E’ morto Amos Luzzatto

| 9 Settembre 2020 | Comments (0)

 

 

Ho avuto il privilegio di partecipare con Amina agli incontri dell’Associazione  Achad ha’am  organizzati da  Renata Segre e Sergio Tagliacozzo a  Venezia a casa di Renata . In questi incontri  Amos Luzzatto si esprimeva con la sua profonda umanità e con il rigore che non faceva sconti a nessuno. Per chi non ha letto i suoi libri consigliamo Vita, Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, Il libro di Giobbe, Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra. Un mio  progetto non realizzato prevedeva una sua intervista sulla medicina e la matematica.Un abbraccio a Laura.

 

1.  È morto il 9 settembre 2020 Amos Luzzatto, punto di riferimento del mondo ebraico. Segre: “I suoi discorsi contro l’odio e il razzismo sempre attuali”

È morto Amos Luzzatto, punto di riferimento del mondo ebraico. Segre: “I suoi discorsi contro l’odio e il razzismo sempre attuali”
Intellettuale, studioso, esperto di cultura ebraica. Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) dal 1998 al 2006, figura di riferimento in Veneto e a Venezia, dove ha guidato la Comunità ebraica, e direttore della Rassegna Mensile d’Israel. E ancora, professore universitario, medico e chirurgo negli ospedali italiani, dove ha operato per oltre mezzo secolo. Amos Luzzatto, 92 anni, è morto oggi a Venezia.“Il mio nome esatto è Amos Michelangelo Luzzatto, figlio di Leone Michele e di Emilia Lina Lattes. La mia famiglia è molto composita. I Luzzatto sono originariamente ebrei veneti, giunti, pare, dalla Lusazia, rintracciabili alla fine del XV secolo fra Venezia, il Friuli e il Veneto orientale”, racconta Luzzatto in Conta e racconta: memorie di un ebreo di sinistra, pubblicato nel 2008 da Mursia. Era nato il 3 giugno 1928 a Roma. Suo padre, fervente socialista, fu bastonato e perseguitato dai fascisti. Nel 1939 emigra con madre e nonni nella Palestina mandataria, il futuro Stato di Israele, tornando in Italia sono nel 1946. Tra i suoi antenati, ci sono il nonno materno, rabbino e intellettuale Dante Lattes, uno dei principali esponenti della cultura ebraica italiana del XX secolo, e il poeta, esegeta ed ebraista Samuel David Luzzatto, suo trisavolo, che fu conosciuto anche come Shadal. Tra i suoi cugini l’intellettuale triestino Giorgio Voghera.

“La violenza, l’incitamento all’odio fra popoli, culture, religioni diverse, l’omologazione, per quanto riguarda il passato, dei carnefici e delle loro vittime, tutto questo è tragicamente nella cronaca quotidiana. Saremo capaci di reagire a questa marea? Saremo capaci di insegnare ai nostri ragazzi la libertà di scegliere consapevolmente fra il bene e il male, fra la lotta di sopraffazione e la convivenza civile nel rispetto dell’altro?”, esordiva Luzzato alla Giornata della Memoria del 2005, davanti all’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. “Hillel, un grande maestro dell’ebraismo, diceva: ‘Non fare agli altri ciò che non vorresti per te. Tutto il resto è commento. Vai e studia’”.

“Un uomo importante, intelligente che ha lasciato il segno nei ricordi, anche nei discorsi tenuti 15 o 20 anni fa contro la violenza e l’odio e sempre molto attuali, che possono legarsi con i fatti di cronaca che sono accaduti in questi giorni“. Lo ricorda Liliana Segre, senatrice a vita e amica di famiglia di Luzzatto. “Sono particolarmente colpita dal fatto che se ne sia andato. Mentre io sono ancora qui e domani compio 90 anni, e sono tantissimi. Fino a poco tempo fa non li sentivo. Ora pesano, sono tanti

2.  Laura Crinò Addio allo scrittore e studioso Amos Luzzatto

Medico, biblista, presidente delle comunità ebraiche italiane, Luzzatto è stato una figura centrale dell’ebraismo italiano del dopoguerra. Si è spento a Venezia a 92 anni

