Vittorio Capecchi: L’intelligenza di Adriano Olivetti e della FLM

| 8 Maggio 2015 | Comments (0)

 

Dopo Keynes viene ricordata un’altra alternativa al neoliberismo e si tratta di due storie tutte italiane che ho incontrato direttamente e che fanno capire come sarebbe possibile un incontro tra capitale e lavoro se questo incontro avviene tra Adriano Olivetti e la FLM

 

1. L’intelligenza si Adriano Olivetti

Adriano Olivetti (1901-1960) alla fine della seconda guerra mondiale definisce un  progetto politico che si poneva in netta alternativa al pensiero neoliberista sulla base di pensatrici e pensatori come Simone Weil, Jacques Maritain  e Emmanuel Mounier. In particolare Adriano Olivetti fu influenzato da Mounier che conobbe personalmente e di cui utilizzò i  termini “personalismo” e “comunitarismo” per definire il Movimento comunità. La sua idea centrale [1] era quella di un welfare state sempre più attento ai bisogni delle diverse persone e sempre più radicato al livello locale per cui doveva essere costituito un nuovo organismo politico territoriale, la Comunità,  da affiancare agli altri organismi  più tradizionali (Regione,  Province, Comuni) per garantire una maggiore partecipazione delle persone alla gestione e organizzazione delle politiche locali.

Per quanto riguarda l’impresa Adriano Olivetti partiva dalla consapevolezza dell’enorme  squilibrio di potere tra chi ne ha la proprietà e la direzione  e chi vi lavora. Come è documentato in due libri[2], Adriano Olivetti si propose di creare dei centri di contropotere all’interno dell’impresa che fossero autonomi dalla direzione aziendale. In questa direzione viene creato nell’Olivetti  il  Centro di Psicologia con la direzione scientifica dello psicoanalista  Cesare Musatti e con la presenza stabile degli psicologi Francesco Novara e Renato Rozzi quel Centro viene costituito per  svolgere ricerche sul lavoro delle operaie e degli operai con la precisazione importante che i  risultati erano, per rispondere alle direttive di Adriano Olivetti, dati dagli psicologi ai sindacati e non alla direzione aziendale.

Su indicazione del Centro di psicologia vengono creati reparti con persone insofferenti agli orari rigidi, viene data attenzione alle persone disabili; viene analizzata, per proporre cambiamenti, la presenza di stress e fatica in tutte le fasi lavorative ritenute  più dure (dalle presse al montaggio); viene dato un concreto aiuto alle donne con figli piccoli che lavoravano in fabbrica attraverso la creazione di servizi sociali e asili nido (tra i primi in Italia); vengono stabiliti rapporti strettissimi con l’area di Ivrea e del canavese per la diffusione di cultura e per dare  possibilità  alle nuove generazioni di nuovi percorsi formativi.

Il modello “Adriano Olivetti” dimostrava così che   era possibile per una azienda essere competitiva pur essendo responsabile socialmente sia all’interno che all’esterno del luogo lavorativo. Veniva così messo in discussione il “modello Fiat” che teorizzava in quell’epoca una teoria dell’organizzazione del lavoro legata alla massimizzazione dei profitti e allo sfruttamento operaio (da questo punto di vista l’attuale “modello Marchionne“ non ha apportato cambiamenti nei confronti del lavoro operaio e dei sindacati rispetto al “modello Fiat” di cinquanta anni fa).

Quello che mi ricordo  agli inizi degli anni ’60 in Olivetti era la straordinaria  circolazione della cultura umanistica strettamente collegata con quella scientifica e tecnica (in quell’epoca era direttore del personale lo scrittore Paolo Volponi  e Pier Giorgio Perotto sperimentava i primi prototipi di personal computer) insieme ai protagonisti più prestigiosi del design, architettura e urbanistica. Di quell’epoca restano ricordi personali, documentari e libri[3] insieme alla quasi certezza che Adriano Olivetti sia stato ucciso in quel suo viaggio in treno in Svizzera il 27 febbraio 1960 perché le sue idee innovative nell’area dell’ICT erano pericolose per le grandi multinazionali neoliberiste come quelle di Enrico Mattei nell’area delle risorse petrolifere. E’ stata una esperienza straordinaria ma non irrepetibile. Come scrive Luciano Gallino  allora responsabile del Centro di Sociologia dell’Olivetti:

“Adriano Olivetti pensava che l’impresa dovesse produrre ricchezza; creare occupazione; diffondere sul territorio, nelle comunità, nei paesi, nei luoghi circostanti, i frutti del lavoro, i risultati del successo conseguito sul mercati. Credeva, in  altre parole, che l’impresa dovesse ridistribuire gran parte dei profitti, facendoli ricadere per diverse vie sulla comunità circostante; e ciò non soltanto nella forma di più alti salari, bensì promovendo attraverso diversi canali lo sviluppo locale. (..) Egli pretendeva, niente meno, che l’impresa diffondesse dovunque, attorno alle sue sedi, anche cultura. Pretendeva che l’impresa diffondesse attorno a se bellezza, valori estetici, armonia di forme. A  tal fine  ha arruolato i migliori architetti e urbanisti dell’epoca per costruire strutture di alto valore architettonico: stabilimenti industriali, sedi di filiali e consociate in Italia e nel mondo ma anche edifici per servizi sociali, asili nido, case destinate ai lavoratori, colonie per i figli dei dipendenti, centri culturali, biblioteche.”[4]

 

2. L’intelligenza della FLM

Una terza alternativa al neoliberismo è rappresentata dalla FLM (1973-1984). La Federazione Lavoratori Metalmeccanici in quanto progetto unitario ha rappresentato una importante esperienza di sindacato aperto alla ricerca e alle principali tematiche che chi lavora si trova ad affrontare all’interno e fuori dai luoghi di lavoro ).  Punto di riferimento sindacale di quegli anni era Claudio Sabattini[5] che diventa segretario della Fiom di Bologna nel 1970 e con cui Capecchi prende direttamente contatti dopo aver avuto l’incarico di sociologia all’Università di Bologna nell’anno accademico 1968/69. Sono indicati alcuni dei percorsi seguiti dalla FLM che sono ancora oggi attuali.

Un primo percorso è stato quello della salute nelle fabbriche. Le iniziative della FLM  di Ivar Oddone a Torino sulla salute in fabbrica avevano fatto scuola ed erano arrivate a Bologna e Imola dove c’era stata (per la presenza degli psichiatri vicini al sindacato Emilio Rebecchi e Vittorio Vinci) una attenzione più approfondita alla componente psichiatrica che aveva punti di riferimento nella esperienza di Basaglia e di Giovanni Jervis (che collaborava strettamente ad Inchiesta). E’ in quel contesto che nel 1971 si arriva alla la Legge 118 sulla integrazione delle persone con disabilità.

Il 20 maggio del 1970 era poi diventata legge con il numero 300 lo Statuto dei Lavoratori e proseguendo nella conquista di questi diretti la FLM introdusse nel  CCNL del 1973 le “150 ore” : i lavoratori  avevano il diritto a sospendere temporaneamente il lavoro per 150 ore  triennali se chi usufruiva di questi permessi di studio metteva a disposizione dello studio un numero altrettanto numerose di ore per il recupero scolastico.[6] Claudio Sabattini, per realizzare il suo progetto delle 150 ore, chiamo un’intellettuale femminista, ex-giornalista, di Paese sera Adele Pesce per dirigere le 150 ore a Bologna. Adele era del PCI ma era anche molto amica e sostenitrice delle idee politiche di Vittorio Foa che l’aveva voluta alla direzione di Unità operaia, rivista molto attiva tra il 1971 e il 1973 che prefigurava la nascita del sindacato unitario FLM.  Claudio Sabattini propose ad Adele di trasferirsi da Roma a Bologna per coordinare a partire dal 1973 i corsi delle 150 ore come recupero della scuola media inferiore per il recupero dell’obbligo scolastico. Si trattava di un compito complesso perché bisognava mediare e trattare continuamente la scelta dei contenuti e le modalità di esame  con il provveditore e contemporaneamente preparare materiali didattici diversi per le operaie e gli operai che volevano raggiungere il traguardo della licenza di scuola media inferiore tenendo presente che tra loro c’erano molti casi in cui bisognava ricostruire le basi del saper leggere e scrivere. Adele Pesce fu bravissima nel raggiungere questi obiettivi e  dopo questa esperienza divenne anche, per un breve periodo, segretaria regionale della FLM dell’Emilia Romagna e poi dirigente della Fiom nazionale. Adele lasciò il sindacato dopo la sconfitta del 1982.[7]

Infine la FLM  ha significato fare ricerche innovative e formazione di nuovi quadri. Le ricerche  iniziano nel 1971 sulle fabbriche metalmeccaniche bolognesi per iniziativa di Claudio Sabattini e Francesco Garibaldo e la partecipazione di Sebastiano Brusco e proseguono con la  ricerca e cura della FLM di Bergamo del 1974[8].

