Thomas Piketty: Due interviste e cinque recensioni

| 6 Maggio 2014 | Comments (0)

 

 

 

Il grande successo del libro dell’economista Thomas Piketty Le capital au XXI siecle già tradotto in inglese e in corso di traduzione in italiano (da Bompiani) ha fatto parlare di “un nuovo Marx” . E’ proprio così? Pubblichiamo due interviste e cinque recensioni per preparavi a discuterlo

1. Intervista di Francois Armanet, Jean-Gabriel Fredet: La ricchezza deve essere tassata
Le Nouvel Observateur, tradotta in Pagina 99  il 17 febbraio 2014

D. Nel suo libro, Le Capital au XXIe siècle, lei scrive che Balzac e Jane Austen descrivono fedelmente i problemi di distribuzione della ricchezza e del patrimonio. È un modo per dire che l’economia è incapace di fornire risposte attendibili a uno studio del capitale?

R. Sì. In questo libro ho cercato di scrivere la storia del capitale a partire dal XVIII secolo e di trarne insegnamenti per il futuro. Per fare qualche progresso su una questione tanto complessa bisogna procedere con pragmatismo e utilizzare tanto i metodi degli storici, dei sociologi e dei politici quanto quelli degli economisti. In questo lavoro ho cercato di raccogliere fonti storiche più complete possibile sulla dinamica dei redditi e dei patrimoni, prendendo in considerazione tre secoli e più di venti paesi. Questo mi ha permesso di riprendere il filo delle grandi controversie su queste questioni, da Marx a Kuznets passando per Malthus e Leroy-Beaulieu, ma con molti più dati.

Anche i materiali letterari giocano un ruolo importante nella mia inchiesta. Non hanno certo la sistematicità delle dichiarazioni dei redditi – disponibili anno per anno nella maggior parte dei paesi a partire dalla Belle Epoque. Ma per certi versi sono ancora più ricchi. La questione della distribuzione delle ricchezze è troppo importante per essere lasciata solo agli economisti, agli storici e ai filosofi. Romanzieri come Balzac o Jane Austen hanno una conoscenza intima della gerarchia della ricchezza . In Papà Goriot, Vautrin spiega a Rastignac che gli studi e il merito non portano da nessuna parte e che il solo modo per raggiungere la vera agiatezza è mettere le mani su un patrimonio. Nel mio libro ho voluto scoprire se il discorso di Vautrin fosse esatto, e ho voluto capire perché e come quel tipo di struttura non egualitaria sia evoluta nel corso della storia. Siamo proprio sicuri che l’equilibrio tra redditi da lavoro e redditi ereditati sia cambiato dall’epoca di Vautrin? E poi, soprattutto, supponendo che una tale trasformazione si sia verificata, quali sono le ragioni, e sono eterne?.

D. Lei dimostra che, quando il rendimento del capitale è stabilmente sopra il tasso di crescita, il patrimonio ereditato supera il patrimonio costruito in una vita di lavoro. Oggi, nelle nostre società a debole crescita, il passato divora l’avvenire?

R. Io dimostro che quando il tasso di rendimento del capitale supera significativamente e durevolmente il tasso di crescita – cosa che quasi sempre si è verificata nella storia, almeno fino al XIX secolo, e che ha grandi possibilità di ridiventare la norma nel XXI – questo implica automaticamente che i patrimoni provenienti dal passato si ricapitalizzino più velocemente dell’aumento della produzione e dei redditi. Quindi agli eredi basta risparmiare una parte limitata delle rendite del loro capitale perché questo aumenti più in fretta dell’economia nel suo insieme. In queste condizioni è quasi inevitabile che i patrimoni ereditati prevalgano ampiamente su quelli costituiti nel corso di una vita di lavoro e che la concentrazione del capitale raggiunga livelli estremamente elevati e potenzialmente incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale che sono alla base delle società democratiche moderne.

D.Lei dice che, al contrario di quanto sostiene la dottrina liberale, il mercato non riduce automaticamente le disuguaglianze. Oggi queste sono altrettanto stridenti di quelle della Belle Epoque?

R. A lungo termine, la principale forza di livellamento delle condizioni economiche non è tanto il mercato quanto la diffusione della conoscenza. Ma questa forza non piove dal cielo: esige in particolare istituzioni educative che permettano a tutti di accedere ai saperi e alle qualificazioni. Soprattutto, questa forza positiva può essere controbilanciata da meccanismi che vanno in senso opposto, a partire dalla disuguaglianza tra rendita del capitale e crescita economica, che tende ad amplificare meccanicamente le disuguaglianze iniziali di ricchezza. L’errore di Marx è stato trascurare la crescita. L’errore dei liberali è stato credere che la crescita e la concorrenza potessero regolare tutto. La disuguaglianza tra rendita del capitale e crescita economica non ha niente a che vedere con le “imperfezioni” del mercato. Al contrario: più il mercato del capitale è “perfetto”, nel senso degli economisti, più essa ha possibilità di verificarsi, soprattutto quando la crescita si abbassa durevolmente. Per certi versi le disuguaglianze attualmente sono maggiori che nel 1913, anche se oggi esiste una classe media patrimoniale che un secolo fa mancava. Questo dato di fatto si spiega in parte con la crescita, che malgrado tutto resta più forte che nei secoli scorsi, e con le istituzioni pubbliche oggi minacciate.

D.Secondo lei tutti gli imprenditori di successo possono vivere di rendita. Le nostre società meritocratiche sono condannate a diventare società di rentier?

R. Non dico esattamente questo: dico che le forze che spingono in questa direzione sono potenti, specialmente nelle società a crescita economica e demografica lenta, e che esse possono essere controbilanciate stabilmente solo da istituzioni specifiche e da politiche fiscali adeguate. Gli imprenditori sono indispensabili per la crescita economica e l’innovazione. Il problema è il passare del tempo. Prendiamo Eugène Schueller. Nel 1909 inventa tinture per capelli che faranno la fortuna de L’Oréal. Nel 2013 sua figlia Liliane Bettencourt è ancora una delle persone più ricche del mondo pur non avendo mai lavorato. Tra il 1990 e il 2010 il suo patrimonio è passato da 2 a 25 miliardi di dollari, con una progressione media del 13% all’anno (circa l’11% di rendimento annuo al netto dell’inflazione). Esattamente come Bill Gates, la cui ricchezza è passata da 4 a 50 miliardi. Questo caso estremo illustra un fenomeno più generale: oltre una certa soglia, la ricchezza si riproduce da sola a un ritmo molto più rapido della crescita economica. Si tratta di una logica dalle conseguenze a lungo termine pericolose, fatto di cui anche i più ferventi difensori del mercato farebbero bene a rendersi conto. Basarsi solo sulla generosità privata per risolvere questa contraddizione è un po’ poco.

D. Secondo lei andiamo verso livelli di disuguaglianza sconosciuti in passato?

R.La nuova economia-mondo è portatrice al tempo stesso di immense speranze (la fine della povertà) e altrettanto immensi squilibri (individui ricchi come paesi). Che la ricchezza iniziale sia stata costruita col petrolio o l’alluminio, con la cosmetica o col software, alla fine importa abbastanza poco. Se si esamina l’evoluzione dei più grandi patrimoni mondiali negli anni 1980-1990, si osservano progressioni medie dell’ordine del 7-8% al di sotto dell’inflazione. Si constata lo stesso ordine di grandezza per i grandi portafogli detenuti dai fondi petroliferi. Se si proiettano le tendenze osservate per il periodo 1980-2010 al periodo 2010-2050 o 2010-2100 si arriva a squilibri finanziari, sociali e politici del tutto insostenibili. Certo ci si può congratulare di avere strappato qualche briciola a un oligarca francese o del Qatar per un fondo di investimento in periferia. Ma questo non risolve il problema a lungo termine».

