Aldo Tortorella: Salvare la Repubblica fondata sul lavoro. Auguri per i suoi 90 anni

| 9 Luglio 2016 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo il testo pubblicato a stampa su “Inchiesta”  aprile-giugno 2016  facendo gli auguri per domenica 10 luglio, giorno in cui Aldo Tortorella  (nato a Genova il 10 luglio 1926) festeggia i suoi 90 anni

 

Vorrei innanzitutto ringraziare la fondazione Sabatini e Tiziano Rinaldini, per l’invito a questa iniziativa, invito che debbo principalmente , immagino, al fatto che essendo ormai così vecchio fui partecipe di quella stagione costituente tanto diversa dall’attuale. Una stagione che vissi, però, solo come testimone, seppure attivo, dato che al momento delle elezioni dell’assemblea non solo non potevo essere eletto ma non potei neppure votare perché non  avevo ancora compiuto i ventuno anni della maggiore età , nonostante avessi  già avuto il tempo di partecipare a tutta la resistenza e di  usufruire anche della ospitalità carceraria fascista.  Un testimone attivo, dunque, o meglio un osservatore posto in una condizione privilegiata, poiché mi trovavo ad occupare , spero non troppo indegnamente pur da minorenne, il ruolo di responsabile del servizio politico dell’Unità di Milano, dopo aver partecipato a fondare il 24 aprile del 1945 la edizione genovese del medesimo quotidiano, allora organo del Pci. Mi pare di ricordare che già mi considerassi un maturo militante e certamente avevo voce in capitolo, come si dice nel diritto canonico, per discutere dei titoli e degli articoli, tra cui quelli riguardanti la costituente,  con i compagni dell’edizione romana, non senza dissensi dovuti alle diverse storie e alle diverse sensibilità.

Mi chiedevo dunque, leggendo i saggi ricchi di sapere di questo volume, se il mio interesse non fosse nutrito di senile nostalgia e perciò digiuno di senso della realtà. In effetti, com’è ovvio, e come sapevamo anche prima che ce lo spiegassero i nuovisti di ieri e i  loro rottamatori successivi, quel mondo non esiste più da gran tempo né nel suo assetto politico, né, prima ancora, nelle tecniche della produzione, nelle modalità del consumo, nelle relazioni comunicative. Da gran tempo, con la vittoria dell’occidente e del suo modello capitalistico, è terminata la guerra fredda che aveva preso le mosse, proprio nel mentre la costituente  svolgeva il suo lavoro, con la rottura dell’unità antifascista nel mondo e poi in Italia. E qui da noi sono tutti scomparsi per diversi motivi i partiti autori della Costituzione, così come gli uomini e le donne che la concepirono e la scrissero, cui questo volume rende la parola.  Parrebbe di trovarsi, dunque, in un luogo di ombre lontano e perduto, che può appassionare un vegliardo ma ha poco o niente da dire al tempo in cui viviamo.

Tuttavia c’è una prova contraria a questa sconfortata conclusione. Se le idee allora discusse, e di cui qui si riferisce, fossero morte con le persone che  le venivano svolgendo e trasformando in norme, esse non desterebbero tante odierne  polemiche. Il governo italiano attuale fa risiedere il suo vanto maggiore nell’opera compiuta per rifare molte essenziali parti della Costituzione e  nello smantellamento sistematico della legislazione del lavoro che dalla Costituzione è derivata. Ma tutta questa operazione che pareva ai suoi autori quasi ovvia con l’argomento che la costituzione materiale aveva già rimpiazzato quella formale, ha trovato difficoltà e resistenze non solo dalle parti sociali maggiormente colpite e dalle parti politiche della opposizione ma anche nel campo da cui veniva propugnata. Che le obiezioni siano state messe a tacere non significa che esse non abbiano avuto valore probatorio, come si direbbe in un procedimento giudiziario. Anche perché il consenso è stato generalmente ottenuto con il metodo del ricatto alla maggioranza parlamentare attraverso l’abuso del voto di fiducia, abuso sempre contrario ad una corretta dialettica tra esecutivo e legislativo e certamente indecente in materia costituzionale, ancor più quando la maggioranza è stata ottenuta con una legge elettorale dichiarata incostituzionale.

