistenti nella situazione di lavoro – è chiara e netta nelle norme vigenti, e si può pertanto dubitare del loro “rispetto delle norme comunitarie”.

La prescrizione delle valutazione dei rischi contenuta nella direttiva europea (art. 6 e 9) è stata trasposta nel d.lgs. 626/1994 (art. 4), che dettagliava le modalità di valutazione, imponendo di specificare i “criteri adottati”.  Ciò è stato interpretato nel senso che occorresse considerare dei “criteri oggettivi”, con particolare riferimento agli orientamenti dell’unità di medicina e igiene del lavoro della Comunità: doveva trattarsi in qualche modo di una oggettività scientificamente fondata. Il d.lgs. 81/2008 conserva l’obbligo di specificare i criteri della valutazione dei rischi – ormai solo rischi esistenti – (art. 28, c. 2, a), ma il d.lgs. 106/2009, che ritocca quasi tutte le norme promulgate l’anno precedente, modifica con il proprio art. 18 (c.1, d) l’art. 28 del decreto del 2008, prescrivendo che “la scelta dei criteri è rimessa al datore di lavoro”. Ogni oggettività è perduta. Si può dedurre da questa modifica che ogni datore di lavoro può fare una qualsiasi valutazione, di cui egli stesso attesta la validità.

Infine, le norme vigenti non implicano alcun obbligo di analisi del lavoro a fini di prevenzione. Il percorso che conduceva alla valutazione dei rischi e alla programmazione della prevenzione, secondo la direttiva comunitaria e la sua trasposizione nell’ordinamento nazionale, presupponeva chiaramente quest’obbligo, che poteva essere considerato l’innovazione più rilevante di tali norme. La prevenzione era concepita, si è visto, come prevenzione primaria, generale, programmata, e integrata nella concezione del lavoro. Essa doveva basarsi su una valutazione generale ed esaustiva, fondata oggettivamente su criteri documentati, di forma iterativa, rivolta al miglioramento continuo della complessiva situazione di lavoro e di ciascuno dei suoi aspetti. Ciò presupponeva una analisi e un intervento nella situazione di lavoro per il controllo della salute e della sicurezza dei lavoratori. In tal senso si poteva parlare di un obbligo di analisi del lavoro introdotto dalla legge (Maggi, 1997; 2003: II, 4). E questo, peraltro, era il riconoscimento dei risultati di innumerevoli ricerche di psicologia e sociologia del lavoro, o d’ergonomia.

 

Gli indirizzi disciplinari

La medicina del lavoro è stata fondata a Milano all’inizio del XX secolo da Luigi Devoto, che – indicando il lavoro come il “vero paziente” – proponeva una disciplina con intenzioni nettamente preventive. Benché in effetti divisa nel corso della sua storia tra l’attenzione alle malattie professionali e l’intervento sul lavoro, la medicina del lavoro italiana ha sempre coltivato un reale impegno negli ambienti lavorativi e la loro diretta conoscenza. Una stretta collaborazione con i delegati sindacali nelle fabbriche data dagli anni 1970, e una rilevante esperienza delle situazioni di lavoro si è sviluppata tra i medici impegnati nelle unità multidisciplinari delle unità sanitarie locali del Servizio Sanitario Nazionale istituito con la legge n. 833 del 1978.

Malgrado questi tratti caratteristici, tuttavia, la medicina del lavoro italiana non ha saputo accogliere la capacità di ascolto di stimoli provenienti da altri campi di studio, riguardanti l’analisi dei processi di lavoro rivolta alla prevenzione, che qualcuno dei suoi rappresentanti aveva ben mostrato (Grieco, 1990; Rulli, 1996). Essa ha invece recepito, nel corso del tempo, indicazioni delle discipline ingegneristiche sui procedimenti di trasformazione industriale, nozioni della visione tayloristica del lavoro, la proposta sindacale di classificazione dei “fattori di nocività”, i messaggi della psicologia sociale funzionalista sull’informale, la flessibilità, la discrezionalità, la soddisfazione. E’ ben vero che ha saputo sviluppare rilievi critici su questi apporti, ma è nondimeno rimasta esposta a influenze contraddittorie di proposte inadatte agli obiettivi di prevenzione (Maggi, 1994/2010).