D.La comparsa a partire dagli anni 80 di una classe di super-manager alla testa di grandi aziende aggrava o attenua le disuguaglianze?

R.Per i membri di questa nuova élite è una buona notizia: è possibile raggiungere l’agiatezza senza possedere un patrimonio iniziale importante. È quello che Napoleone auspicava per i suoi alti funzionari e i suoi prefetti: che essi fossero sufficientemente ben pagati da potere rivaleggiare in eleganza con i notabili più ricchi dei loro dipartimenti. Questo modello, a partire dagli anni 1970-80, ha assunto proporzioni inedite negli Stati Uniti. Il problema, evidentemente, riguarda tutti coloro che non sono né super-manager né super-ricchi e che quindi si ritrovano perdenti su tutti e due i fronti. La struttura delle disuguaglianze nel XXI secolo potrebbe assumere una forma ancora più violenta che nei secoli precedenti. In futuro ci si potrebbe ritrovare a coniugare i difetti dei due mondi, con il ritorno di fortissime disuguaglianze patrimoniali da un lato e disuguaglianze salariali esacerbate e non giustificate in termini di merito e di produttività (considerazioni il cui fondamento fattuale è tuttavia minimo) dall’altro. L’estremismo meritocratico moderno può condurre a un inseguimento senza fine tra i super-quadri e i super-ricchi, a detrimento di tutti quelli che non sono né una cosa né l’altra e che sono tanto più numerosi quanto i primi due gruppi sono ristretti e tendono a darsi reciproche conferme».

D.Si riferisce certamente a Marx e alla sua legge di accumulazione del capitale. Che cosa resta di Marx oggi?

R.Malgrado tutti i suoi limiti, l’analisi marxista conserva su parecchi punti una certa pertinenza. Innanzi tutto, Marx parte da un problema vero (una inverosimile concentrazione di ricchezze durante la rivoluzione industriale e la prima metà del XIX secolo, in particolare nel Regno Unito e in Francia) e cerca di trovare una risposta, con i mezzi di cui dispone: ecco un approccio a cui gli economisti di oggi farebbero bene a ispirarsi. Poi e soprattutto, il principio di accumulazione infinita difeso da Marx contiene un’intuizione fondamentale per l’analisi del XXI secolo come del XIX e in un certo senso ancora più inquietante del principio di rarità caro a Ricardo. Dal momento che il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono naturalmente un’importanza considerevole, potenzialmente smisurata e destabilizzatrice per le società interessate. In altre parole, una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione e concentrazione infinite del capitale: ne risulta un equilibrio non apocalittico quanto quello previsto da Marx ma non per questo meno sconvolgente. L’accumulazione a un certo punto si ferma ma questo punto può essere molto alto e destabilizzante. Il fortissimo aumento di valore totale dei patrimoni privati, misurato in anni di rendita nazionale, che si constata a partire dagli anni 1970-80 nell’insieme dei paesi ricchi – in particolare in Europa e in Giappone – deriva direttamente da questa logica.

D. Si può tenere sotto controllo il capitale nel XXI secolo?

R. Nel XX secolo sono state le guerre a fare tabula rasa del passato e a dare temporaneamente l’illusione di una diminuzione strutturale delle disuguaglianze e si un superamento del capitalismo. Affinché il XXI secolo inventi un superamento contemporaneamente più pacifico e più duraturo è urgente ripensare il capitalismo dalle fondamenta, serenamente e radicalmente, e costruire una amministrazione pubblica adatta al capitalismo globalizzato del nostro tempo. L’Unione europea rappresenta all’incirca un quarto del PIL mondiale (come l’America del Nord). Essa ha un modello sociale da difendere e promuovere. L’Europa, per poco che si unisca, ha costituisce un’area economica e finanziaria sufficiente a prendere in mano il controllo del capitalismo mondiale attuale. A condizione che smetta di comportarsi come un nano politico e un colabrodo fiscale! Il totale dei patrimoni (attivi immobiliari e finanziari, al netto di tutti i debiti) detenuti dagli europei è il più elevato al mondo, di gran lunga più cospicuo degli Stati Uniti e del Giappone, molto oltre la Cina. Contrariamente a una leggenda tenace, quello che gli europei possiedono nel resto del mondo è nettamente di più di quello che il resto del mondo possiede in Europa. La nostra crisi del debito sembra insormontabile, mentre il nostro livello di indebitamento pubblico è inferiore a quello del resto del mondo ricco. Questa impotenza collettiva continuerà finché sceglieremo di essere governati da piccoli paesi in esacerbata concorrenza tra loro (Francia e Germania saranno presto minuscoli nella scala dell’economia mondiale) e da istituzioni comuni totalmente inadatte e inefficienti.

D.Lei fa campagna per instaurare un’imposta progressiva sul capitale. Un’utopia?

R.L’imposta progressiva sul reddito è stata la grande innovazione fiscale del XX secolo. L’imposta progressiva sul capitale potrebbe giocare un ruolo analogo nel XXI secolo. È l’istituzione adeguata a permettere alla democrazia e all’interesse generale di riprendere il controllo degli interessi privati e delle dinamiche non egualitarie all’opera, pur preservando l’apertura economica e le forze della concorrenza, respingendo i rigurgiti nazionalisti, protezionisti e identitari che condurranno solo a frustrazioni ancora più terribili.

A dire il vero, esistono già un po’ dappertutto imposte annuali sul patrimonio, in particolare quello immobiliare, attraverso tasse fondiarie. Certi paesi, come la Francia e la Svizzera, hanno anche un’imposta progressiva sul patrimonio globale (immobiliare e finanziario), tipo imposta sulla ricchezza. La Spagna ha ristabilito l’imposta sulla ricchezza che Zapatero aveva soppresso. Monti ha introdotto in Italia una nuova imposta sul patrimonio (sfortunatamente con un tasso otto volte più alto sull’immobiliare che sugli attivi finanziari, che ha provocato un fortissimo senso di ingiustizia). Questa questione adesso è dibattuta attivamente in Germania. Tenendo conto degli altissimi livelli di capitalizzazione patrimoniale osservati attualmente in Europa e della stagnazione dei redditi e della produzione, bisognerebbe essere pazzi per rinunciare a una base fiscale simile: questo va al di là della destra e della sinistra.

Il problema è che imposte simili non possono essere prelevate correttamente a livello strettamente nazionale: bisogna anche passare su scala regionale, continentale, perfino mondiale. Può sembrare utopistico. Ma in un certo senso è in questa direzione che vanno i progetti attualmente in discussione di trasmissione automatica di informazioni bancarie internazionali. Simili accordi permetterebbero a ogni amministrazione nazionale di realizzare un sistema di dichiarazione dei patrimoni precompilata che raccolga tutti gli attivi immobiliari e finanziari di un dato individuo. Per arrivare a questo, bisognerebbe tuttavia applicare sanzioni molto più pesanti di quelle pensate attualmente (compresa la recente legge americana, che è molto più timida di quanto talvolta si senta dire). In questo campo esiste uno scarto a volte abissale tra le dichiarazioni trionfalistiche dei responsabili politici e la realtà di quello che fanno. Soprattutto, questa questione della trasparenza finanziaria è inseparabile dalla riflessione sull’imposta sul capitale. Se non si sa molto bene che cosa si vuole fare di tutte queste informazioni, allora è probabile che questi progetti facciano fatica ad andare a buon fine.