 

Un attacco antico

E’ vero . L’attacco alla Costituzione non è nuovo ed è incominciato subito dopo la sua approvazione. Il giorno stesso in cui l’Unità annunciava a tutta pagina che “La costituzione repubblicana e antifascista / approvata in una solenne seduta della costituente” subito sotto portava un altro titolo che diceva: “Quattro lavoratori assassinati / dai mitra di Scelba ad Agrigento”. Scelba era allora il ministro degli interni, quello che definì la Costituzione “una trappola” da cui bisognava uscire. Cinquanta anni dopo Cossiga, presidente della Repubblica e dunque  con il dovere di difendere la Costituzione,  la picconava con un messaggio alle camere nel momento stesso, era il 1991, in cui il Pci si veniva sciogliendo tramutandosi in altro da se. In mezzo, una lunga storia di assalti alla “Repubblica fondata sul lavoro” con una ininterrotta scia di sangue. Ora noi viviamo il tentativo di portare a compimento quest’opera e perciò, dunque, e non per nostalgia é assai importante riscoprire la origine e il travaglio che hanno generato l’impianto costituzionale e il suo contenuto più vero che è quello che, appunto, pone “prima di tutto il lavoro”, come recita il titolo del volume curato dal prof. Gaeta. Un contenuto ora negato nelle sue conseguenze attraverso la legislazione ordinaria (il jobs act), e poi stravolto con mutamenti della seconda parte che tendono a vanificare i principi della prima.

In discussione non è stata l’abolizione del Senato che, peraltro, non viene abolito ma ridicolizzato nella composizione e, al tempo stesso, gravato di compiti che creeranno più complicazioni e più conflitti in numerose materie. In discussione è stata la combinazione tra una legge elettorale non diversa da quella, incostituzionale, che il suo stesso autore definì come il porcellum (con grave offesa alla nobile razza suina), e la concentrazione del potere esecutivo nelle mani del presidente del consiglio – cosa pericolosa chiunque egli sia. Ciò che si vuole stabilire è la prevalenza del potere esecutivo sul legislativo, anche a conclusione di una vigorosa campagna antiparlamentare  che ha usato il cattivo o pessimo esempio di alcuni e le numerose pecche del sistema non per critiche e proposte costruttive, ma piuttosto per alimentare lo sfascio.

E se ne capisce il motivo. La rappresentanza è l’unica arma stabile di potere istituzionale che le classi subalterne potrebbero adoperare a propria difesa insieme con i partiti di massa organizzati. Molti partiti della prima repubblica degenerarono, ma fu un grave errore ignorare o schernire l’appello alla autorigenerazione dei partiti lanciato all’inizio degli anni ’80 da un uomo che oggi viene largamente rimpianto ma allora fu sbeffeggiato dagli avversari e contrastato all’interno stesso del suo partito, vale a dire Enrico Berlinguer. Con la fine dei partiti organizzati i mali non sono guariti, come era stato largamente assicurato. E, anzi, quei mali si sono aggravati, ora che la partecipazione è guardata con sospetto o ignorata, e dunque gli iscritti sono calati paurosamente, il controllo popolare è diminuito, un discutibile notabilato s’impone e c’è persino il caso della elezione dei candidati di un partito e addirittura del suo segretario  per cui possono votare, caso unico al mondo, anche gli elettori della controparte o gli ignari, al modico prezzo di un euro o due, talora rimborsato. Anche nel secolo passato i camorristi o i mafiosi tentavano di penetrare  nel Pci, il mio partito. Ma c’era un modo di essere di quel partito che li respingeva e sarebbe stato impensabile che qualcuno di essi potesse diventare, come oggi è accaduto, un quadro dirigente.