Soprattutto essa è rimasta ancorata ai procedimenti di spiegazione necessaria o probabilistica dell’epidemiologia tradizionale, che risale dai danni ai rischi secondo parametri di esposizione e non permette così di trovare una adeguata spiegazione delle condizioni e delle conseguenze dei rischi quando sono possibili, ma non probabili o ancor meno necessarie. Il caso più rilevante riguarda lo studio dello stress, ove la medicina del lavoro rimane incapace di interpretare le relazioni aspecifiche tra stressors, stress, strain e conseguenze sulla salute di soggetti implicati. L’adozione dell’interpretazione psicologica dello stress – in realtà una delega -, della nozione priva di fondamento di “rischi psicosociali” che si aggiungerebbero ai “rischi fisici e chimici”, e l’utilizzazione costante dell’idea di “fattore” di rischio anche laddove non si tratta di rapporti di causa/effetto, testimoniano largamente una debolezza non risolta (Maggi, 1994/2010).

L’insegnamento dei criteri di analisi del lavoro secondo la metodologia del Programma interdisciplinare di ricerca Organization and Well-being è dal 1981 una eccezione nella Scuola di specializzazione in medicina del lavoro dell’Università di Milano: una eccezione che non può avere influenze determinanti sull’orientamento generale della disciplina.

La disciplina italiana del diritto del lavoro tende ad accettare una visione della situazione di lavoro necessariamente predeterminata dalle scelte economiche e manageriali dell’imprenditore. Persino l’interpretazione delle relazioni di lavoro ha recentemente fatto riferimento, in alcuni casi in modo esplicito, a teorie funzionaliste dell’economia d’impresa. Le ricerche di Salento (si veda in questo Quaderno) illustrano questa tendenza, che configura un vero cambiamento dei quadri di riferimento tradizionali della disciplina.

In verità, la libertà d’iniziativa economica, statuita dal primo comma dell’art. 41 della Costituzione è sottoposta – dal secondo comma dello stesso articolo – alla condizione che non ne derivi danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, e la salute è protetta dall’art. 32 della Costituzione come diritto fondamentale della persona.

Per quanto riguarda, in particolare, la prevenzione nei luoghi di lavoro, l’interpretazione corrente delle norme riconosce che il datore di lavoro deve adottare i dispositivi tecnologici più sicuri tra quelli disponibili, ma non considera con uguale attenzione le conseguenze delle scelte riguardanti l’organizzazione sulla sicurezza – e ciò anche nella giurisprudenza (come è messo in evidenza da Guariniello, 1997). Tuttavia una parte della dottrina sostiene l’obbligo di rispettare, con le scelte organizzative, il bene fondamentale della salute dei lavoratori (si veda ad es. Montuschi, 1976/1989; Lai, 2006).

Il modo di concepire l’organizzazione ha dunque un impatto fondamentale sull’atteggiamento sia della dottrina sia della giurisprudenza nei confronti dei problemi della prevenzione nei luoghi di lavoro. Ora, da un lato l’organizzazione è vista come una “entità” (un insieme di persone, di luoghi, di strumenti, di capitali, ecc.), il che impedisce di comprendere l’”azione organizzatrice” che configura la situazione di lavoro, ivi comprese le conseguenze sulla salute dei soggetti implicati. Dall’altro lato, questa visione separa l’”organizzazione del lavoro” dalle scelte di flusso, di condizioni fisiche, di strumenti, di materiali, della gestione del tempo e dello spazio, ecc., il che impedisce di prendere atto del fatto che ogni aspetto di un processo di lavoro non è altro che il frutto di scelte organizzative che – in modo variabile – lo costituiscono e lo formano (Maggi, 2003; 2006).

Occorre aggiungere che il diritto del lavoro prende a prestito dal linguaggio biomedico termini come “fattori di rischio”, “stress correlato con il lavoro”, “nocività organizzative”. Il primo termine – si è visto sopra – non tiene conto della riflessione metodologica riguardante le differenze tra rapporti di causalità necessaria, probabile e possibile; il secondo termine non dice nulla sulla specificità dello stress al lavoro e ignora totalmente la riflessione sullo stress (Rulli, 2010); il terzo termine ignora la riflessione del campo di studio dell’organizzazione e presuppone assurdamente l’esistenza di rischi e di danni nei luoghi di lavoro che non avrebbero origine in scelte organizzative (Maggi, 2003; 2006).