“Non fare agli altri ciò che non vorresti per te. Tutto il resto è commento. Va’ e studia’”. Questa frase di Hillel, maestro della Mishnah ebraica vissuto ai tempi di Erode il Grande, Amos Luzzatto l’aveva inserita alla fine dell’intervento di fronte all’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione della Giornata della Memoria di 15 anni fa. Una frase che può servire a raccontare il molteplice impegno di Luzzatto, scomparso a 92 anni: medico, studioso, scrittore ed ex presidente dell’Ucei, l’unione delle comunità ebraiche italiane. dal 1998 al 2006. “Ci ha lasciato un gigante”, scrive il giornale Pagine Ebraiche dando la notizia della sua scomparsa, a sottolineare i tanti campi in cui Luzzatto ha lasciato la sua impronta.
Nato a Roma nel 1928, aveva lasciato l’Italia fascista delle persecuzioni razziali nel 1939 per l’allora Palestina mandataria, per poi rientrare in Italia nel 1946. Nel Dopoguerra aveva lavorato come medico chirurgo, e poi come primario. Fino agli ultimi anni, in cui si era ritirato nella sua abitazione veneziana, lontano da incarichi pubblici ma non dallo studio, attraverso il suo impegno nelle istituzioni ebraiche e nella scrittura non aveva mai smesso di portare avanti gli stessi valori. In primo luogo, i temi della salvaguardia delle minoranze come salvaguardia della democrazia e della conoscenza del mondo come antidoto alle semplificazioni e ai populismi. Lo ha fatto sempre anche attraverso i suoi libri, dove si sposano spirito laico e conoscenza e amore per i testi sacri. Della profondità della sua conoscenza biblica aveva dato prova traducendo e commentando il libro di Giobbe (per Feltrinelli), Il Cantico dei Cantici (in Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, Giuntina) e l’Ecclesiaste (Chi era Qohelet?, Morcelliana) mentre altri testi, come Il posto degli ebrei (Einaudi) a Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra (Mursia) chiariscono la sua prospettiva progressista. Del suo impegno nelle istituzioni degli ebrei italiani aveva detto in un’intervista: “Rappresentare politicamente gli ebrei italiani ha significato per me difendere e valorizzare l’Intesa con lo Stato italiano. Ma anche dare significato al nostro essere minoranza, una realtà che assieme ad altre minoranze possa offrire concretezza in Italia al pluralismo democratico non sempre adeguatamente sostenuto”. Una lezione oggi più attuale che mai.

Aveva 92 anni. Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) dal 1998 al 2006, ha guidato la Comunità ebraica a Venezia, direttore della Rassegna Mensile d’Israel. Alla Giornata della Memoria nel 2005 aveva detto: “La violenza, l’incitamento all’odio fra popoli, culture, religioni diverse, sono tragicamente nella cronaca quotidiana. Saremo capaci di reagire a questa marea?”

3. Amos Luzzatto, Capire e far capire, Intervento nella Giornata  della memoria nel 2002

La Giornata della Memoria, votata nel 2000 come legge dello Stato, che viene celebrata per la seconda volta il 27 gennaio di quest’anno, non è una ricorrenza ebraica, anche se ricorda in primo luogo quel capitolo orribile della storia umana e specificamente europea che è designata, appunto, dalla parola ebraica Shoah (catastrofe). 

Perché insisto sul concetto che non si tratta di una «ricorrenza ebraica»? In primo luogo perché la «giornata del ricordo» (yom ha-zikaron) nell’odierno vissuto ebraico esiste già, anzi, a ben vedere, ne esistono due. Abbiamo commemorato i nostri deportati in occasione del digiuno del giorno 10 del mese ebraico di Tevet (corrispondente al 25 dicembre nel 2001 e al 15 dicembre per il 2002) e al ricordo della Shoah è dedicato lo yom ha-shoah, che cadrà il 27 del mese di Nisan, corrispondente al 9 aprile 2002.