Piuttosto che continuare a liberalizzare ancora di più gli scambi commerciali proprio quando non sono mai stati così liberi, ecco un obiettivo molto più utile che il futuro trattato euro-americano potrebbe darsi: un’imposta minima sul capitale basata su un vero catasto finanziario mondiale.

 

 

2. Intervista di Fabio Gambaro : Il ritorno del capitale

La Repubblica  6 marzo 2014

PARIGI – Il ritorno del Capitale. Potrebbe essere questo il sottotitolo di un vasto studio intitolato Le capital au XXIe siècle(Seuil, pagg. 969, euro 25), che in Francia sta avendo un notevole successo e innescando moltissime discussioni. L’autore, Thomas Piketty, uno dei più brillanti economisti francesi della nuova generazione, vi ha raccolto i risultati di una lunga ricerca in cui, incrociando l’economia con le altre scienze sociali, ha ricostruito l’evoluzione e le dinamiche del capitalismo durante gli ultimi tre secoli.

Affrontando in particolare le problematiche della ripartizione della ricchezza e della disuguaglianza economica, il corposo volume  –  che in Italia verrà tradotto da Bompiani  –  individua nello squilibrio tra crescita economica e rendita del capitale una delle principali contraddizioni del capitalismo. Squilibrio che sarebbe responsabile di un aumento quasi meccanico dei grandi patrimoni, la cui inesorabile progressione minaccia sempre più i valori di giustizia sociale su cui poggiano le società democratiche.

R. Rispetto a un secolo fa, anche se le disuguaglianze restano ancora enormi, il capitale del XXI secolo è meglio distribuito “, spiega lo studioso che insegna all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e all’Ecole d’économie de Paris. “All’inizio del Novecento, il 90% del patrimonio era nelle mani del 10% della popolazione più ricca. Oggi, in Europa, questo 10% detiene circa il 60% del patrimonio, mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra si arriva al 70%. Nel corso del XX secolo, il 20-30% del capitale è dunque passato nelle mani della classe media. Parallelamente, il capitale ha cambiato natura. Oggi infatti è prevalentemente finanziario e immobiliare, mentre all’inizio del secolo scorso era soprattutto agrario o legato alle aziende familiari.

 

D. La crisi però sembra erodere il nuovo patrimonio della classe media. Leggendo il suo libro, si ha l’impressione che si stia tornando al XIX secolo, quando il capitale cresceva più rapidamente della produzione, accentuando le disuguaglianze. La situazione descritta da Marx nella sua opera più celebre. È così?

R. Negli ultimi decenni ci siamo allontanati radicalmente dalla situazione che ha prevalso nel secolo scorso, quando l’economia, segnata dai traumi delle due guerre mondiali, ha conosciuto tassi di crescita molti alti. Era però una situazione eccezionale, a cui si è aggiunta un’azione politica molto incisiva per far partecipare il capitalismo privato allo sforzo di ricostruzione. Così, nel periodo 45-80 è stato possibile ridurre le disuguaglianze. Oggi però, finita questa fase, stiamo tornando al capitalismo delle origini, dove l’eredità aveva un peso preponderante. C’è un ritorno di prosperità patrimoniale che ricorda quella della belle epoque, all’inizio del XX secolo. Il che naturalmente potrebbe anche essere un dato positivo, giacché è sempre meglio avere dei capitali invece dei debiti.

 

D. Significa che siamo più ricchi di quanto pensiamo?

R. Globalmente sì. Oggi in Europa, e in particolare in Italia, si insiste molto sul debito. In realtà però abbiamo molto più capitale che debito. Il nostro patrimonio, al netto del debito pubblico e privato, non è mai stato così elevato. In Europa, corrisponde a circa sei anni di Pil, e in Italia addirittura ci si avvicina a sette anni. Nel 1950, il valore dei patrimoni privati in Europa rappresentava solo due anni di Pil. Il nostro patrimonio nell’ultimo mezzo secolo è cresciuto costantemente. Si dice spesso che lasceremo ai nostri figli una montagna di debiti, in realtà lasceremo loro un patrimonio che non ha eguali in passato.

 

D. Si pone però il problema della ripartizione di questo capitale, in una fase in cui le disuguaglianze sono tornate a crescere…

R.In effetti, quando  –  come oggi  –  la rendita del capitale supera durevolmente il tasso di crescita dell’economia si crea uno squilibrio che tende a ampliare le disuguaglianze, erodendo soprattutto il patrimonio della classe media. In realtà, a parte i periodi in cui l’economia cerca di colmare un ritardo, come ad esempio nel dopoguerra, sul lungo periodo la crescita della produzione non supera mai di molto l’1-1,5% all’anno. Senza dimenticareche quando l’incremento demografico è debole o addirittura negativo, la crescita del Pil ne risente. È quello che accade oggi e continuerà ad accadere in futuro. Dobbiamo farcene una ragione e smetterla di sognare un’illusoria crescita dell’economia.

 

D. A fronte di questa crescita debole, il rendimento dei capitali invece più sostenuto…

R.La rendita media del capitale è del 4-5% all’anno. Naturalmente esistono alcuni investimenti a rischio che possono essere più redditizi, ma sul lungo periodo la media è questa, un po’ come accadeva fino all’inizio del XX secolo. Di conseguenza, come nella prima fase del capitalismo ottocentesco, oggi il rendimento del capitale è più elevato della tasso di crescita. E questa situazione scava sempre di più le disuguaglianze patrimoniali. Il capitale si riproduce da solo molto più rapidamente della crescita economica, e i ricchi diventano sempre più ricchi.

 

D. L’ipotesi dell’autoregolazione del sistema economico è del tutto illusoria?

R. Non esistono soluzioni naturali. Il sistema da solo non riduce le disuguaglianze. L’errore dei liberali è di credere che la crescita da sola possa risolvere ogni problema, favorendo la mobilità sociale. In realtà non è così. Le disuguaglianze restano e anzi si accentuano. In passato, per ridurre le disuguaglianze e mettere un freno alla concentrazioni dei capitali si è fatto ricorso alle imposte sul reddito esulle successioni. Ciò ha permesso di allargare la base sociale su cui poggia il patrimonio globale. Il che dimostra che per crescere non c’è bisogno della grande concentrazione patrimoniale del XIX secolo né di penalizzare la classe media.

 

D.La cultura e l’educazione contribuiscono a ridurre le disuguaglianze economiche?

R.Certamente, ma si tratta di un processo molto lento e secondo me non sufficiente. La tendenza del capitale a riprodursi e a accentuare le disuguaglianze non potrà essere combattuta solamente dalle migliori università. Per questo mi sembra necessaria la leva della tassazione. Penso a un’imposta progressiva e trasparente sul capitale a livello internazionale. L’ideale sarebbe di poter tassare tutte le grandi fortune a livello mondiale, da quelle americane a quelle mediorientali, dai patrimoni europei a quelli cinesi. È una proposta che può sembrare utopica, ma un secolo fa anche l’imposta progressiva sul reddito era solo un’utopia. Occorre volontà politica. Potremmo cominciare a livello europeo, visto che la nostra economia rappresenta un quartodel Pil mondiale.

 

D.Le leggi dell’economia sono spesso state assimilate a delle leggi di natura indiscutibili, lei invece sostiene il primato della politica sull’economia.

Certo. Il mercato e la proprietà privata hanno certamente molti aspetti positivi, sono la fonte della ricchezza e dello sviluppo, ma non conoscono né limiti né morale. Tocca alla politica riequilibrare un sistema che rischia di rimettere in discussione i nostri valori democratici e di uguaglianza. La politica però può intervenire in maniera intelligente o distruttrice. Da questo dipende il nostro futuro.

