Natalia Aspesi, Lucia Poli: Due ricordi di Paolo Poli morto a Firenze a 86 anni

| 27 Marzo 2016 | Comments (0)

 

 

Ricordiamo Paolo Poli diffondendo i ricordi di due donne che lo conoscevano bene pubblicati il 27 marzo 2016. Tra le sue frasi : “La sola legge che ho infranto è quella della gravità”, “Il torto di Dio è di non aver brevettato l’uomo. Per questo ce ne sono in giro tante cattive imitazioni”, “Il sesso è nel cervello non è tra le gambe”, “Senza tragedie, senza cattivi non c’è storia”, “Fuggirei subito con marinaio ma le nozze gay non mi garbano come non mi garbano quelle tra uomo e donna”, “La mente è come l’ombrello, per funzionare deve essere aperta”, “Sapevo fin dall’inizio di essere gay. Entrai  in una panetteria e vidi che mi garbava il fornaio. Andai al cinema, davano King Kong, avevo cinque anni e vidi che mi garbava pure il gorilla”

 

1.  Natalia Aspesi: Quando Paolo Poli interpretò me

La Repubblica 27 marzo 2016

Dopo la camera ardente di ieri a Roma, le cerimonie per la scomparsa di Paolo Poli continueranno nella “sua” Firenze. Dopo il ponte pasquale è prevista un’ultima cerimonia in forma privata.
Tanti nelle ultime ore i messaggi di cordoglio arrivati dal mondo della cultura, dello spettacolo e della politica. E la Rai ricorderà l’attore scomparso riproponendo una serie di trasmissioni

IN un giorno qualunque del 2006 Paolo Poli venne a intervistarmi per una delle sue meravigliose radiose cattiverie teatrali: il suo nuovo spettacolo raccontava con la stessa generosa malizia con cui aveva interpretato Carolina Invernizio o Caterina de’ Medici, il dolente ridicolo di certe donne che per ragioni molto diverse e ovviamente di diversa importanza, erano uscite dal protettivo anonimato destinato alle femmine.

PER, in qualche modo, alto o basso, infastidire le regole che le volevano inesistenti. L’ho ricordato in una breve introduzione a un bel libro di Marina Romiti (Paolo Poli e Lele Luzzati, Maschietto Editore) che raccontando il rapporto professionale tra l’attore e l’autore delle scene dei suoi spettacoli, approfondisce la passione di Poli per l’arte e la sua enciclopedica cultura.

“Mi guardavo sul palcoscenico, con il caschetto biondo perfetto, alta, slanciata, sinuosa e persino carina: infatti non ero io ma Paolo Poli che faceva la Aspesi in un suo non del tutto crudele spettacolo, Sei brillanti giornaliste del Novecento: era il 2006, quindi giustamente ero stata collocata con le colleghe, loro sì grandi, (Mura, Masino, Brin, Cederna, defunte e Gianini Belotti) nel secolo scorso”.

Era vero, non ci avevo mai fatto caso a questa ovvia realtà: che appartenevo completamente anche se ancora in vita, al secolo passato. “Spararsi? No, anzi rassicurarsi perché quella Aspesi più vispa e colta della vera, quel Paolo Poli, così leggiadro e agile, erano, sono miei coetanei”. Alla vecchiaia ci si abitua senza rimpianti, solo un po’ infastiditi e un po’ impazienti. Così è stato per Poli, che non si è mai celebrato ed ha sempre vissuto in segreto, esibendosi solo in palcoscenico, mai come se stesso ma come una serie di personaggi soprattutto femminili con cui ci faceva ridere senza ridicolizzarli.

Ho un altro ricordo più recente, di pochi anni fa al Teatro Carcano di Milano. In prima fila proprio davanti a me, era arrivato a spettacolo già iniziato un celebre noiosissimo maleducato esperto d’arte infiltrato in politica, che tra due sue amiche così belle da sembrare travestiti, passò tutto il tempo al cellulare. Alla fine andò con le sue dame a salutare Poli, per cui io me ne andai: fuori vidi un uomo che scappava dentro un mantello, ed era lui, l’attore, che fuggiva per non dover incontrare quel rompiscatole.

Cinquant’anni fa, nel 1966, vidi per la prima volta Paolo Poli che in un teatrino milanese, con treccine bionde e uno sbuffante abitino da pastorella, interpretava in modo incantevole Rita da Cascia. Milano era scandalizzata, e infatti io ci andai con un giovanotto che si dichiarava mio fidanzato e che invece poco tempo dopo a uno spettacolo dei Legnanesi che non erano considerati riprovevoli perché il loro travestimento era grottesco, si rivelò un simpatico gay. Si sa che in quegli anni, gli omosessuali non esistevano, erano quasi tutti fidanzati con ragazze bruttine e poco esigenti, ma Paolo Poli no, non si nascondeva, parlava sempre di sé al femminile con grande ironia. Non aveva mai vicino un altro uomo, non si fidanzava mai, né con una né con uno.