In secondo luogo, questa giornata del 27 gennaio, ormai entrata nelle ricorrenze di molti Paesi europei, è dedicata a tutti, sia che appartengano a maggioranze come pure a minoranze, per far capire e per avere l’occasione di approfondire il concetto secondo il quale una società che perseguita una sua propria componente, o, peggio ancora, ne progetta scientificamente lo sterminio, è una società ammalata; e questo suo stato di malattia finirà per colpire, prima o poi, inevitabilmente, anche altre componenti della società stessa.

«Ricordare» significa pertanto riprendere in considerazione eventi passati per capirne le cause, per verificare se esse sopravvivono nella nostra società odierna, per ipotizzare infine una nostra comune azione, qui e oggi, perché questo passato non debba più ripetersi. Se dunque era ammalata tutta la società, la memoria vigile dovrà essere esercitata da tutta la società e non soltanto da una sua parte. Sarebbe lecito sperare che questo diventi una consapevolezza e una guida all’azione per tutta la società, a partire dalle sue istituzioni e i suoi organismi apicali per estendersi a tutte le sedi associative ed educative, laddove, come si dice, si forma l’opinione pubblica e la cultura civile di un Paese.

Che cosa bisognerà dunque ricordare, e a partire da quale data? È istintivo rievocare per prima cosa le «leggi per la difesa della razza» e pertanto il 1938. Ci si potrebbe richiamare addirittura a un episodio preciso per segnarne il punto d’inizio e precisamente al discorso di Mussolini a Trieste in piazza Unità, il «discorso del 18 settembre». Quello stesso duce che aveva avvisato che il fascismo, anche in materia di razza, avrebbe «tirato dritto», aveva annunciato in quella circostanza che alla fine il mondo sarebbe stato stupito più della generosità che del rigore del fascismo stesso. 

Erano frasi a effetto, ma dal contenuto alquanto sibillino. Infatti, «tirare dritto» poteva significare colpire senza eccezioni tutti gli ebrei; già, ma chi erano costoro? Forse coloro che avevano almeno un nonno ebreo, come stabilivano le leggi di Norimberga? E che dire di coloro che, battezzati, appartenevano ormai alla comunità cattolica? Forse il battesimo si rivelava tanto potente da alterare persino la genetica? Ma poi, che dire di coloro che parlavano con disinvoltura di «ebrei al 25 per cento» o di «mezzi sangue»; intendevano atteggiarsi a biologi? Inventavano una scienza inedita (se pure di scienza si può parlare)?
Quanto alla «generosità»; che cosa significava? Che era generoso cacciare gli ebrei dalla scuola? Perché poi? Se essi erano infidi e malvagi, non sarebbe stato meglio rieducarli? O forse il regime non aveva fiducia nella sua stessa capacità di plasmare le menti delle nuove generazioni? Ma poi, ammesso che fosse giusto cacciare gli ebrei anche dagli uffici, dall’esercito, dal diritto di avere telefoni e radio, a quale punto si intendeva fermarsi per meritare l’appellativo di generosi? 

Tutti i dubbi che affiorano a un’analisi attenta di discorsi infuocati che mandavano in visibilio le masse convocate in adunate oceaniche ci costringono a spostare la nostra attenzione a un altro tema e ad altre date. 

L’altro tema si condensa nel quesito: come mai, tranne pochissime e lodevoli eccezioni, la popolazione italiana nel 1938 accettò quei provvedimenti? In altre parole, dov’erano nel 1938 coloro (e non furono pochi) che, dal 1943 al 1945, salvarono, a rischio delle proprie vite, gli ebrei minacciati dalla deportazione?

Per rispondere a questa domanda, è necessario andare più indietro nello sforzo che chiediamo alla nostra memoria. Per trovare una data a quo dobbiamo riformulare la stessa domanda e chiedere: da quando e con quali strumenti il regime fascista era riuscito ad arruolare il consenso di massa? Era un consenso per una politica (cioè a determinati provvedimenti e decreti e ad atti conseguenti) oppure, assieme e forse anche prima di questo, si trattava di un consenso a un’ideologia, cioè a un sistema di credenze, di educazione dei giovani, a una scala di valori dalla quale la politica trae la sua forza e la sua giustificazione?