 

 

3. Christian Battistoni: Thomas Piketty e le disuguaglianze del capitalismo

International Business Times, 6 maggio 2014

L’ex galeotto Vautrin, rivelando cinicamente allo studente spiantato Eugène de Rastignac i meccanismi sociali, gli aveva spiegato che era molto più conveniente sposare un’ereditiera che studiare e lavorare”, scriveva Balzac nel 1835. Una situazione rimasta immutata per tutto il XIX e l’inizio del XX secolo, fino alla Bella Epoque. Soltanto le distruzioni materiali imposte dalla due guerre mondiali, un’inflazione galoppante e alcune scelte politiche “illuminate”, hanno poi ridotto il peso dei patrimoni e quindi le disuguaglianze sociali. Ma oggi, nell’epoca della globalizzazione e della mondializzazione economico-culturale, nel ciclico perpetuare della storia, la situazione sembra inesorabilmente ripetersi. “All’inizio del XXI secolo l’eredità non è lontana dal ritrovare l’importanza che aveva all’epoca del Père Goriot”, poiché infatti, “il tasso di rendimento del capitale oltrepassa durevolmente il tasso di crescita della produzione e del reddito, situazione che è durata fino alla fine del XIX secolo e che rischia fortemente di tornare ad essere la norma nel XXI secolo, il capitalismo produce meccanicamente delle ineguaglianze insostenibili, arbitrarie, rimettendo radicalmente in causa i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”, afferma Piketty.

Da molti definito come il nuovo Marx, l’economista francese con la sua teoria sulle disuguaglianze economiche, sta spopolando in tutto il Mondo suscitando l’attenzione persino dei consiglieri economici di Obama. “Capital in the Twenthy-First Century” (Il capitale nel XXI secolo), criticato duramente dal The Wall Street Journal – lo ha definito un “bizzarro massetto ideologico” – mediante tabelle, grafici, modelli matematici ricostruisce infatti l’evoluzione e le dinamiche del capitalismo negli ultimi tre secoli. Come scrive il premio Nobel Paul Krugman dalle pagine de The New Yorker review of books, questo libro potrebbe cambiare il nostro modo di concepire la società e l’economia.

Attraverso un’analisi storica alquanto accurata Thomas Piketty infatti, afferma chiaramente che dal 1980 ad oggi la disparità economica tra ricchi e poveri è tornata a crescere inesorabilmente, contraddicendo la tendenze riequalibratici in atto agli inizi del 900′ quando, sia in Europa che negli Stati Uniti, la quota di ricchezza nazionale posseduta dall’un per cento più ricco della popolazione aveva cominciato a calare. Tale inversione di tendenza sarebbe dovuta allo squilibrio tra crescita economica e rendita del capitale, responsabile di un aumento spontaneo dei grandi patrimoni, a discapito delle classi medie e basse, la cui inesorabile progressione minaccia sempre più i valori di giustizia sociale fondanti le società democratiche (questo grafico, tratto dal sito di Piketty, evidenzia chiaramente questa tendenza). Una tesi assolutamente sgradita da coloro che pensano che il capitalismo e l’inuguaglianza abbiano bisogno l’uno dell’altra.

Come afferma lo stesso economista francese sulle pagine del Financial Times, l’America ne è un esempio calzante. Un paese concepito come l’antitesi delle società patrimoniali della vecchia Europa. Alexis De Tocqueville, lo storico del 19° secolo, vedeva nel nuovo continente la terra delle opportunità e della democrazia, dove ogni cittadino era libero di prosperare e partecipare alla crescita del paese. Se fino alla prima guerra mondiale la concentrazione della ricchezza nelle mani dei ricchi negli Stati Uniti era essenzialmente più bassa rispetto all’Europa, tuttavia, nel 20° secolo la situazione si è invertita.

L’esempio più tangibile di tale processo, che possiamo definire ereditario, è rinvenibile nella crescita dei cosiddetti stipendi dei”super manager”. La remunerazione dei dirigenti, è diventata una norma sociale di stampo anglosassone che nulla ha a che fare con la meritocrazia. Secondo Piketty, i motivi principali di un siffatto ragionamento vanno ricercato nei tratti caratteriali umani: chi possiede ricchezza, non ha alcuna intenzione di condividerla con gli altri e quindi in una sorta di autodifesa indotta, fa di tutto per difendere i propri privilegi.

“Le preoccupazioni per l’eccessiva concentrazione dei redditi, ciò che avviene soprattutto, ma non solo, nei Paesi anglosassoni, sono assai diffuse, ma mai i dati che documentano il fenomeno sono stati esposti con tanta abbondanza e chiarezza, e mai i meccanismi economici e sociali che lo alimentano sono stati analizzati con tanto dettaglio in un singolo, grande libro”, scrive Michele Salvati sul corriere della sera. Nella visione di dell’economista francese, non esistono forze autogeneranti, interne al capitalismo stesso, che possano, soprattutto nel breve termine, contrastare tali tendenze, tendenze che alla lunga potrebbero al contrario generare squilibri, crisi e minacciare lo stesso processo di crescita del reddito complessivo e del benessere sociale.

In Gran Bretagna ad esempio è vero che l’1 % paga un terzo di tutte le imposte sul reddito, ma questa va a costituire solo il 25 % di tutte le entrate fiscali: il 45 % proviene da IVA, accise e assicurazione nazionale versate dalla massa della popolazione.

Di conseguenza, l’onere di pagare per beni e servizi pubblici cade sempre più sulle spalle dei contribuenti medi che non hanno i mezzi per sostenerli, rallentando il processo d’innovazione, la qualità della vita e dei servizi pubblici stessi. Nel frattempo le disuguaglianze aumentano, creando fratture incolmabili all’interno della società, dove i ricchi diventano sempre più ricchi. Proprio come nell’Europa del XX secolo, dove il processo di ammodernamento e riduzione delle disuguaglianze ha avuto inizio proprio in seguito alle grandi guerre, senza alcun intervento apposito, anche in questo caso, soltanto un evento straordinario potrebbe capovolgere la tendenza.

Mentre Cina e Russia, fanno fronte al problema delle oligarchie, grazie a strumenti come il controllo sui capitali e le carceri, le quali pareti possono ospitare anche gli oligarchi più ambiziosi, per paesi che preferiscono lo stato di diritto ed un ordine economico meno campanilistico e più internazionale, secondo Piketty, l’unico modo per ridurre le differenze, è rappresentato da una tassa globale sui grandi patrimoni, oltre che naturalmente, dalla reintroduzione di sistemi di tassazione altamente progressivi. Un siffatto risultato potrebbe essere raggiunto soltanto mediante una più stretta collaborazione tra Stati Uniti ed Unione Europea, i quali attualmente costituiscono circa un quarto della produzione mondiale, in tale direzione e mediante la creazione di un registro globale delle attività finanziare.

Naturalmente le decisioni appartengono ai governi, e questo rende le proposte di Piketty alquanto utopiche, come dice lo stesso economista francese però, “the task of economists is to make them more conceivable”.