Nel 1975 viene realizzata all’interno dell’Ufficio studi della FLM di Bologna una ricerca-azione coordinata da Roberto Alvisi e Capecchi insieme ai consigli di fabbrica che verrà ripetuta nel 1977[9] per costruire una mappa dei comparti delle imprese metalmeccaniche di Bologna utile per l’azione sindacale. A queste ricerche ne seguirono altre mirate su alcune fabbriche  (la Ducati E. di Bologna, la Cognetex di Imola) oppure su settori (il meccanotessile,  le fonderie).

Adele Pesce dopo l’esperienza delle 150 ore aveva approfondito i temi del femminismo nel sindacato diventando una contrattualista esperta e sono queste sue competenze politiche e sindacali la portano a immaginare una ricerca diversa fatta con Capecchi in cui fosse al centro la differenza sessuale. La ricerca iniziò nel 1982 ed aveva come titolo “Donne e  giovani come e perché”. Viene riportato su questa ricerca quanto scritto da Capecchi nel volume che raccoglie gli scritti  di Adele[10]

“La ricerca nasceva in una fase difficile per il sindacato, caratterizzata da perdita di rappresentatività e incapacità di comprendere fino in fondo i mutamenti in atto. Da qui la scelta di interrogare individualmente i lavoratori e le lavoratrici (oltre cinquemila questionari di trecento domande ciascuno vennero raccolti nelle fabbriche metalmeccaniche emiliane) per tentare di capire chi erano,  cosa pensavano, come vivevano e agivano le donne e gli uomini che lavoravano nelle fabbriche metalmeccaniche dell’Emilia Romagna. Per la prima volta, scrive Pesce, una ricerca politicamente impegnata “mette esplicitamente in discussione una serie di categorie interpretative della realtà utilizzate nell’ambito della sinistra, partendo in primo luogo da quelle adoperate per definire una classe e la sua identità”. Questo cambiamento nel modello interpretativo della realtà portò ad innovare rispetto a precedenti tipi di  ricerche  perché non solo si fece attenzione al genere dei soggetti della ricerca ma anche al genere di chi coordinava la ricerca. Venne definita una particolare strategia metodologica. Al  gruppo di  una ventina tra delegati e delegate sindacali delle fabbriche metalmeccaniche dell’Emilia Romagna che collaboravano alla ricerca  fu esplicitata fin dall’inizio l’importanza della differenza di genere  utilizzando la strategia di fare sia riunioni comuni per decidere sulla struttura definitiva delle diverse parti del questionario sia riunioni separate (Pesce con le delegate e chi scrive con  i delegati) per far emergere i diversi punti di vista  femminili e maschili.  Questa metodologia portò a risultati non previsti. Ad esempio uno dei temi scelti era quello della costruzione dell’identità maschile e femminile ma, in queste riunioni separate, mentre il gruppo delle donne riuscì a portare avanti questa tematica e a formulare domande adeguate, il gruppo degli uomini non fu capace di fare altrettanto mostrando una vera e propria difficoltà nell’affrontare questo tipo di riflessione. Il risultato fu che nel questionario furono formulate domande su i percorsi della identità femminile (rivolti solo a donne) mentre mancava la corrispondente parte maschile.”[11]

Emergono dalla esperienza FLM  molti elementi di riflessione su tematiche ancora valide (la salute nelle fabbriche e il welfare state, l’importanza della ricerca e della formazione, le 150 ore e i diritti dei lavoratori nella scuola, la democrazia all’interno del sindacato, il coinvolgimento di ricercatori  appartenenti a discipline diverse dalla economia alla  psichiatria, dalla medicina alla sociologia) e più in generale la visione di un sindacato capace di fare politica e ricerca fuori e dentro i luoghi lavoro per tutelare i diritti di chi lavora  qualunque sia il suo lavoro e l’appartenenza sindacale.