Anche in tempi recenti, abbiamo letto eccellenti studi in materia, che riguardano anche altri Paesi. Ma per restare in Italia, come conviveva la dottrina fascista, quella del razzismo di fine anni Trenta, con altre dottrine che pur esistevano nella storia italiana? Per esempio, quella cattolica che, sostenendo il valore sacramentale del battesimo, atto spirituale e non evento biologico, doveva trovarsi su un altro versante. 

E che dire delle élites intellettuali eredi del Risorgimento che avevano inalberato a suo tempo la bandiera della libertà e della cultura? Dov’erano e che cosa facevano? In parte tutto ciò può essere spiegato dalla debolezza umana, che spinge tanti a chinarsi di fronte alla prepotenza, alla violenza fisica, persino ai benefici derivanti dall’accettazione dell’esistente, rifuggendo i rischi di una opposizione alla o alle tirannidi. Ma allora, se questo deriva dalla «natura umana», come evitare che succeda ancora?

Va però riconosciuto che potrebbe essere la stessa natura di quello che chiamiamo moderno a contenere in sé i germi della discriminazione e del razzismo, anche se questo potrebbe sembrare un paradosso. Se il moderno è ipso facto progresso, se l’Occidente sta al resto dell’umanità come l’uomo sta al resto dei viventi; se, in altre parole, esso rappresenta lo stadio «più avanzato» cui anche gli altri, i ritardatari, le culture arretrate debbono fatalmente tendere, allora la discriminazione diventa un valore (negativo) che si insinua nelle nostre coscienze. Anche oggi.

Vi è infine un ulteriore pericolo. Essere stati accondiscendenti o silenti è qualcosa che possiamo spiegare e persino perdonare, ma non certo qualcosa di cui si possa menar vanto. Pertanto, si tende spesso a cancellarne il ricordo. 

A lungo si è parlato criticamente del revisionismo storico e del negazionismo, che sono forse un poco meno di moda di qualche anno fa. Oggi, per «cancellare» si fa uso soprattutto di due strumenti: il primo è quello di equiparare la Shoah a tante altre tragedie della storia umana. Esiste una catena di crudeltà e di massacri che devono essere sempre denunciati, condannati e, per quanto riguarda il futuro, bloccati sul nascere. Ma non per questo si può assimilare la Shoah a questi eventi. 

Nella Shoah c’è: 

  • una cultura della discriminazione razziale, che diventa l’ideologia portante del regime;
  • una strategia industriale e freddamente razionale dello sterminio;
  • una ricerca pedante e accurata della vittima cui non si concede appello, né con la conversione, né con la fuga, perché la sua destinazione può essere solo l’annichilimento.

Il secondo metodo di cancellazione consiste nell’accusare le vittime di essere, per loro natura, eguali se non peggiori dei loro stessi carnefici. È così che i «nazisti di turno» sarebbero gli israeliani, che si estendono poi al «sionismo internazionale» e infine, non senza l’ausilio dei Protocolli dei Savi anziani di Sion, agli ebrei tout court. 

In questo moto, una contesa politica quale quella del Medio Oriente, nella quale non sono assenti antiche e moderne responsabilità della stessa Europa, si presenta come una contesa religiosa o di «civiltà», dunque non risolvibile con compromessi ma solo con la scomparsa materiale di una delle due parti in causa. 

Anche per questo esiste un’ideologia. Si chiama terrorismo. E dobbiamo capire come combatterlo. Certo, senza subirlo supinamente. Ma anche e soprattutto, contrapponendogli un’altra ideologia, un’altra scala di valori che rifiuti qualsiasi razzismo vecchio e nuovo e che ponga il principio dell’accoglienza dell’altro da sé al di sopra di qualsiasi altro principio, vecchio o nuovo.

