Aldo Tortorella: Pietro Ingrao e la sua lezione durature al tempo della “svolta”

| 29 Settembre 2015 | Comments (0)

 

Per ricordare ancora una volta Pietro Ingrao, pubblichiamo questo intervento di Aldo Tortorella uscito su “Laboratorio culturale” e ripreso da Il Manifesto Bologna  il 29 settembre 2015

 

Nel quadro delle iniziative e delle pubblicazioni per il centenario di Pietro Ingrao assume particolare spicco il volume che contiene i suoi scritti e discorsi tra il 1989 e il 1993 1 , l’anno in cui uscì dal Partito democratico della sinistra, per continuare poi la sua battaglia politica in altra forma. È un insieme di testi di grande rilievo per chiunque intenda capire cosa successe nel Partito comunista italiano e al nostro Paese in quegli anni che aprirono un mutamento radicale nell’assetto politico dell’Italia e del mondo intero.

Per chi fu parte di quella storia, come accadde a me, è come ripercorrere un pezzo della propria esistenza. Ma non credo di essere accecato dallo spirito di parte se scrivo che c’è da imparare per tutti: per chi, nella contesa interna al Pci, stette dall’altra parte e per i più che sanno poco o nulla di quel travagliato periodo della vita politica del Paese. Si parla spesso, nel linguaggio politico, di passaggi storici o addirittura epocali anche quando si tratta di vicende che di epocale non hanno un bel nulla.

Ma quello che iniziò nell’89, l’anno della caduta del muro di Berlino – e, in Italia, dello scioglimento del Pci – fu davvero un periodo cruciale, un passaggio di fase, perché terminò la guerra fredda con la vittoria di uno dei contendenti, il blocco occidentale diretto dagli Stati Uniti, e con l’affermazione planetaria del modello capitalistico, sia pure in varietà di assetti politici.

Fine dei “margini del riformismo”

Non aveva visto male, Ingrao, nel capire anticipatamente già nella metà degli anni Sessanta i fatti strutturali profondi che stavano avvenendo nelle società capitalistiche in quel congresso del Pci (l’XI Congresso, il primo dopo la morte di Togliatti) segnato dal suo scontro, perdente, con Amendola. Non ero stato con lui in quel congresso ma con Longo, che consideravo – a parte il personale affetto – il segretario “più a sinistra” possibile in quel momento, come avevo detto a Ingrao, quando aveva voluto sentire il mio parere.

Le tesi di cui Ingrao si era fatto portatore erano profondamente anticipatrici – un po’ troppo anticipatrici, probabilmente, dal punto di vista immediatamente politico – ma certamente lungimiranti. La questione fondamentale cui egli si riferiva era la crisi di un modello di sviluppo, crisi che stava avanzando. Si andava, allora, verso la fine dei “gloriosi Trenta”, cioè dei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale, e stava avanzando l’esaurimento della possibilità di sviluppo senza fine. Il che portava con sé, com’è logico, anche la crisi dello Stato sociale (allora si diceva: “la fine dei margini di riformismo”) da una parte e, in parallelo, la crisi delle economie dette socialiste che per loro conto stavano già decadendo.

In politica, naturalmente, l’anticipazione eccessiva (in Italia lo Stato sociale era in ritardo: il Servizio sanitario nazionale è del 1978, trent’anni dopo l’Inghilterra) costa cara, perché è difficile farsi capire, ed è arduo proporre rimedi che paiano efficaci. Ma l’intuizione era giusta. Nel 1970 ci sarà la fine degli accordi di Bretton Woods (il regime dei cambi fissi e dell’ancoraggio del dollaro all’oro). Qualche anno dopo, la guerra del Vietnam, pensata anche come mezzo anticrisi, finisce in un disastro per gli Stati Uniti che rispondono all’inizio degli Ottanta con una dura svolta conservatrice (la prima misura di Reagan è il licenziamento in blocco di tutti i controllori di volo in sciopero), una svolta già partita in Gran Bretagna (la battaglia vincente della Thatcher contro i minatori, i tagli pesanti all’intervento pubblico e allo Stato sociale).