Non sono un lodatore del tempo passato. Non dubito che in tutta la vicenda politica italiana e nei suoi attuali esiti ci sia la responsabilità anche di coloro che hanno avuto in altra epoca storica qualche funzione significativa nella sinistra di allora sia che favorissero la tendenza alla pura e semplice liquidazione della propria storia sia che pensassero ad un  rinnovamento e non ad uno stravolgimento dei partiti e delle istituzioni : colpevoli questi ultimi, tra cui sono anch’io, di non aver saputo argomentare meglio e più profondamente per salvare ciò che andava salvato, visto che dovevano andare contro una corrente d’opinione sospinta da un impetuoso vento mediatico restauratore, un vento  che spira violento ancora oggi da ogni parte. Certo è che prevalse l’idea che i mali della repubblica derivassero dalla Costituzione e non da una cattiva politica figlia di una democrazia dimezzata per l’ostracismo pregiudiziale verso ii comunisti, pur se diversi od opposti rispetto ai sovietici. Aldo Moro pagò con la vita la costituzione di una maggioranza di governo volta a superare questa anomalia mantenendo vivi i partiti costituenti.

Il metodo e il merito

Dopo quell’ultimo tentativo di Berlinguer e di Moro non ci furono più ostacoli seri alle accuse e agli attacchi alla Costituzione. La sintesi più sincera di queste accuse venne, come si sa, da uno dei centri del potere globale e cioè dagli analisti di una delle banche massime degli Stati Uniti, la  JP Morgan, in documento di qualche anno fa, già qui ricordato, sulle difficoltà dei Paesi del sud Europa. Le costituzioni di questi paesi hanno subìto, secondo quel documento, una eccessiva influenza delle idee socialiste  e dunque hanno  “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche allo status quo.” Non c’è punto di questa direttiva  che sia stato trascurato nelle controriforme dell’attuale governo italiano.

Nel nuovo assetto istituzionale propugnato c’è una parte di metodo – il prevalere del governo sulla rappresentanza popolare, già truccata con la legge elettorale – e una parte di contenuto. E il contenuto è  proprio quello di ridurre o togliere di mezzo “le tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori” e di stemperare o cancellare quella che viene chiamata “la licenza di protestare” cioè il diritto allo sciopero, al manifestare, all’opporsi ai soprusi: per questi motivi di contenuto si vuole che  il governo sia più forte. Ora si vede che l’errore principale in tante dottrine spacciate come nuove – ma in realtà vecchissime – è stata la rinuncia ad una analisi seria della economia e della società in cui viviamo. Il contrasto d’interesse tra le classi sociali non è l’invenzione di un ideologo dell’800 che si chiamava Carlo Marx, ma la constatazione di una realtà , talora brutale.

Ecco perché è così importante ripercorrere, come fa questo libro, il cammino dei costituenti. Per definire la “repubblica democratica” Togliatti voleva aggiungere “dei lavoratori del braccio e della mente” e dopo lunghe discussioni, nei vari passaggi dell’elaborazione, alla fine la proposta fu respinta per 7 voti per l’opposizione democristiana oltre che delle destre.  Ma il partito democristiano era esso stesso incerto e, come constata questo testo, le parole di un moderati (oggi dimenticati come Tupini o Cappi)  non erano certamente le stesse di Dossetti, di La Pira o di Moro. Tuttavia non solo la convergenza di socialisti, azionisti, repubblicani e demoliberali sulla proposta Togliatti (che rappresentava allora un partito del 19% , terzo dopo DC e PSIUP) ma anche le posizioni – dissenzienti sulla formulazione del segretario del Pci – di Dossetti o altri della robusta sinistra democristiana indicano che non vi era dubbio nella grande maggioranza dei costituenti sul lavoro come valore essenziale per l’individuo e per la società. Il fondamento  della repubblica sul lavoro era visto, lo disse il repubblicano La Malfa, come segno di discontinuità, come simbolo del cambiamento che si desiderava . In definitiva, era comune la consapevolezza che  il fascismo era stato prodotto dalle classi dominanti e sui lavoratori si doveva poggiare se si voleva una democrazia vitale. Per tutto questo non ci fu rottura ma  una mediazione – che i democristiani fecero proporre da Amintore Fanfani, allora della sinistra dc – e fu adottato il testo attuale secondo cui la repubblica democratica italiana è  “fondata sul lavoro”.