 

 

4. Amos Luzzatto: L’identità ebraica in Primo Levi, 2012

Si propone qui il testo dell’intervento tenuto da Amos Luzzatto in occasione dell’incontro di studio Primo Levi ebreo, organizzato dal Centro e in collaborazione con la Comunità ebraica di Torino, il 6 maggio 2012, nell’ambito del programma di iniziative A venticinque anni dalla scomparsa – Primo Levi, sei incontri per ricordare e per pensare

 

Prima di affrontare più propriamente il tema sarà bene premettere alcune brevi considerazioni sulla identità ebraica; e prima di tutto vorrei formulare una domanda: quando si usa questo termine si tratta di una caratteristica costante e stabile, che si era manifestata al momento in cui gli ebrei sono diventati un popolo, o per lo meno, se una qualche trasformazione vi è stata, si tratta di un processo “naturale”, necessario e uniforme, che giunge senza discontinuità fino ai nostri giorni e che non avrebbe potuto svolgersi altrimenti? Oppure si tratta di un processo storico che, in quanto tale, è composito e riconosce al suo interno correnti, movimenti, articolazioni diverse, al limite anche cambiamenti profondi?

Vi sono due risposte contrapposte a questa domanda.

La prima fa risalire l’attuale ortodossia ebraica alle origini storiche del popolo ebraico, come unica ed esclusiva evoluzione autentica dell’identità stessa.

La seconda risposta insiste invece sul pluralismo dell’Ebraismo originario e odierno e degli stessi meccanismi delle sue trasformazioni storiche.

Secondo la prima risposta potrebbe essere vana fatica quella di ricercare l’ebraicità originale di Primo Levi. Grande scrittore, nobile personaggio vittima e testimone della Shoà, ma tipico membro di una generazione “assimilata”, per la quale la cultura europea prevarrebbe nettamente su quella tradizionale ebraica. Ebreo, certo, ma più come conseguenza della concezione razzistica del nazismo e del fascismo, molto meno o per nulla per una formazione nei valori ebraici propri.

La seconda risposta insiste soprattutto sui percorsi diversificati che, per gli eventi della vita, per le persecuzioni e/o per le speranze nutrite, hanno spinto in un determinato momento il soggetto di cui discutiamo a riscoprire legami con la storia e la tradizione dei suoi padri. Questo “ritorno a casa” non si è verificato solo per Primo Levi; nel secolo a lui precedente una simile esperienza era toccata a Moses Hess, collaboratore di Karl Marx e poi soprannominato ironicamente “il rabbino comunista” e forse persino allo stesso Theodor Herzl.

Dopo l’Emancipazione l’Ebraismo italiano è andato rapidamente acquistando i caratteri di una congregazione religiosa minoritaria rappresentata soprattutto da un ceto medio commerciale e professionale, che si riconosceva nelle proprie tradizioni nelle ricorrenze, a volte anche per il Sabato, ma che si assimilava alla maggioranza nella vita di tutti i giorni. Esisteva anche un cospicuo ceto popolare soprattutto a Roma, Livorno, Trieste e Venezia, ma considerato per lo più come un problema sociale ed economico. La grande realtà ebraica dell’Europa centro-orientale era per lo più ignorata, certo non influente, almeno fino al termine della prima guerra mondiale.

Queste due realtà ebraiche erano destinate a incontrarsi (e a cominciare a conoscersi) nel XX secolo in due situazioni: nel territorio mandatario britannico, definito ufficialmente “Palestine – Falastin – Palestina (E.I.) dove il termine Erez Israel si limitava alle iniziali ed era posto fra parentesi); e – tragicamente – nelle deportazioni e nei campi di sterminio.

Questa seconda fu la situazione nella quale Primo Levi incontrò gli ebrei dell’est; non dai libri, dalle ricerche storiche, dalla letteratura; ma dalle comuni sofferenze e dalla quotidiana minaccia alla sopravvivenza.

La grandezza di Primo Levi fu anche la capacità – per dirlo con le sue stesse parole – di essersi mosso da questa sue esperienza alla ricerca delle proprie radici.