Quando nel 1980 il sindacato viene sconfitto dalla Fiat  la visione alternativa al neoliberismo di Adele Pesce la porterà a scrivere[12] su Inchiesta una analisi complessa di tutti gli attori di quella vicenda introducendo la categoria, presa da Musil, della “difficile utopia del possibile”. Nello scontro tra capitale e lavoro, o meglio tra “il modello Fiat” e i lavoratori, la sconfitta, come scrive Pesce, “deve essere affrontata dal sindacato nella sua durezza, senza veli pietosi davanti agli occhi, ma senza rinunciare a quell’utopia”[13]. E anche questa indicazione, con i tempi che corrono, è un’indicazione “attuale”.

 

 


[1] A. Olivetti, L’ordine politico delle comunità , Nuove Edizioni, Ivrea, 1945.

[2] C. Musatti ed altri, Psicologi in fabbrica. La psicologia del lavoro negli stabilimenti Olivetti, Einaudi, Torino 1980; F. Novara, R. Rozzi, R. Garruccio, Uomini e lavoro alla Olivetti, Bruno Mondadori, Milano, 2005

[3] A titolo esemplificativo viene  ricordato il film documentario  molto bello  di Michele Fasano  che è disponibile in DVD all’internod i un libro di testimonianze dal titolo In me non c’è che futuro, Edizione Sattva Film, Bologna 2011. Tra i libri sono segnalati quelli di Pier Giorgio Perotto L’origine del futuro. Manuale d’ingegneria del futuro per innovatori, manager e uomini di buona volontà, Franco Angeli Milano 1991 e quello di L. Gallino, L’impresa responsabile. Una intervista su Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Milano, 2001

[4] L. Gallino, L’impresa responsabile. Una intervista su Adriano Olivetti, op. cit, pp.8-9

[5] Per ricordare la figura di Claudio Sabattini si rinvia al libro curato da Luca Romaniello e Riccardo Terzi, Claudio Sabattini. Autonomia sociale, conflitto, democrazia, LiberEtà, Roma 2014

[6] Per una rilettura del significato delle 150 ore si rinvia al numero speciale di Inchiesta/Fabbrica e Stato, luglio agosto 1973 dal titolo 150 ore, una suonata per i padroni con in copertina un clavicembalo. Il clavicembalo  derivava da una frase detta da un “padrone” (Walter Mandelli della Finmeccanica) durante la vertenza per ottenere il diritto alle 150 ore. La frase era “Ma che ve ne fate delle 150 ore? Imparerete a suonare il clavicembalo?” Al che “i compagni” risposero: “Se sarà il caso perchè no?”.

[7] Per una riflessione Sulle 150 ore si rinvia a libro scritto da V. Capecchi e altri: Famiglia operaia, mutamenti culturali, 150 ore, Il Mulino, Bologna 1982  che è il primo di sei volumi, coordinati da Capecchi  (e tutti editi dalla Casa editrice Il Mulino) per riflettere sulle 150 ore in Emilia Romana

[8] L’analisi dettagliata di queste ricerche è in  V. Capecchi, “Sebastiano Brusco e il sindacato” Economia e politica industriale, 121, 2004, pp. 79-92

[9] FLM di Bologna, Ristrutturazione e organizzazione del lavoro. Inchiesta nelle fabbriche metalmeccaniche della provincia di Bologna, Ed Seusi , Roma 1975;  FLM di Bologna, Occupazione, sviluppo economico, territorio. Tendenze  dell’occupazione, degli investimenti, del decentramento e della produzione nei comparti produttivi dell’industria metalmeccanica di Bologna, Ed Seusi, Roma 1978

[10] V. Capecchi, “Agire e riflettere tenendo presente la difficile utopia del possibile. Femminismo, sinistra, diversità/società complessa” in  A. Pesce, Fare cose con le parole (a cura di V. Capecchi e  D. Meneghelli), Edizioni Dedalo, Bari 2012

[11] V. Capecchi, op. cit, pp.  15-16

[12] Il testo pubblicato in Inchiesta 48, 1980, pp3-21 è stato ripreso in A. Pesce, “ La difficile utopia del possibile. Un’analisi della sconfitta alla Fiat”, in A. Pesce, Fare cose con le parole, op. cit. pp. 37-79

[13] A. Pesce, op. cit., p. 79

 

Category: Dibattiti, Economia, Lavoro e Sindacato

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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