Era un uomo solitario di aristocratica bellezza ed eleganza e lo è stato sino alla fine: interpretando le sue celebri vittime senza mai sembrare un travestito, rendendole più belle del vero, e solo se necessario pudicamente grottesche. Non ha mai offeso le donne, le ha anzi celebrate nella loro infelicità femminile, facendole specchiare nella sua angelica bellezza e nella sua malinconica vitalità.

 

 

2. Lucia Poli: Io e mio fratello Paolo Poli uniti anche dagli sberleffi

Corriere della Sera 27 marzo 2016. Intervista di Emilia Costantini

 

ROMA «Il suo epitaffio? Parafrasando Dorothy Parker, potrebbe essere “scusate se faccio polvere”». Chiosa così Lucia Poli la scomparsa dell’amato fratello Paolo, rendendo omaggio all’ironia che lo ha sempre contraddistinto.

«Un’ironia incontenibile che ha accompagnato la sua vita e la sua carriera d’attore. Un’ironia però che lascia il segno, mai bonaria ma caustica, quella di un Oscar Wilde, per intenderci, che a volte rasentava un cinismo surreale».

Fino alla fine?

«Purtroppo l’ultimo mese e mezzo, da quando il 18 febbraio è stato colpito da ischemia cerebrale, è stato dolorosissimo. Era paralizzato, afasico. Un periodo di sofferenza per lui e per me che gli ero vicina tutti i giorni. In questo momento, ora che non c’è più, riaffiora anche la fatica, l’affanno di un’agonia che, per fortuna, non è stata troppo lunga».

In pochi sapevano della sua malattia e del ricovero.

«Sì, ho tenuto la notizia riservata, perché non volevo che finisse in pasto a tutti, che se ne impossessassero i giornali, che magari sul web spuntassero foto o indiscrezioni che violassero la dignità, la solitudine che un uomo, un artista come lui, stava vivendo. Ho voluto mantenere il riserbo per il rispetto che si deve a una persona che sta consumando i suoi ultimi attimi di esistenza. Ma capisco anche che Paolo appartiene a un pezzo di storia del nostro Paese e quindi, ora, è giusto parlarne, ricordarlo, rammentare quanto è stato amato dal suo pubblico».

Un pubblico che lo ha seguito fino alle sue ultime repliche.

«Ha lavorato fino alla fine, non era mai stanco di recitare. Negli ultimi tempi ogni tanto si lamentava, mi diceva “strascico un po’ le gambe” e io gli rispondevo, prendendolo in giro anche stupita delle sue lamentele: Paolo ma che pretendi! È artrosi… Ce l’ho pure io! Tu hai 86 anni e vuoi correre?».

Lui tuttavia conviveva bene con la vecchiaia.

«Certo, perché la viveva in palcoscenico in una continua ginnastica fisica e mentale, dimenticando gli acciacchi dell’età».

A gennaio ha inaugurato la riapertura del Teatro Niccolini di Firenze.

«Era felicissimo, perché al Niccolini era molto legato, era stato la sua casa per tanto tempo e poi, a noi fiorentini, piace molto lavorare nella nostra città. Ma in quell’occasione non aveva fatto un vero e proprio spettacolo, piuttosto una chiacchierata col pubblico, un’affabulazione di ricordi, aneddoti… Una sorta di résumé».

Lei, Lucia, ha perso un fratello e un compagno di scena.

«Ne sono stata anche allieva: avevamo undici anni di differenza. Io ero bambina e lui era già grande: mi raccontava i film e gli spettacoli che andava a vedere».

Per esempio?

«Ricordo di aver conosciuto Amleto attraverso la sua descrizione di una messinscena cui aveva assistito non ricordo dove e con chi. Ma ricordo che mi raccontò un Amleto tragicomico e non drammatico com’è nella realtà del testo shakespeariano. Paolo era fatto così, interpretava non solo i suoi personaggi, ma anche quelli degli altri».

Vi divertivate a recitare insieme?

«Sì tanto, anche perché amavamo gli stessi autori, come per esempio Palazzeschi. Poi ci somigliavamo anche fisicamente, un’identità quasi imbarazzante che ci ha unito profondamente. E quando nacque mio figlio, Paolo era fuori di sé dalla gioia di portarlo in tournée: noi in scena, il bambino nella cesta, come nel teatro all’antica italiana».

Il suo maggior difetto?

«Il narcisismo: è tipico di tutti gli attori, in lui più accentuato. Paolo in palcoscenico si sentiva a suo agio. Avrebbe voluto morire in scena come Molière. È morto poco lontano».

 


 

Category: Arte e Poesia, Editoriali

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