Questa ricerca affiora continuamente nei suoi scritti. Uno porta direttamente questo titolo.

Ma sbaglieremmo se dovessimo cercare nel suo lascito letterario analisi filosofiche o filologiche; in realtà “ricercare le proprie radici” è un vissuto nel quale si fondono ricordi, esperienze, descrizioni di persone con le loro contraddizioni che tuttavia, specie quando si parla di ebrei, fanno emergere le loro specificità, descrivere i loro profili, certo insistendo su preziosità di caratteri e di comportamenti, ma anche su aspetti negativi o quanto meno discutibili; il tutto presentato come qualcosa in cui lo stesso Levi si rispecchia e si riconosce; insomma, una specie di eredità di famiglia che resta comunque la propria famiglia, della quale l’autore si riappropria.
Facendo scoperte o riscoprendo. “Se non ora quando?” non è solo un titolo di un suo racconto, ma è un brano dei “Capitoli dei Padri” della Mishnà; la famosa poesia che inizia con  “voi che vivete sicuri”, quando dice “meditate che questo è stato” e fino a ”ripetetelo ai vostri figli” riecheggia lo Shema’.

Che cosa “riscopre” dunque Primo Levi, dopo la sua tragica esperienza?

Credo di poter rispondere – e dicendo “credo” non faccio un’affermazione categorica ma esprimo a mia volta un mio sentito – che egli riscopre il popolo ebraico e il fatto indiscutibile di appartenergli; – “dopo”, molto più di “prima”. Senza definizioni ideologiche, ma con una descrizione amorevole. Se potessi essere paradossale, direi che la sua appartenenza è ora tanto più forte quanto più ne conosce le debolezze e i difetti, non per trasformarli in meriti e neppure per trovar loro giustificazioni e attenuanti.

Solo perché in questa casa, detto quello che c’è da dire, senza dare voti o classifiche, si può e si deve dichiarare: sì, è casa nostra.

 

5.  Amos Luzzatto: Il valore di un vero dialogo

Amos Luzzatto, Presidente Comunità Ebraica Venezia

Amos Luzzatto: Il valore di un vero dialogo

Ho ascoltato con grande attenzione il discorso del Cardinal Scola alla Fenice, nella cerimonia del commiato. A me, non cattolico, è parso un discorso di elevato contenuto teologico che pareva contenere in se una sintesi degli anni trascorsi a Venezia, da prolungare senza soluzione di continuità, come un programma per la sua nuova responsabilità nella sede milanese. Ascoltandolo, ho pensato che una notevole parte della gioventù cattolica, anche per influenza dello stesso Scola, negli ultimi anni è andata operando, accentuando la sua presenza nel sociale, in forme non troppo dissimili da quanto hanno fatto a loro tempo le Acli.

Si può portare la Teologia, nella pienezza delle sue domande e risposte, in questo territorio? O i problemi pratici, sociali, economici e politici non concederanno tempo e spazio alla loro elaborazione e alla loro diffusione? Soprattutto nella realtà odierna di un Occidente tutto proteso a emergere dalla crisi economica e a prevenire il terrorismo? Nelle parole del Cardinale ho avvertito un accenno preoccupato e una fiducia profonda al tempo stesso.
Già a Venezia, ma certamente più ancora a Milano, si aggiunge a questa agenda il problema del rapporto dei cattolici col mondo religioso non cristiano. Mi pare che Scola miri giustamente a liberare dalle valenze politiche, che potrebbero falsarlo, quello che comunemente si chiama dialogo interreligioso. Personalmente, capisco così la giusta condanna della violenza. In un mondo che è sempre di più segnato dalla voce delle armi, il recupero del dialogo potrebbe vedere nella Chiesa uno dei principali protagonisti.
Con queste riflessioni salutiamo oggi il Cardinale chiamato ad altri compiti, con un sincero augurio – per lui e per noi – che il suo lavoro sia coronato da successo.

 

Category: Arte e Poesia, Culture e Religioni, Editoriali

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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