Avendo anticipato questo possibile sbocco conservatore (ecco il significato dell’affermazione sulla fine dei margini di riformismo) e avendo contrapposto ad esso la ricerca di un altro “modello” già nei lontani anni Sessanta, adesso – nel tempo cruciale che inizia nell’89 – Ingrao continua a cercare e a proporre, questa volta in più ampia compagnia, una possibile strada nuova, partendo da una critica radicale dell’analisi, definita «arretrata e provinciale», da cui aveva preso le mosse la svolta detta “della Bolognina”.

Questa appariva tutta incentrata sullo “sblocco del sistema politico” italiano, già marcio, come se il maggiore problema del paese fosse la colpa dell’essersi chiamati comunisti – nonostante tutto il processo di autorinnovamento e di piena autonomia compiuto in Italia dal loro partito – piuttosto che l’ottusità delle classi dominanti, dei loro governi e dei loro protettori internazionali.

 

Una proposta innovatrice alternativa

È certo vero che alcuni dei contradditori di Ingrao hanno vinto, fino a conquistare anche le più alte magistrature dello Stato. Ma le penose conseguenze istituzionali, politiche, economiche che sono oggi sotto gli occhi di tutti non parlano a favore di quella vittoria. E dunque il titolo di questo volume, Coniugare al presente, è pienamente fondato. Ingrao, Natta, Pajetta, altri di noi e tanti giovani che pensarono di opporsi a quel modo della svolta, non sono classificabili come il “fronte del no” secondo la definizione resa popolare da un sistema mediatico compiacente, ma come i portatori di una proposta innovatrice alternativa, una proposta che è stata scartata, quindi in parte sepolta, ma continuamente riemerge.

Ingrao incomincia proprio così, appena inizia la lotta politica nel Pci in vista del congresso che porterà allo scioglimento del partito. «Noi chiediamo ai compagni non solo di dire no, chiediamo di dire sì ai punti programmatici, alle iniziative, alle lotte necessarie per un vero e profondo rinnovamento del Pci e delle forze di sinistra». Questo vero rinnovamento si fondava sull’analisi di quel che veniva accadendo nel mondo, a partire dalle speranze suscitate dall’opera iniziata Gorbaciov (illustrata nelle luci e nelle ombre nelle tre interviste, a Chiara Valentini, a Rina Gagliardi e a Pietro Spataro, che aprono il libro).

Grandi speranze, si deve pur dire, perché si stava tentando nell’Urss una trasformazione del tipo di quella che i comunisti italiani avevano sempre cercato di sollecitare. Ingrao non vede solo le parole d’ordine della trasparenza (la glasnost) e della ristrutturazione del sistema (la perestroika), ma soprattutto la proposta all’Occidente di un disarmo atomico e convenzionale come unica strada per trovare le risorse, dice, necessarie a far fronte all’avanzare della devastazione ambientale e del dramma del mondo del sottosviluppo e della fame. E denuncia l’inerzia delle sinistre, e del suo partito, di fronte a quella proposta. Ammonendo che se quel tentativo fosse fallito sarebbero stati guai non solo per i sovietici o i comunisti , ma per tutta la sinistra europea, e per la soluzione dei mali del mondo intero.

Soprattutto, metteva in guardia su quello che sarebbe accaduto se non si fosse inteso, come dice, che «la miseria tracima», se non si fosse intesa la disperazione di tanti «costretti per fame a traversare il mare da clandestini, quasi senza volto e senza nome». A chi dice «ci invadono» risponde «siamo noi che li abbiamo invasi», con il colonialismo prima, con il dominio economico poi. «Loro sono i cacciati, i costretti, gli espropriati».

Sono pagine di un quarto di secolo fa. Non c’erano state, allora, tutte le terribili stragi in mare di cui siamo divenuti imbelli testimoni. Quando Ingrao levava queste profezie, sembrava a molti che si trattasse di forzature polemiche. Ora sappiamo, al contrario, che erano il frutto di una analisi lucida e di un sentimento che avrebbero dovuto, l’una e l’altro, essere condivisi almeno da tutto il suo partito.

 

Un grande innovatore

Come ha detto un osservatore imparziale e di lungo corso delle cose della politica, Stefano Folli, questi scritti sono quelli di un uomo che si è caratterizzato come «un grande innovatore». Da cui, aggiungo io, si poteva imparare molto, se lo si fosse ascoltato, innanzitutto sulle sorti della situazione internazionale – prima della caduta dell’Unione Sovietica e dopo il suo crollo. Non era sbagliato, quando incominciò a prospettarsi la unificazione della Germania, vedere che una Germania unificata e membro della Nato avrebbe voluto dire la ripresa della spinta verso l’est, cosa che puntualmente è avvenuta e di cui abbiamo l’ultimo riflesso adesso nella questione ucraina.