 

 

4. Kemal Dervis: Il futuro del progresso economico

Il Sole 24 ore, 3 maggio 2014

 

WASHINGTON, DC – Lentamente, ma senza incertezze, il dibattito sulla natura della crescita economica sta entrando in una fase nuova. Le questioni che si presentano oggi sono abbastanza diverse da quelle degli ultimi decenni, al punto da lasciar percepire in modo chiaro uno spostamento nell’assetto concettuale che da adesso in poi impronterà il dibattito sul progresso economico e sulla politica economica. La prima questione, che riguarda il possibile ritmo della crescita economica futura, ha innescato un serio dissidio tra gli economisti. Robert Gordon della Northwestern University, per esempio, crede che l’economia statunitense sarà fortunata se raggiungerà a medio termine una crescita pro-capite annua dello 0,5 per cento. Altri, tra i quali Dani Rodrik in modo forse più prudente, hanno sviluppato una versione di pessimismo della crescita al riguardo delle economie emergenti. La loro premessa di fondo, comune a molti di questi analisti di spicco, è che il progresso tecnologico rallenterà, al pari delle corse a recuperare il distacco accumulato così importanti per i paesi emergenti e in via di sviluppo.

Il versante opposto dei «nuovi tecnologi» la pensa in modo completamente diverso: secondo costoro saremmo agli albori di una Quarta rivoluzione industriale, caratterizzata dalla comparsa di “macchine veramente intelligenti”, che diventeranno sostituti pressoché perfetti dei lavoratori a bassa e media qualificazione. Questi “robot” (alcuni dei quali in forma di software), come pure l'”Internet delle cose”, daranno il via a enormi aumenti della produttività in aree quali l’efficienza energetica, i trasporti (per esempio veicoli in grado di guidarsi da soli), l’assistenza medica e la personalizzazione della produzione in serie, grazie alle stampanti tridimensionali.

La seconda questione è quella della distribuzione del reddito. Nel suo libro diventato istantaneamente un successo, Thomas Piketty sostiene che le forze economiche principali stanno alimentando una crescita persistente degli utili come parte del reddito complessivo, con un tasso di rendimento sul capitale sistematicamente più alto del tasso di crescita dell’economia. Oltretutto, molti hanno fatto presente che se il capitale sta diventando un sostituto molto valido di tutto fuorché del lavoro altamente qualificato, tenuto conto che i sistemi dell’istruzione richiedono tempi lunghi di aggiustamento per fornire in grandi quantità figure aventi le nuove competenze richieste, le maggiori sperequazioni delle retribuzioni tra lavoratori altamente qualificati e tutti gli altri provocheranno un ulteriore grave peggioramento del divario.

Forse l’economia americana tra dieci anni diventerà tale per cui il 5 per cento più ricco della popolazione – i grandi proprietari di capitale, chi guadagna stipendi molto alti per le notevoli qualifiche che possiede, oltre ai cosiddetti “prendi-tutto”, gli attori finanziari sulla scena internazionale – si intascherà il 50 per cento del reddito nazionale (oggi questa percentuale è di poco inferiore al 40 per cento). Sebbene le situazioni nazionali differiscano ancora molto, i trend economici fondamentali sono globali. Saranno politicamente sostenibili?

La terza questione concerne gli effetti sull’occupazione di un processo accelerato di automazione. Come accadde nelle precedenti rivoluzioni industriali, gli esseri umani potrebbero essere affrancati di buona parte del lavoro “ripetitivo”. Potrebbe quindi non esserci più bisogno di cassieri, centralinisti, esattori del pedaggio, per esempio, e ci sarà sempre meno necessità di contabili, consulenti finanziari, agenti di viaggio, autisti e molte altre figure lavorative ancora. Se i “tecnologi” hanno ragione anche solo a metà, il Pil diventerà molto più alto. Perché dunque non dovremmo rallegrarci alla prospettiva di un carico di 25 o 30 ore lavorative settimanali e di due mesi di ferie l’anno, visto che le macchine intelligenti si occuperanno della produttività al nostro posto?

Perché, con tutti questi progressi tecnologici e con l’imminente aumento della produttività, così tanti continuano a sostenere che tutti dovrebbero lavorare di più e andare in pensione più tardi, se si vuole che le economie continuino a essere competitive? O sono soltanto i lavoratori più qualificati a dover lavorare di più e più a lungo, in quanto non sono in numero adeguato? In questo caso, forse, i lavoratori più anziani dovrebbero invece andare in pensione prima per fare spazio ai giovani, che hanno competenze più adatte al nuovo secolo. Se un cambiamento simile dovesse far aumentare il Pil complessivo, l’anticipo dell’età pensionabile potrebbe essere ripagato dai trasferimenti fiscali, mentre lo stesso pensionamento potrebbe diventare un processo flessibile e graduale. E infine c’è la questione del cambiamento del clima delle eventuali limitazioni connesse all’esaurimento delle risorse naturali, temi diventati più familiari nell’ultimo decennio. Questi fattori impediranno la crescita a lungo termine, oppure la transizione verso un’economia a energia pulita innescherà un’altra rivoluzione tecnologica, tale da poter aumentare davvero la prosperità?

A mano a mano che queste questioni diventano prioritarie nell’agenda della politica, diventa anche sempre più chiaro che l’attenzione tradizionalmente riservata alla crescita, definita come un aumento del Pil aggregato e calcolata utilizzando parametri nazionali inventati un secolo fa, è sempre meno utile. La natura e i rilevamenti del progresso economico dovrebbero includere un nuovo contratto sociale, che permetta alle società di gestire il potere della tecnologia così che essa sia davvero al servizio di tutti i cittadini. Lavorare, apprendere, godersi il tempo libero, restare in salute e “produttivi” dovrebbe costituire un continuum nelle nostre vite e la politica dovrebbe essere esplicitamente finalizzata a favorire tale continuum e ad aumentare il benessere misurato.

 

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5. Enrico Pedemonte: Chi è Thomas Piketty. Le idee della nuova star dell’economia mondiale spiegate bene

Pagina 99, 26 aprile 2014

 

Nel 2006, quando annunciò che avrebbe lasciato il 95% dei propri beni ad attività filantropiche, Warren Buffett definì i ricchi ereditieri “membri del club dello sperma fortunato” e affermò di “non credere nella ricchezza dinastica”, un modo come un altro per definire il carattere discriminatorio dell’eredità. Buffett era stato convinto da Bill Gates, fondatore di Microsoft (e oggi secondo al mondo nella classifica della ricchezza), a compiere il grande passo. Il 95% delle ricchezze di Gates e Buffett (secondo e terzo nella classifica della ricchezza di Forbes) ammonta a 115 miliardi di dollari una somma che equivale al Pil dell’Angola. Si dirà: gli eredi di Gates e Buffett (tre figli ciascuno) ne avranno comunque abbastanza per diverse generazioni. Ma i due capostipiti hanno avuto comunque il merito di avere segnalato all’opinione pubblica il ruolo dell’eredità come motore della crescente ineguaglianza che caratterizza le società avanzate.

Si tratta di un problema complesso che colpisce ciascuno di noi nel profondo, specie in Italia, dove l’eredità è santificata da una cultura iperfamilista. Chi non desidera lasciare ai propri figli le proprie ricchezze? Perché mai mettere in discussione questo “diritto naturale” a disporre delle ricchezze prodotte nel corso della vita? Sarebbe facile dimostrare che negli ultimi decenni l’ineguaglianza è cresciuta in modo iperbolico. Basta ricordare il dato fornito recentemente da Credit Suisse, secondo il quale oggi nel mondo 28 mila persone hanno una ricchezza superiore a cento milioni di dollari: quasi la metà vive negli Stati Uniti, un quarto in Europa e un altro quarto nel resto del mondo. Per capire la velocità con cui la ricchezza creata dalla società si trasferisce ai vertici della piramide basti osservare che nel 1970, negli Stati Uniti, l’uno per cento più ricco della popolazione controllava il 10 % del pil, oggi il 33%.