Sulle norme vigenti relative alla salute e alla sicurezza i giuristi del lavoro italiani appaiono divisi tra valutazioni positive e valutazioni critiche che riguardano principalmente la ridondanza del testo legislativo e la sua tendenza a voler risolvere i problemi della prevenzione tramite procedure e certificazioni. La questione della rimozione della prevenzione primaria in queste norme non appare sollevata; il dibattito giuridico sembra ignorare che le linee guida cui queste norme rinviano considerano esclusivamente la prevenzione secondaria, e che nella maggioranza dei casi le imprese non rispettano né le norme né le linee guida.

La sociologia del lavoro fondata da Georges Friedmann (Friedmann, Naville, 1961-1962) ambiva rappresentare il centro di una convergenza di numerose discipline per la costituzione di una “scienza del lavoro” globale, ove il “benessere” dei lavoratori fosse una fondamentale posta in gioco. In realtà l’ambizione interdisciplinare e il tema del benessere sono stati abbandonati nel corso della istituzionalizzazione della disciplina, che ha avuto peraltro ragguardevoli sviluppi (Maggi, 2003: II, 1). In Italia è emersa piuttosto una sociologia economica, che raggruppa – con sviluppi ineguali – studi di sociologia dell’occupazione e dei mercati del lavoro, delle trasformazioni industriali, dei processi economici, delle relazioni industriali (Martinelli, 1985; Regini, 2007).

Lo studio delle situazioni di lavoro e delle loro trasformazioni, così come del cambiamento organizzativo del lavoro, appare molto lontano dalla sociologia friedmanniana e – salvo casi rarissimi – ripiegato sulla psicologia sociale socio-tecnica, o talvolta verso orientamenti fenomenologici. L’indirizzo delle relazioni umane, in particolare, costituisce il quadro di riferimento privilegiato dei (rari) approcci alla salute nel lavoro. In effetti, questi approcci si occupano della “qualità della vita di lavoro”, seguendo le teorie, antiche e rinnovate, della “motivazione”, della “soddisfazione”, della “flessibilità”. Nella logica funzionalista del sistema di lavoro predeterminato dalle scelte economiche e tecnologiche, è in gioco l’”adattamento” del soggetto: un adattamento flessibile, perseguito per mezzo della riduzione dello stress “percepito” e dell’aumento della soddisfazione, verso una “qualità soddisfacente” della vita di lavoro, contrabbandata come soluzione di benessere (Maggi, 2006).

La psicologia del lavoro italiana, accanto a questi approcci psicosociali – condivisi da una sedicente sociologia del lavoro – ha prodotto due approcci originali che non vanno dimenticati. Il primo ha avuto la sua culla nel Centro di psicologia delle fabbriche Olivetti, fondato da Cesare Musatti, padre della psicanalisi in Italia, su mandato di quell’imprenditore illuminato che è stato Adriano Olivetti. Nell’ambiente di un’impresa singolarmente aperta ai valori umanistici, le ricerche condotte principalmente dagli psicologi Franco Novara e Renato Rozzi negli anni 1960 hanno saputo influenzare le scelte organizzative degli ingegneri (Musatti et al., 1980). Esse hanno mostrato i rischi e i danni delle soluzioni tayloristiche e favorito l’arricchimento dei compiti e il lavoro di gruppo, con un approccio psicotecnico fortemente segnato da un fondamento psicodinamico.