Poi non più Ingrao, ma Schmidt, che fu il cancelliere tedesco della destra socialdemocratica e grande avversario dei comunisti, ha detto che è stata «una follia» l’incoraggiamento europeo alla drastica separazione dell’Ucraina da Mosca e all’ingresso nella comunità europea (e nella Nato), perché l’Ucraina, come tutti sanno, è all’origine stessa dello Stato russo.

Era certamente difficile che una linea di politica estera del tipo di quella proposta da Ingrao potesse passare, dato che gli Stati Uniti di Reagan avevano scelto, come si vide, di favorire la piena restaurazione di Eltsin contro il difficile tentativo di Gorbaciov. Ma non era irrealistico battersi affinché la sinistra italiana ed europea, a vantaggio dell’Europa e proprio, si impegnasse su una strada diversa da quella che fu seguita, che ha visto il ritorno della guerra nel cuore dell’Europa e che rischia continuamente di trasformarsi in nuove tragedie belliche oltre a quelle già vissute in questi anni e ancora in atto.

All’innovazione sul terreno della politica internazionale si univa la proposta di cambiamento nella politica interna del paese e non solo in quella istituzionale. C’è ovviamente da essere lieti che in occasione delle celebrazioni del centenario ci sia stato, anche da parte di antichi avversari, l’omaggio a Ingrao come uomo delle istituzioni, perché ciò contribuisce a sottolineare il valore della persona e anche l’animo di coloro che con lui polemizzarono. Non c’è dubbio che Ingrao si sia impegnato, guidando il Centro per la riforma dello Stato, per profonde riforme istituzionali a partire, come già Berlinguer, dal monocameralismo.

Ma è impossibile farne una sorta di precursore di quello che sta avvenendo in questo momento in Italia. Quando fu proposta la prima riforma maggioritaria del sistema elettorale all’inizio degli anni Novanta, prima di opporsi recisamente propose una discussione più ampia: «Non credo ad una battaglia per le riforme istituzionali che non si misuri sui nuovi problemi di sovranità e di potere». La nuova legge elettorale avrebbe dovuto accompagnarsi a un più ampio progetto di riforma delle istituzioni, e questa a una azione contro il condizionamento diretto e indiretto dei poteri economici e del loro sistema mediatico, divenuto determinante per la formazione della opinione pubblica e dunque per le sorti della democrazia.

In questa impostazione, la riforma istituzionale non poteva essere separata dalla visione della realtà sociale, a partire dalla condizione fatta ai lavoratori. Già si stava andando, dopo la drastica riduzione della scala mobile, alla sua soppressione e a quell’accordo sindacale tra padronato, sindacati dei lavoratori egoverno (1992), che Trentin firmò, dimettendosi immediatamente dopo, sotto il ricatto del rischio di svalutazione (che ci fu ugualmente, assieme con l’uscita dal sistema monetario europeo). Ingrao sottolinea, cioè, che la questione istituzionale e la questione sociale, rappresentano un intreccio inestricabile sicché separando l’una dall’altra si fa pessima politica sociale e si fa una cattiva riforma dello Stato.

Allo stesso modo, la centralità del Parlamento, che non contraddice un rafforzamento dell’esecutivo nel campo che dovrebbe essergli proprio, dovrebbe essere accompagnato dal riconoscimento che il coinvolgimento delle forme di autoorganizzazione della società civile vanno viste come parte integrante di una riforma dello Stato. Separare tutti questi aspetti dalla questione della unicità della Camera decidente è esattamente il contrario del pensiero di Ingrao. L’innovazione istituzionale che egli sosteneva, e con lui coloro che si opposero alla liquidazione del Pci, andava nella direzione opposta a quella di un modello centralistico con velleità autoritarie come quello che si viene delineando in Italia. Un modello che Ingrao descrive già nel 1993: «l’operazione trasformistica di ricambio, quella che è stata chiamata la rivoluzione» porta a «una democrazia personalizzata, senza mandato, per notabili e grandi lobbies di interessi». In effetti qui siamo arrivati.