E’ certo vero che c’era diversità grande tra il personalismo comunitario e rivoluzionario di Emmanuel Mounier cui si ispiravano i giovani della sinistra cristiana, la posizione nettamente classista di Lelio Basso ma non di tutti i socialisti, la prudenza di Togliatti reduce dall’esperienza tremenda nell’Unione sovietica ch’egli aveva dichiarato irripetibile, e al tempo stesso incalzato da una parte del gruppo dirigente che contrastava più o meno apertamente la sua linea. Ma anche queste diversità, concettualmente profonde, non impedivano una intesa politica sostanziale. I “lavoratori” sostituiti dal “lavoro” nel primo articolo tornano seppure dopo molte peripezie nel secondo comma del terzo articolo, quello che Piero Calamandrei –il grande giurista – giustamente giudicava come il più importante, dato che esso innova radicalmente nel principio di eguaglianza. Principio che viene abitualmente inteso solo come eguaglianza formale dei cittadini davanti alla legge (ma poi chi non ha denaro non è eguale a chi ne ha molto o moltissimo) e qui, invece, viene concepito  come eguaglianza sostanziale con la norma che indica come compito della repubblica quello “di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che  “limitando di fatto libertà ed eguaglianza”  “impediscono la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori – ecco il ritorno della parola –  alla vita politica, economica e sociale”.

 

Le concezioni del lavoro

L’abisso che c’è tra l’ieri e l’oggi sta proprio nel modo di concepire il lavoro. Di Vittorio propose di scrivere “Il lavoro è la base della vita e della società nazionale” continuando poi con l’esigenza di difendere i lavoratori e di affermare la funzione dei sindacati. La formulazione non fu poi accettata, ma non per obiezioni di sostanza. Era quello un pensiero comune ad un’ampia maggioranza dei costituenti assieme all’idea che il lavoro fosse valore determinante della esistenza materiale e della dignità della persona e dunque fosse un diritto da proteggere e un dovere da esercitare. Una concezione esattamente opposta a quella del credo liberista , che intende il lavoro  come merce cui si applicano le categorie delle merci. Una merce deve essere flessibile.  Il lavoro deve essere flessibile come deve essere flessibile la produzione del petrolio o delle scarpe  o della frutta e verdura. Il fatto che nel caso del lavoro si tratta di una merce cui sta attaccato un essere umano non consente di mandarla al macero, ma poco ci manca. Siamo tornati in certe zone del paese al caporalato e a forme di nuovo schiavismo per gli immigrati. Per una intera generazione c’è un presente di lavoro senza diritti e di un avvenire senza speranza.

Dal punto di vista del lavoro inteso come merce la banca Morgan, i liberisti e i loro governi  hanno ragione : quei costituenti furono scandalosi e hanno steso uno scandaloso elenco di diritti: alla giusta retribuzione, alle ferie retribuite, al riposo settimanale, alla definizione per legge dell’orario di lavoro, alla protezione del lavoro minorile, alle prime sebbene largamente insufficienti norme per le lavoratrici madri, all’assistenza e previdenza e persino il diritto a partecipare alla gestione delle imprese. E in più la libertà sindacale, il diritto di sciopero, i contratti collettivi. Tutto questo avrebbe implicato un conseguente progetto economico e sociale: e perciò gli scandalosi costituenti aggiunsero l’affermazione del primato dell’interesse pubblico su quello privato, indicarono la funzione sociale della proprietà privata, statuirono la possibilità dell’intervento pubblico nel processo economico quando necessario.