Spesso, quando gli economisti cercano di mostrare l’ineguaglianza crescente, si concentrano sul reddito dimenticando la ricchezza che è più difficile da calcolare. E invece, nel determinare le diseguaglianze sociali, il ruolo del patrimonio diventa sempre più importante, specie in una fase di crisi economica come quella che stiamo vivendo. Senza ricorrere a troppe statistiche, una prima spiegazione empirica è la seguente: in una fase storica in cui la crescita è bassa e scarsa è la produzione di nuova ricchezza, il ruolo dell’eredità assume un peso decisivo.

Thomas Piketty, un economista francese specializzato nello studio delle ineguaglianze, ha scritto un saggio lungo e ambizioso su questo tema: “Capital in the Twenty First Century”, ma la prima parola è scritta in lettere maiuscole, come fosse il Capitale di Marx aggiornato quasi due secoli dopo. E il problema dell’eredità, nell’opera di Piketty, assume un ruolo centrale, come se improvvisamente il pendolo della storia ci riportasse indietro nel tempo. Piketty usa le opere di Honoré de Balzac e Jane Austen come filo conduttore per descrivere la parabola economica degli ultimi due secoli. I due romanzieri vissero entrambi a cavallo tra Settecento e Ottocento (il primo in Francia, la seconda in Inghilterra) e crearono indimenticabili personaggi che, secondo la cultura dell’epoca, non prevedevano il lavoro come orizzonte della propria esistenza. Allora appariva scontato, almeno per l’uno per cento dei più ricchi, che la ricchezza non dovesse essere prodotta con il lavoro ma ereditata, sotto forma di patrimonio che generava rendite. Papà Goriot possedeva titoli di debito pubblico, Rastignac era un proprietario terriero mentre il John Dashwood di “Sense e Sensibility” (Ragione e sentimento) era un latifondista che si appropriò di quasi tutto il patrimonio familiare delle sorellastre Elinor e Marianne lasciando loro due piccole rendite ottenute da titoli di stato. Nel romanzo classico del XIX secolo la ricchezza è patrimoniale, e i ricchi vivono di rendita. Ci volle la rivoluzione industriale per dare uno scossone a quella società strutturalmente divisa in classi. E oggi?

L’inchiesta di Piketty si allarga a venti paesi (tra cui l’Italia) nell’arco di due secoli. E i risultati sono sorprendenti. Generalmente la ricchezza patrimoniale equivale all’80% della ricchezza totale di un paese. E siccome negli ultimi vent’anni i prezzi delle case sono cresciuti più dei redditi da lavoro, questo ha comportato uno spostamento di ricchezza verso le rendite. A livello internazionale l’aumento del prezzo delle case ha avuto una conseguenza rilevante. Nel corso della vita quelli nati negli anni Settanta, a causa degli alti prezzi, sono diventati proprietari in due terzi dei casi, assai meno rispetto a quelli nati venti e trent’anni anni prima (circa 75%).

Piketty sostiene che l’ineguaglianza, storicamente, dipende dalla differenza tra la reddività del capitale e il tasso di crescita economica. È ovvio che tanto più i profitti garantiti dal capitale (cioè le rendite) sono superiori alla crescita economica, tanto più la bilancia si inclina dalla parte della ricchezza. Viceversa, nei periodi storici di vivace crescita economica aumenta la ricchezza prodotta dal lavoro e dalla produzione e questo innesca meccanismi di maggiore uguaglianza sociale. Oggi una bassa crescita dell’economia mondiale sta generando un picco nell’ineguaglianza. E a questo si aggiunge un altro fenomeno ben visibile. Le classi privilegiate che assieme alle leve del potere controllano spesso anche la cultura collettiva, hanno innescato una battaglia per abbattere le tasse sull’eredità.

In realtà non è sempre stato così. Storicamente le guerre hanno provocato importanti fluttuazioni nell’ammontare dei patrimoni. Per esempio, nel XIX secolo in Francia il flusso della ricchezza ereditata rappresentava il 20-25% del prodotto interno lordo. Ma questa percentuale crollò al 5% in coincidenza delle due guerre mondiali. A provocare questo fenomeno furono la distruzione di milioni di case e dei mercati finanziari, e, in una certa misura, le leggi favorevoli al lavoro che seguirono il secondo conflitto. Ma rapidamente quelle percentuali si sono riavvicinate ai valori ottocenteschi. Almeno in Francia, nel Regno Unito e negli Stati Uniti. E certamente l’Italia non è da meno se è vero che il nostro paese ha il record mondiale di ricchezza incorporata in patrimoni, oltre l’80%. Si tratta di un altro sintomo che dovrebbe essere messo in rilievo per valutare le malattie croniche della società italiana, in primo luogo il suo immobilismo e la scarsa spinta verso l’innovazione. Se una parte eccessiva delle ricchezze è pietrificata nelle rendite, non c’è a stupirsi se l’attitudine al cambiamento è così scarsa. Papà Goriot insegna.

Piketty mostra che il benessere a lungo termine delle famiglie è sempre più spesso legato ai beni ereditati dalla famiglia e meno dal successo nel lavoro. Le sue statistiche ci dicono che i risparmiatori sono quelli che hanno goduto di un’eredità anche perché – banalmente – è assai più facile risparmiare se hai ereditato una casa e non devi pagare un affitto, mentre le persone che devono vivere del proprio stipendio senza avere una famiglia benestante alle spalle, con l’aumento del prezzo delle case degli ultimi decenni difficilmente possono diventare proprietari. Inoltre le persone che non ricevono un’eredità consistente, in una fase storica in cui le pensioni diventano sempre più risicate, hanno sempre più probabilità di vivere una vecchiaia stentata. Una società a bassa crescita è quindi di per sé una società statica, con una scarsa mobilità sociale tra le classi, dove i ricchi restano ricchi e i poveri sono fermi nei gradini bassi della scala sociale. Inoltre, non solo i ricchi si aspettano un’eredità pingue, ma tendono a sposarsi tra di loro creando una crescente concentrazione di ricchezza. E questo fenomeno viene amplificato dal calo demografico. Basta pensare al caso, non tanto limite, di due figli unici di famiglie benestanti. Se i due rampolli si sposano tra loro e mettono al mondo un figlio solo, questo si troverà un giorno a ereditare il patrimonio di quattro nonni, con una concentrazione di ricchezza formidabile.

Qualcuno potrebbe osservare: in fondo è sempre stato così. Verissimo. Il problema è la direzione di marcia delle nostre società. Ci siamo illusi di stare viaggiando verso un mondo in cui un numero crescente di persone aveva l’opportunità di crescere economicamente e salire la scala sociale, e invece la freccia del tempo si è invertita e ci riporta inesorabilmente verso la ricchezza dinastica. Oggi Papà Goriot legge il Financial Times sull’ipad, manda i figli a studiare finanza ad Harvard ma come ieri è concentrato sulle proprie rendite. Che fare per uscire da questo dilemma? La ricetta di Piketty è di una disarmante semplicità: più tasse ai ricchi. Già in passato, in una ricerca condotta assieme al Nobel Peter Diamond (del Mit di Boston) e Emmanuel Saez (University of California, Berkeley), aveva stabilito che le imposte alle fasce più abbienti dovrebbero oscillare tra il 45 e il 70%.

