Vincenzo Comito: I robot e il futuro della globalizzazione

| 13 Maggio 2016 | Comments (0)

 

 

 

Diffondiamo da www.sbilanciamoci.info del 13 maggio 2016. Una nuova ondata di innovazioni nel settore della robotica e dell’intelligenza artificiale. Con quali conseguenze sull’occupazione?

 

Nell’ultimo periodo si va assistendo nel mondo ad una nuova ondata di innovazioni nel settore della robotica e dell’intelligenza artificiale. Tale processo deve essere inserito poi in un più vasto e più generale fenomeno in atto, quello di un forte sviluppo delle tecnologie digitali, sviluppo che prende ogni giorno nuove forme e tende a diventare sempre più pervasivo.

Il processo di crescita della robotica era stato in qualche modo rallentato in passato dalla scarsa elasticità degli apparati, nonché dal loro costo rilevante. Ma ora si affaccia sul mercato una nuova generazione di macchine, molto più flessibili di prima, di più ridotte dimensioni, imbottite di programmi di intelligenza artificiale, meno costose (Cosnard, 2015; Tett, 2015) e così, da qualche tempo, i tassi di crescita del settore si vanno facendo molto più sostenuti.

Secondo un’analisi del Boston Consulting Group, il prezzo medio dei robot, dopo la riduzione degli ultimi anni, tenderà a diminuire ancora grosso modo del 20% nei prossimi dieci, mentre le loro prestazioni potranno crescere del 5% all’anno ancora per molto tempo (Bland, 2016).

Così, ora si prevede che il settore aumenterà il suo fatturato nel 2016 e negli anni successivi del 17% all’anno, per raggiungere in valore i 135 miliardi di dollari nel 2019 (Waters, Bradshaw, 2016).

Sino a non molti anni fa i due principali produttori degli apparati erano il Giappone e la Germania, con altri paesi europei che avevano anch’essi molto da dire (Svezia, Italia, tra gli altri); ma ora avanzano altri protagonisti. Così la Cina tende a diventare l’attore più importante per quanto riguarda sia il mercato che la produzione del settore (attualmente il valore delle due variabili supera di poco nel paese il 25% del totale mondiale, con tendenza però ad una forte crescita), seguito a una certa distanza dal Giappone, con gli Stati Uniti che mantengono invece la leadership nel campo del software e con l’Europa, a parte la Germania, che fa fatica a tener dietro, pur non mancando di un certo livello di know-how e di esperienze produttive.

Nel 2015 la Cina ha poi depositato la richiesta di circa 33.000 brevetti nel comparto, il 35% del totale a livello mondiale, il Giappone circa 14.000, gli Stati Uniti 12.000, la Corea del Sud 7.000, l’Europa meno di 5.000 (Waters, Bradshaw, 2016).

Con tale nuova crescita delle attività, è ripreso con forza il dibattito relativo alle conseguenze del suo sviluppo sull’occupazione; la letteratura in proposito è abbondante. Si fronteggiano due scuole principali, la prima che sostiene che l’avvento delle macchine porterà, se non si interviene adeguatamente, ad una sua rilevante caduta (vedi in proposito, ad esempio, l’ormai classico testo di Frey, Osborne, 2013), la seconda, più ottimistica, che pensa che, mentre si ridimensionano i vecchi tipi di lavoro, se ne creano parallelamente di nuovi, che riescono a riempire i vuoti.

La prima scuola sembra comunque quella che riesce a raccogliere i maggiori consensi.

Automazione e localizzazione delle fabbriche

Ma in questo scritto vorremmo concentrare l’attenzione su di un altro tema, più trascurato sino ad oggi nelle analisi, quello relativo alle conseguenze della nuova ondata di automazione sui processi di globalizzazione e sulla divisione internazionale del lavoro.

Si può partire dalla considerazione che la nuova generazione di robot è in grado di tagliare ormai i costi di produzione di un’impresa non solo in presenza di salari al livello statunitense o tedesco, ma anche di quelli cinesi e persino di quelli indiani, vietnamiti e di altri paesi con retribuzioni molto basse (Tett, 2015).

A questo punto si potrebbe verificare una forte spinta a una localizzazione in occidente della maggior parte dei nuovi insediamenti produttivi delle imprese e ad una rilocalizzazione sempre in tale area di produzioni già a suo tempo trasferite nel Sud del mondo. Questo, almeno nel caso in cui la motivazione principale della delocalizzazione sia o sia stata una questione di costi di produzione (Tett, 2015).

Tale processo risponderebbe in qualche modo anche alla richiesta di una parte almeno dell’opinione pubblica dei paesi ricchi a frenare i processi di delocalizzazione, come appare evidente, ad esempio, dall’andamento della campagna elettorale presidenziale statunitense.