Certo, era  un altro mondo quello che si sperava allora e non solo dai comunisti e dai socialisti, ma questo non significa che fosse un mondo impossibile, anche se è vero che era ai limiti dell’impossibile  realizzare un mutamento di quella portata in un paese solo, e per di più relativamente marginale come l’Italia. Nel mondo, però, è successo quello che ha detto con sincerità il finanziere e miliardario americano Buffett a chi gli chiedeva una deplorazione della lotta di classe : “ La lotta di classe c’è sempre stata. E l’abbiamo vinta noi.” Se non che oggi si vede  anche negli Stati Uniti, come hanno spiegato il Nobel Stiglitz e altri valenti economisti, non solo la immoralità ma il danno economico della linea favorita da questa vittoria. I bassi salari, l’impoverimento dei lavoratori, la paurosa differenza tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri, gli abusi del sistema finanziario hanno generato la grande crisi e la difficoltà di risolverla, un malessere sociale crescente, terrorismi ed estremismi endemici, guerre locali che si moltiplicano e si estendono con il seguito di stragi senza fine e di drammatiche migrazioni bibliche.  In Italia, questa seconda repubblica che avrebbe dovuto correggere la prima ne ha peggiorato i mali, compreso quello di una corruzione dilagante che avvilisce le istituzioni e discredita la politica.

La costituente italiana aveva ragione anche dal punto di vista dell’economia. Aggiornarla  seguendone lo spirito si poteva, ma altra cosa è rovesciarla nel suo contrario. La repubblica cui ora si tende non è più quella fondata sul lavoro, ma sul capitale. Ma la lotta non è finita. E’ stato un errore una difesa della Costituzione che non spiegasse bene il suo carattere fondamentale rappresentato innanzitutto dalla difesa degli interessi di chi lavora. E’ il tempo di farlo adesso. Quella Costituzione del lavoro nacque dal moto morale che suggerì a tanti giovani di allora di porre a rischio la loro vita – e tanti la persero – per la causa della libertà e della giustizia sociale. Di qualcosa di simile, ma senza quel tributo di sangue, avremmo  bisogno adesso. C’è chi grida “onestà” e si capisce perché. Ma senza giustizia sociale corrotti e corruttori continueranno a prosperare. Senza principi e senza valori non si fa nessuna politica degna e meno che mai una politica di emancipazione e di liberazione umana.

 

Questo testo è la trascrizione corretta dall’autore dell’intervento  fatto da Aldo Tortorella al convegno della Fondazione Claudio Sabattini svoltosi il27 aprile 2016 a Bologna sul libro curato da Lorenzo Gaeta “Prima di tutto il lavoro. La costruzione di un diritto all’Assemblea costituente”, Ediesse, Roma 2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Category: Editoriali, Politica