D’altra parte negli anni di Franklin Delano Roosevelt, quando l’ineguaglianza aveva toccato i suoi massimi storici e la crisi del 1929 aveva creato legioni di poveri, i ricchi erano tassati al 91 per cento. Una percentuale che lentamente diminuì, ma che fino agli anni Settanta, prima di Ronald Reagan, rimase comunque ben al di sopra del 50%. Piketty sostiene che oggi, con un’ineguaglianza sociale che è superiore rispetto agli anni del New Deal rooseveltiano e una concentrazione di ricchezza in salita, è necessario tornare a quelle ricette a partire da un aumento delle imposte sull’eredità.Piketty mostra con arguzia le ragioni storiche che hanno vanificato le previsioni apocalittiche di Marx: semplicemente il filosofo tedesco non aveva tenuto in debito conto la possibilità di una crescita impetuosa dell’economia e la diffusione della conoscenza. In altri termini, non aveva previsto la crescita di una classe media agiata e il conseguente allargamento del benessere. Ma la causa principale dell’ineguaglianza – la tendenza del ritorno del capitale a essere maggiore della crescita economica – resta in piedi. E in questi anni, con un capitalismo asfittico che non riesce a decollare dal pantano della stagnazione, le differenze sociali si allargano e i ricchi si aggiudicano una fetta di ricchezza sempre maggiore.

Ancora un dato per ribadire il concetto. Negli Stati Uniti il 67% degli ultraricchi (quelli dello 0,1%) deve il proprio inusuale benessere all’eredità. In Italia, paese debole in statistica, questi dati non esistono, ma è probabile che siano ancora più estremi visto che da noi la ricchezza è ancora più concentrata e la scala sociale è ancora più ripida. A questo punto è d’obbligo notare come le tasse sull’eredità siano diverse nei vari paesi. Qui ci addentriamo in questioni complesse che hanno a che fare con culture ataviche che nessuno vuole scoperchiare. Il fatto è che anche in questo caso l’Italia ha un record poco invidiabile.

Il paese che ha il massimo di ricchezza immobilizzato in rendite è anche il paese dove l’eredità è tassata di meno: una legge del 2006 prevede un prelievo massimo dell’8%, grasso che cola visto che Silvio Berlusconi, con una legge del 2001, l’aveva eliminato del tutto. Al contrario in Giappone, se l’eredità supera i tre milioni di dollari, la quota che va allo stato tocca il 50%, e persino nella patria del liberismo, gli Stati Uniti, per patrimoni sopra i cinque milioni si attesta al 40%.

Ma se esiste questo spread al contrario, perché i soloni di sinistra che tuonano per aumentare le imposte sul reddito dei ricchi (già a un livello record) non citano mai la necessità di tassare di più l’eredità, che in Italia è gravata in modo irrisorio? In fondo, nel primo caso di tratta di ricchezze guadagnate sul campo, e quindi in qualche modo “meritate”. Mentre non c’è alcun merito, direbbe Warren Buffett, nell’essere “figli dello sperma fortunato”. Una spiegazione c’è. In Italia, che si tratti di Landini o di Berlusconi, una cosa non cambia mai: la mamma è sempre la mamma.

 

 

6. Loretta Napoleoni: Tasse globali per redistribuire la ricchezza. La proposta di Piketty

Il fatto quotidiano 10 febbraio 2014

I liberisti americani si stanno preparando per l’uscita delle versione inglese de Il capitale nel XXI secolo, scritto dal professor Thomas Piketty e pubblicato in Francia pochi mesi fa. Piketty presenta una tesi interessantissima: il sistema economico capitalista, ma anche quello che lo ha preceduto, rema a favore delle diseguaglianze economiche. Al centro della sua tesi c’è il mercato, più questo funziona bene, e quindi più il meccanismo di scambio è perfetto, più crescono le diseguaglianze tra gli imprenditori, coloro cioè che posseggono il capitale, ed i lavoratori che ne sono privi. In effetti questo ragionamento è logico: più il mercato dei capitali è perfetto più alto sarà il guadagno di chi li possiede rispetto al tasso di crescita dell’economia. Nel libro questa affermazione è supportata da innumerevoli dati e serie storiche.

Per la prima volta dai tempi della supply side economics, abbiamo a disposizione una tesi antitetica che, con dati alla mano, ne dimostra l’assurdità. Ma la parte più interessante di questa nuova teoria è l’analisi delle politiche economiche legate all’illusione che il libero mercato e la bassa tassazione del capitale siano complementari al successo della democrazia. Nulla di più sbagliato infatti!

La crisi attuale delle democrazie occidentali è anche frutto di un sistema economico discriminante che ripropone una distribuzione dei redditi antica, arcaica e che blocca la mobilità sociale. Un sistema che è sempre esistito. Piketty non si sbilancia sui motivi di tutto ciò, ma si potrebbe ventilare l’ipotesi che a monte ci sia un tratto caratteriale umano: chi possiede ricchezza e potere non li vuole condividere e quindi fa di tutto per difendere i propri privilegi.

Il comportamento della classe politica e delle élite del denaro italiane negli ultimi 30 anni confermano questa affermazione, come l’avvalla l’acuirsi della sperequazione dei redditi e della ricchezza durante lo stesso periodo.

Unica eccezione nel corso dei secoli il periodo che va dal 1913 agli anni Settanta, anni in cui si sono verificati eventi eccezionali come due guerre mondiali, la grande depressione, l’iperinflazione tedesca ma anche l’ascesa del comunismo. Da una parte il capitale ne ha sofferto, si pensi solo al 1929 quando da un giorno all’altro intere fortune sono scomparse, dall’altra i partiti della sinistra storica hanno difeso gli interessi dei non privilegiati.

Dalla sperequazione dei redditi fino alla concentrazione della ricchezza nelle mani dei pochi, l’analisi delle serie storiche presentate (Piketty parte addirittura dall’anno mille) conferma come soltanto un sistema di tassazione mirante a tassare i ricchi molto di più dei meno ricchi sia in grado di riequilibrare il meccanismo economico. E sicuramente su questo punto si scateneranno le ire del mondo neo-liberista.

Naturalmente in un’economia aperta e globalizzata tassare pesantemente il capitale non funziona per il semplice motivo che questo si può muovere liberamente. Il professor Piketty propone infatti un sistema di tassazione globale. Concettualmente corretta in pratica questa è un’impresa quasi impossibile perché ci sarà sempre una nazione disponibile a fungere da paradiso fiscale per i super ricchi. Ma almeno costoro non potranno vivere liberamente dove viviamo noi, viene spontaneo pensare.

Il nocciolo della questione è politico, su questo nessuno può non essere d’accordo, e verte sul concetto di rappresentanza. Chi è alla guida delle nazioni a chi deve rispondere? Ecco una domanda alla quale, ahimè, nessuna teoria economica può dare risposta.

Piketty azzarda una previsione catastrofica se il problema delle diseguaglianze non viene risolto e cioè il ritorno delle tensioni sociali e forse anche della violenza politica nelle strade delle nostre città.

 

 

7. Anna Maria Merlo: Il secolo delle disuguaglianze

Sbilanciamoci, 20 settembre 2013

 

Il XXI secolo rischia di tornare al passato e di assomigliare al XIX, quando sposare un’ereditiera era più conveniente che lavorare. Il nuovo libro dell’economista Thomas Piketty

L’ex galeotto Vautrin, rivelando cinicamente allo studente spiantato Eugène de Rastignac i meccanismi sociali, gli aveva spiegato che era molto più conveniente sposare un’ereditiera che studiare e lavorare. Balzac scrive Le

Père Goriot nel 1835. Per tutto il XIX secolo e l’inizio del XX, fino alla Belle Epoque, questo suggerimento resta valido. Ai tempi di Proust, a Parigi viveva un ventesimo della popolazione francese, ma la capitale concentrava un quarto dei patrimoni del paese. La “prima mondializzazione” (1870-1914) ha accresciuto le diseguaglianze sociali. Poi le due guerre mondiali, le distruzioni materiali, l’inflazione e anche alcune scelte politiche hanno ridotto il peso dei patrimoni. Ma oggi, nell’epoca di un’altra mondializzazione, il XXI secolo rischia di tornare al passato e di assomigliare al XIX. È la tesi di un poderoso volume dal titolo ambizioso, Le capital au XXIe siècle, che l’economista Thomas Piketty pubblica da Seuil (969 pag., 25€). “All’inizio del XXI secolo l’eredità non è lontana dal ritrovare l’importanza che aveva all’epoca del Père Goriot” afferma Piketty. La spiegazione economica di questa minaccia è la seguente: “poiché il tasso di rendimento del capitale oltrepassa durevolmente il tasso di crescita della produzione e del reddito, situazione che è durata fino alla fine del XIX secolo e che rischia fortemente di tornare ad essere la norma nel XXI secolo, il capitalismo produce meccanicamente delle ineguaglianze insostenibili, arbitrarie, rimettendo radicalmente in causa i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”.