Un secondo indirizzo è stato sviluppato da Ivar Oddone, dell’Università di Torino, con rappresentanti sindacali delle fabbriche di automobili FIAT negli anni 1960 e 1970. Fondato sulla valorizzazione dell’esperienza operaia, in opposizione alla delega della salute ai tecnici, propria delle posture accademiche della psicologia e della medicina del lavoro (Oddone, Re, Briante, 1977), ha avuto risonanze diverse per le sue diverse componenti. La proposta di una analisi del lavoro avente i lavoratori come protagonisti è stata valorizzata in Francia: dall’interpretazione di Yves Clot nel quadro del suo indirizzo di “analisi dell’attività” (si veda, in particolare, Clot, 2008: I, 4) e dai riferimenti di Yves Schwartz nel suo indirizzo “ergologico” (Schwartz, 2001: passim). In Italia il sindacato (in particolare la CGIL), e in parte la medicina del lavoro, hanno accolto la proposta di uno strumento di lettura delle condizioni di lavoro: una classificazione di “quattro gruppi di fattori di nocività”. Tuttavia, sia il sindacato sia la medicina del lavoro si sono rapidamente trovati di fronte a rilevanti debolezze implicate da tale strumento: la pretesa di interpretare la ripetitività, la monotonia, i ritmi, la fatica, come “fattori” (presupponendo una spiegazione in termini di causalità necessaria); l’accostamento delle logiche incompatibili della spiegazione causale positivistica e dell’interpretazione della soggettività; la separazione dell’”organizzazione del lavoro” e dell’”ambiente”, come se i “fattori di nocività” fisici non fossero dovuti a scelte di organizzazione; il presupposto che l’organizzazione tayloristica sia la sola possibile (Maggi, 1994/2010; 2003: II, 4).

L’ergonomia, molto sviluppata nel mondo secondo diversi orientamenti, non ha mai avuto in Italia una vera nascita disciplinare, e ciò perché interessi ergonomici sono stati coltivati da medici del lavoro all’interno del loro quadro disciplinare, così come, assai raramente, da psicologi (ad es. Re, 1995). I medici, peraltro, si sono orientati verso gli indirizzi anglofoni dell’ergonomia, trascurando la tradizione francofona caratterizzata dallo studio delle situazioni di lavoro e dall’intervento per trasformarle, che sarebbe stata più consona all’approccio italiano della medicina del lavoro.

Le discipline ingegneristiche, l’economia d’impresa, le discipline aziendali, non sembrano essersi sinora poste la questione dei rapporti tra lavoro e benessere dei lavoratori.

 

Le pratiche e i loro risultati

Le “buone prassi”, e le “linee guida” per l’applicazione delle norme in materia di salute e sicurezza, sono principalmente elaborate da due istituzioni nazionali: ISPELS (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) e INAIL (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) – la prima compresa nella seconda dal 2010 – come è disposto dal d.lgs. 81/2008 ora vigente all’art. 2, c. 1, lettere v e z, e all’art. 9, c. 2, lettere i e l.

Le linee guida per la valutazione dei rischi sono state prodotte negli anni 1990, in seguito all’emanazione del precedente d.lgs. 626/1994. Esse hanno evidentemente l’intenzione di guidare al controllo esaustivo dei rischi, ma mirano esclusivamente alla prevenzione secondaria, ignorando totalmente la prevenzione primaria. Data la fonte istituzionale (e il riferimento legislativo) di tali istruzioni, le imprese che le seguono possono ritenere d’aver assolto, per ciò stesso, gli obblighi di legge. Il che, per inciso, rischia di indebolire il dibattito riguardante l’interpretazione delle norme. Le pratiche delle imprese, tuttavia, appaiono allontanarsi spesso anche dalla prevenzione secondaria: le piccole e medie imprese fidando sulla assai bassa probabilità di controlli; le grandi imprese calcolando che le ammende costano meno, a loro avviso, del rispetto delle norme; le une e le altre appoggiandosi sulle auto-certificazioni previste dalla legge.

Il sindacato, dopo la gloriosa stagione degli anni 1960-1970 per la coscienza operaia della salute nel lavoro, ha abbandonato questo tema, dalla disfatta subita nel 1980 per iniziativa della FIAT. Occorre peraltro osservare che il sindacato italiano non ha mai avuto idee chiare sulla prevenzione. Accanto all’utilizzazione dello strumento dei “quattro gruppi di fattori di nocività” ha accettato i messaggi delle relazioni umane socio-tecniche, che decantavano i “gruppi autonomi di lavoro”, la “flessibilità”, la “soddisfazione”. Quando le rivendicazioni basate sulla valutazione dei “fattori di nocività” hanno provocato scelte manageriali che peggioravano le condizioni dei lavoratori implicati, non ha saputo riflettere sulle ragioni di tali risultati opposti alle attese (cioè sui fondamenti dello strumento adottato), ed ha nuovamente proposto lo stesso strumento in occasione della promulgazione del d.lgs. 626/1994. Recentemente ha difeso il d.lgs. 81/2008 solo perché proposto da un governo di centro-sinistra e modificato dal successivo governo di destra, senza considerare lo scostamento di tali norme rispetto alle norme precedenti, e soprattutto rispetto alle norme comunitarie.