About Aldo Tortorella: Aldo Tortorella è nato a Napoli il 10 luglio 1926. Trascorre la giovinezza e gli studi tra Genova e Milano. Mentre è studente universitario, diviene un membro attivo della Resistenza italiana milanese e del Pci e viene soprannominato "il partigiano Alessio". Viene imprigionato, ma riesce poi a fuggire e arriva a Genova, partecipa alla resistenza come dirigente del Fronte della Gioventù, quindi alla Liberazione diviene giornalista dell'edizione genovese de l'Unità, con il ruolo di caporedattore. Dopo la liberazione dell'Italia e la fine della seconda guerra mondiale assume ben presto ruoli importanti nel PCI (tra i pochi della sua generazione). Diventa vicedirettore de L'Unità di Genova, poi direttore di quella di Milano dal 1958 al '62. In seguito diviene segretario della Federazione milanese del PCI, e poi del comitato regionale lombardo. Dal 1970 al 1975 è direttore nazionale dell'Unità. Nel 1972 viene eletto per la prima volta deputato, ruolo che sarà riconfermato sino al 1994. Durante la segreteria di Enrico Berlinguer (alla cui corrente interna appartiene) diventa responsabile delle politiche per la cultura del PCI. Assumerà un profilo piuttosto critico verso il "compromesso storico", mentre sarà favorevole all'"alternativa democratica" e alla proposta di una "questione morale" da parte del segretario comunista. Tempo dopo è responsabile per le questioni dello Stato, ed anche membro dell'ultima segreteria di Berlinguer e poi di quella Natta. Nel 1989, quando il segretario del PCI Achille Occhetto propone la trasformazione del partito e l'abbandono dell'ideologia comunista, Tortorella è uno dei primi firmatari - assieme ad Alessandro Natta e Pietro Ingrao - della 'mozione 2', che insieme alla '3' costituisce il "Fronte del No", ovvero l'insieme di comunisti contrari al cambiamento di nome, simbolo e ideologia. Tra il XIX e il XX congresso nazionale del Pci, Tortorella diviene presidente del partito. Nel 1991 la cosiddetta Svolta della Bolognina sancisce in ogni caso la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra; Tortorella rimane comunque nel nuovo partito e, insieme a Giuseppe Chiarante, guida da allora la componente detta dei comunisti democratici. Dal 1992 rileva, con altri militanti e dirigenti già del PCI, la vecchia rivista di partito Critica marxista, chiusa dopo la nascita del PDS. Nel '94 decide di uscire dal Parlamento italiano, dopo aver ricoperto per 20 anni il ruolo di deputato. Tortorella assiste anche all'ingresso del PDS nell'esecutivo (nel 1996, col primo governo Prodi) e alla sua evoluzione (nel 1998) nei Democratici di Sinistra, dopo l'assorbimento di altre piccole forze politiche da parte dello stesso PDS. In questa fase fa ancora parte della corrente di sinistra del partito, riconducibile a Giovanni Berlinguer. Il 27 giugno 1998 fonda con Giuseppe Chiarante ed altri l'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra (ARS).Quando nel 1999 scoppia la guerra del Kosovo, il governo con a capo il presidente dei DS Massimo D'Alema decide di sostenerla, mettendo a disposizione della NATO le basi militari italiane. Aldo Tortorella, profondamente contrario all'intervento militare, il 1º aprile 1999 scrive una lunga lettera al neosegretario dei DS Walter Veltroni spiegando di voler rassegnare le sue dimissioni dal Comitato Direttivo del partito, «per il pieno e radicale dissenso verso l'appoggio dato fin qui alla guerra, che andava e va condannata da ogni punto di vista, appoggio deciso senza alcuna consultazione con gli organismi dirigenti»[. Nell'ottobre 1999 è tra i promotori della mozione di sinistra per il I Congresso nazionale dei Democratici di Sinistra che si sarebbe celebrato nel gennaio 2000. Al Congresso Tortorella sarà eletto membro della Direzione Nazionale. Al successivo congresso del novembre 2001 Tortorella, con Chiarante, rifiuterà di essere rieletto in DN pur rimanendo solidale con la sinistra DS. Dal 2000-2001 l'ARS di Tortorella e Chiarante ha seguito e partecipato con interesse ai Social Forum dei neonati movimenti no global. Attualmente l'associazione è impegnata su vari fronti: ha preso posizione contro il governo Berlusconi e le sue politiche, ma ha più volte ribadito la continuità fra queste ultime e quelle approvate dai governi di centrosinistra, che giudica come inadeguate; sostiene tuttora l'attualità della "questione morale" proposta da Enrico Berlinguer, organizzando tra l'altro vari seminari e convegni sulla sua persona. Ha inoltre visto con favore vari progetti (come la rete associativa Uniti a Sinistra di Pietro Folena, o la Camera di consultazione della sinistra di Alberto Asor Rosa) che avessero come fine una sinistra critica, autonoma, unitaria, in alternativa alle forze moderate e centriste. L'organo dell'ARS rimane ancora oggi la rivista di Critica Marxista. Nel settembre del 2005 Aldo Tortorella, durante la promozione di un convegno sulle origini della "questione morale", ha giudicato molto duramente la scalata della compagnia di assicurazioni Unipol alla BNL, oltre ai vertici DS coinvolti nello scandalo (caso Bancopoli).

Leave a Reply




If you want a picture to show with your comment, go get a Gravatar.