 

Quale idea del comunismo

Tuttavia, se è impossibile negare la originalità innovatrice che questi scritti testimoniano, l’accusa di conservatorismo viene a Ingrao per la sua strenua dito, essergli imputata una propensione verso l’interpretazione sovietica della parola. A Ingrao spettava, semmai, un relativo primato nella critica radicale all’Urss all’interno del gruppo dirigente del Pci dopo il trauma degli articoli scritti nel 1956 (come direttore dell’Unità) a difesa dell’intervento sovietico in Ungheria, essendo stato convinto da Togliatti a superare i suoi dubbi in nome della grave situazione internazionale.

Articoli che egli continuerà a rimproverarsi per tutta la vita, forse persino eccessivamente, dato che non era incomprensibile il mutamento d’opinione in quel contesto, e di fronte all’autorità di Togliatti. E va aggiunto che uno dei motivi della diffidenza nei confronti di Ingrao da parte di alcuni autorevoli esponenti del gruppo dirigente del Pci derivava proprio dal suo atteggiamento verso i sovietici.

Più sottile è la critica sulla difesa dell’idea comunista che compare in un dialogo con Alex Langer – del quale vanno sempre ricordate le grandi battaglie ecologiste. Langer si rammarica che proprio lui, Ingrao, «con la sua storia politica» d’innovatore, non intenda che il tempo è ormai quello del postcomunismo e si sia messo in lotta contro la svolta nonostante egli stesso la desiderasse e avesse dichiarato (in una intervista a Repubblica) che «Occhetto ha bruciato una ipotesi che andava costruita con più ampio respiro». E lui spiega che «il punto di vista comunista» e «l’orizzonte» comunista gli servono per capire il mondo, per non accettare le cose come stanno.

Cesare Luporini, da sempre vicino a Ingrao, aveva introdotto l’idea del comunismo come “orizzonte”, cioè qualcosa che non si raggiunge mai, ma serve come una sorta di immagine di riferimento (e si era preso le critiche di chi sosteneva la “maturità” del comunismo). Diversamente, io ero del parere che andasse inteso come “punto di vista”, e cosi scrivemmo nella mozione per il congresso di Rimini.

Ingrao usò, come si vede in questi scritti, entrambi i termini. Era, comunque, un modo di pensare la parola “comunismo” inconciliabile con quello, fortemente intriso di nostalgia, del gruppo che darà vita alla scissione. Per questo, come spiega alla Rossanda nella conversazione che chiude il volume, si era pronunciato per primo, in una riunione rimasta nella memoria di molti, contro la scissione, perché «mi si chiedeva», dice, «un arroccamento ideologico, settario, della cui inutilità e ritardo ero e resto convinto». Credo che la conferma sia venuta dallo sbriciolamento di quelle pur generose esperienze (che anche Ingrao, più avanti, cercherà di aiutare per amicizia e solidarietà, ma senza poterne mutare i deludenti risultati).

Ingrao fu anche un poeta. E compaiono, qui, gli appunti, inediti, sulla questione della poesia e della poetica per un dibattito con Adriana Zarri, grande teologa anti tradizionalista e anche poeta. Così come aveva posto il tema dell’idea comunista quale strumento per capire il mondo, qui Ingrao si pone la questione se la poesia possa cambiare il mondo. E risponde che no, la poesia non può cambiare il mondo, però «può cambiare il modo di pensare il mondo», può cambiare il modo di vedere, «può dire l’indicibile».

Credo che questo aiuti a capire la lezione di Ingrao. Non perché il politico sia assorbito dal poeta, come pure si pensava quando nelle riunioni degli organismi dirigenti comunisti diceva parole non mai udite prima, come la necessità di «pensare al vivente non umano» (mormorii in sala). Quella non era poesia ma realismo, perché se non si pensa al vivente non umano finisce l’umano. La lezione di Ingrao, che parli del comunismo o della poesia, è l’incitamento a capire il mondo, a vederlo sotto tutti gli aspetti, compresi quelli che un puro discorso razionale non può afferrare. La lezione di non starsene all’imparaticcio, alla ripetizione, al già noto.

Senza di che è vano pensare di poter cambiare la società o almeno le cose che non vanno nel mondo.

 

Category: Editoriali, Politica

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