Quali sono i risultati di queste pratiche? Tre morti al giorno in media, per non parlare che degli incidenti più gravi. L’INAIL ha recentemente espresso una valutazione positiva della diminuzione dei tassi ufficiali di incidenti negli ultimi anni, ripresa con enfasi dai mezzi di comunicazione, dimenticando che quei dati devono essere posti a confronto con i dati riguardanti l’occupazione e i tempi di lavoro. Negli stessi anni l’occupazione è fortemente diminuita, così come il totale delle ore lavorate, cioè dell’effettiva esposizione ai rischi. E ciò per il lavoro regolare. Occorre aggiungere il lavoro “in nero”, dei disoccupati, dei pensionati, degli immigrati senza permesso di soggiorno, cui evidentemente corrispondono incidenti non dichiarati. In realtà gli incidenti, rapportati alle presenze effettive di persone al lavoro, aumentano progressivamente.

Si può allora dubitare che le norme vigenti in materia di salute e sicurezza nel lavoro siano adatte al loro obiettivo? Ci si può interrogare sulle pratiche diffuse? Le discipline implicate non dovrebbero riflettere sui loro approcci? Sia permesso ricordare che il Programma interdisciplinare di ricerca Organization and Well-being (www.taoprograms.org) propone da tre decenni una diversa lettura della prevenzione e dell’organizzazione, e una pratica di analisi del lavoro e di intervento che realizza la prevenzione primaria.

 

 

Riferimenti bibliografici

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Category: Dichiariamo illegale la povertà, Lavoro e Sindacato, Welfare e Salute

About Bruno Maggi: About Bruno Maggi: Bruno Maggi (Milano, 1938) si è laureato nel 1963 in filosofia del diritto con Renato Treves all'Università degli Studi di Milano. Assistente di Treves, lavora tra il 1966 e il 1969 al Centro di ricerche sociologiche e sull’organizzazione dell'Olivetti diretto da Luciano Gallino, insieme a Gian Antonio Gilli e Vittorio Diena. Dal 1971 insegna all'Università di Torino, inizialmente come professore associato di Metodologia delle scienze sociali, poi di Sociologia dell’organizzazione, in seguito come professore ordinario di Sociologia del lavoro. Dal 1993 si sposta all'Università di Bologna, dove insegna sino al 2010 Teoria dell'organizzazione nella Facoltà di Economia. Ha inoltre insegnato Teoria dell’organizzazione dal 2002 al 2010 nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano, e Teoria dell’organizzazione e analisi del lavoro dal 1981 al 1994 alla Scuola di specializzazione in Medicina del lavoro dell’Università di Milano e dal 1995 al 1998 alla corrispondente Scuola dell’Università di Bologna. Attualmente insegna Teoria dell’organizzazione e Metodologia delle scienze sociali nel Dottorato di General Management dell’Università di Bologna e nel Dottorato di Economia dell'Università di Ferrara. E' stato visiting professor in strutture universitarie e di ricerca in Francia (Parigi, Tolosa, Aix-Marseille), Portogallo, Canada, Uruguay, Brasile. Tra le sue opere: Razionalità e benessere (Torino 1984, seconda edizione Milano 1990); Lavoro organizzato e salute (Torino 1991); De l’agir organisationnel (Tolosa 2003, edizione portoghese Sao Paulo 2006 e spagnola Madrid 2009); (a cura di) Interpréter l'agir : un défi teorique (Parigi 2011, edizione italiana Interpretare l'agire: una sfida teorica, Roma 2011). Bruno Maggi ha fondato e dirige da tre decenni due programmi interdisciplinari di ricerca: sul cambiamento organizzativo nel lavoro e nell’impresa e sui rapporti tra lavoro e benessere; nel 2010 ha fondato la collana elettronica TAO Digital Library, Bologna (www.taoprograms.org).

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