Ricordiamo come, d’altra parte, spesso, oltre al problema dei costi di produzione, siano presenti anche altre motivazioni per gli insediamenti produttivi esteri, in particolare la volontà di stare in un certo paese o in una certa regione per motivi di mercato, per la presenza in loco di materie prime, l’esistenza di barriere all’entrata, o quella di esistenza nel paese di particolari competenze e conoscenze, di adeguate infrastrutture, ecc..

Così, nonostante il forte aumento in atto da molti anni ormai della dinamica salariale cinese, gli investimenti esteri vi tendono ancora a crescere, in relazione, tra l’altro, alla sempre più pressante necessità di essere presenti in un mercato che appare ormai il più importante del mondo, o al massimo il secondo, per moltissimi prodotti e servizi. Va, comunque, ricordato che si verifica contemporaneamente da qualche tempo una deriva di investimenti da tale paese verso aree a minore costo del lavoro per le attività a basso valore aggiunto.

Naturalmente tale tendenza allo spiazzamento del lavoro umano da parte dei robot potrebbe giocare a favore delle imprese dei paesi ricchi, ma non certo di quella dei lavoratori degli stessi.

I differenti destini di Cina ed India

Si può aggiungere anche che, sul piano dell’occupazione, il numero delle persone minacciate di essere eliminate dai processi produttivi dalla nuova ondata di automazione appare maggiore nei paesi emergenti che non in quelli sviluppati, non solo perché a questo punto i primi non presenterebbero alcun vantaggio ulteriore in termini di costi di produzione, ma anche per il fatto che in essi il livello medio delle qualificazioni è più basso e quindi più soggetto ad essere toccato da queste tendenze.

Tali sviluppi non sembrano spaventare molto i cinesi, che vedono la loro forza lavoro diminuire di anno in anno a causa delle ben note tendenze demografiche locali: la popolazione attiva del paese dovrebbe passare dal miliardo di unità del 2015 ai 960 milioni del 2030 agli 800 del 2050 (Bland, 2016) e quindi i processi di automazione potrebbero contribuire in misura notevole a supplire alla mancanza di personale.

Il problema si presenta in modo diverso e molto più drammatico per molti altri paesi emergenti a partire dall’India, nei quali la dinamica demografica è molto più sostenuta e che contavano, per larga parte, sui processi di industrializzazione per progredire e fornire un’occupazione ai loro cittadini. Oggi in effetti i robot distruggono lavori che in Cina hanno portato a suo tempo molte decine, se non centinaia di milioni di persone, fuori dalla povertà; ma un paese come l’India, che sta cercando soltanto ora a industrializzare il paese, si trova in sostanza in una trappola dalla quale appare difficile uscire.

L’India, il Vietnam, la Cambogia e molti altri paesi, quindi, che speravano di seguire l’esempio della Cina e prima ancora di Giappone o Corea del Sud, spostando milioni di persone dall’agricoltura alle fabbriche low-cost che dovevano produrre per l’esportazione, si trovano oggi così di fronte alla minaccia di una “deindustrializzazione prematura” (Dani Rodrik) e comunque, come ha scritto qualcun altro, devono affrontare una corsa contro il tempo nel cercare di industrializzarsi prima che l’invasione dei robot renda il tutto impossibile.

Impresa che sembra peraltro, ormai, molto difficile da perseguire.

 

 

 

Testi citati nell’articolo

-Bland B., China robot revolution, www.ft.com, 28 aprile 2016

-Cosnard D., L’industrie attend un’invasion de robots, Le Monde, 30 settembre 2015

-Frey C. B., Osborne M., The future of employment: how suscetible are jobs to computerisation ?, Oxford Martin School, University of Oxford, 17 settembre 2015

-Tett G., Freezing out the factory worker, www.ft.com, 4 dicembre 2015

-Waters R., Bradshaw T., Rise of robots is spreading an investment boom, www.ft.com, 3 maggio 2016

 

Category: Economia, Osservatorio internazionale, Ricerca e Innovazione

About Vincenzo Comito: Vincenzo Comito (1940), ha lavorato per molti anni nell’industria (gruppo Iri, Olivetti) e nel movimento cooperativo, nelle aree dell’amministrazione e finanza, del controllo di gestione e del personale. Da molti anni docente di finanza aziendale prima all’Università Luiss di Roma, attualmente insegna all’Università di Urbino. Fa parte del gruppo “Sbilanciamoci”. Tra i suoi libri: Idee e capitali. Mercati finanziari e decisioni di impresa, Isedi 1994; Idee e capitali. Modelli strumenti e realtà della finanza aziendale, Utet 2002; Storia delle finanza d'impresa. Dalle origini al XVIII secolo, Utet, 2002; Storia della finanza d'impresa. Dal XVIII secolo ad oggi, Utet 2002; L'ultima crisi, la Fiat tra mercato e finanza, L'Ancora del Mediterraneo 2005; Le armi come impresa. Il business militare e il caso Finmeccanica, Edizioni dell'Asino 2009; La fabbrica dei veleni. Il caso Ilva e la crisi della siderurgia (con Riccardo Colombo), Edizioni dell'Asino (marzo 2013)

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