Piketty, basandosi su una considerevole massa di dati statistici (soprattutto di Francia, Gran Bretagna, Usa, ma anche dei paesi emergenti grazie alla World Top Incomes Database), analizza la questione della ripartizione delle ricchezze e, quindi, dell’ineguaglianza. Tra Marx, che aveva analizzato l’accumulazione del capitale che avrebbe condotto a una concentrazione in mano di pochi e Kuznets, che ottimisticamente credeva nelle forze equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico, che avrebbe dovuto portare spontaneamente alla riduzione delle ineguaglianze.

Gli spari dei poliziotti contro i minatori, a Marikana vicino a Johannesburg il 16 agosto 2012, che hanno fatto 34 morti tra i lavoratori che chiedevano un aumento di stipendio che la compagnia mineraria con sede a Londra non voleva concedere per poter versare maggiori dividendi agli azionisti, ci ricorda l’attualità dello scontro tra redditi da lavoro e redditi da capitale. A Heymarket Square, a Chicago, il 1° maggio 1886 c’erano state violenze analoghe. “Lo scontro tra capitale

e lavoro appartiene al passato oppure sarà una delle chiavi del XXI secolo?” si chiede Piketty.

La questione della ripartizione delle ricchezze è già al centro delle analisi dell’economia politica classica. Malthus, a fine ‘700, vede la minaccia nella sovrappopolazione. Ricardo si inquieta del prezzo della terra, bene raro, e dell’evoluzione della rendita fondiaria. Cinquant’anni dopo Ricardo, Marx analizza la dinamica del capitalismo in piena crescita. I dati statistici dicono che “una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista diaccumulazione permanente”. Storicamente, nei paesi europei industrializzati i salari cominciano a crescere, molto debolmente, solo nell’ultimo terzo del XIX secolo: ma “dal momento in cui il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono naturalmente un’importanza considerevole, potenzialmente smisurata e destabilizzatrice per le società”. L’happy-end prevista dalla curva a U di Simon Kuznets a metà del secolo scorso – le ineguaglianze di reddito destinate a diminuire nella fase avanzata dello sviluppo capitalistico – non ha luogo all’inizio del XXI secolo. Certo, c’è stata una forte riduzione delle ineguaglianze di reddito tra la prima guerra mondiale e la fine della seconda: negli Usa, per esempio, il 10% degli americani più ricchi concentrava ogni anno il 45- 50% del reddito nazionale negli anni ’10. Alla fine degli anni ’40, questa percentuale è caduta al 30-35% (oltre alle guerre e all’inflazione, un ruolo l’ha avuto anche l’imposta progressiva sul reddito, introdotta nel 1913 negli Usa, nel 1909 in Gran Bretagna, nel 1914 in Francia, nel 1922 in India, nel 1932 in Argentina). Ma dagli anni ’70-’80, la tendenza si è invertita. Dal secondo dopoguerra c’è stato il tempo per ricostruire i patrimoni e la svolta di Reagan, con l’abbassamento delle tasse, ha fatto il resto. Le ineguaglianze crescono: negli Usa, dimostra Piketty, “la concentrazione dei redditi ha ritrovato negli anni 2000-2010, o addirittura

leggermente oltrepassato, il livello record degli anni 1910-1920”. Negli anni 2000-2010 nei paesi ricchi è stato ritrovato il livello di capitalizzazione di Borsa (in proporzione alla produzione interna o al reddito nazionale) esistente a Parigi o a Londra negli anni 1900-1910. Oggi, il valore del capitale finanziario, immobiliare – cioè del capitale non umano – nei paesi ricchi è equivalente a sei anni di produzione e di reddito nazionale, un rapporto simile a quello che esisteva nel XIX secolo. Piketty si chiede: “il mondo del 2050 o 2100 sarà posseduto dai traders, dai super dirigenti e da chi controlla patrimoni importanti, oppure dai paesi petroliferi, o ancora dalla Banca di Cina, a meno che non siano i paradisi fiscali, che ospitano, in un modo o nell’altro, l’insieme

di questi attori?”. Per evitare questa deriva – sempre più accentuata dallo squilibrio tra tassi di crescita che non vanno più al di là dell’1-2% nel mondo ricco, di fronte a una rendita del capitale, finanziario e immobiliare, intorno al 4-5% – Pikeyy invoca scelte politiche, poiché “non esiste nessun processo naturale e spontaneo che permetta di evitare che le tendenze destabilizzatrici e che portano all’ineguaglianza con l’abbiano vinta durevolmente”. La principale fonte di convergenza dei redditi è la diffusione delle conoscenze e l’investimento nella scuola per tutti, sia all’interno di ogni paese che tra paesi. A questo Pikeyy suggerisce di aggiungere un’imposta mondiale progressiva sui redditi da capitale, perché l’eguaglianza formale dei diritti di fronte alla forza del mercato non è sufficiente per garantire una società più giusta. Ma la vicenda della Tassa sulle transazioni finanziarie, che avrebbe dovuto essere introdotta in nove paesi della Ue, ma che progressivamente è svuotata di ogni contenuto e di fatto abbandonata, ci dice che la battaglia sarà lunga e difficile, senza nessuna certezza di vincerla.

 


 

 

 

 

 



Category: Economia, Libri e librerie

About Thomas Piketty: Thomas Piketty è nato nel 1971 a Clichy, un sobborgo di Parigi. A 18 anni venne ammesso alla École Normale Supérieure (ENS) dove ha studiato matematica ed economia. A 22 anni Piketty conseguì il dottorato di ricerca con una tesi sulla redistribuzione del reddito scritta alla École des hautes études en sciences sociales alla London School of Economics sotto la supervisione di Roger Guesnerie. Ottenuto il dottorato, Piketty ha insegnato, dal 1993 al 1995, come assistant professor al Dipartimento di economia del Massachusetts Institute of Technology. Nel 1995, è entrato a far parte, come ricercatore, del Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) e nel 2000 è diventato direttore della École des hautes études en sciences sociales. Nel 2002, Piketty ha vinto il Prix du meilleur jeune économiste de France (Premio per il miglior giovane economista francese) e, secondo l'elenco fornito l'11 novembre 2003, è membro del comitato scientifico dell'associazione À gauche, en Europe, fondata dal Michel Rocard e Dominique Strauss-Kahn. Nel 2006 Piketty è diventato il primo preside della École d'économie de Paris che egli stesso ha contribuito a fondare. Ha lasciato dopo pochi mesi il ruolo di consigliere economico della candidata socialista alle elezioni presidenziali in Francia del 2007 Ségolène Royal.[ Piketty ha ripreso ad insegnare all' École d'économie de Paris nel 2007. Piketty è opinionista del quotidiano francese Libération e occasionalmente scrive per Le Monde. Nell'aprile del 2012, insieme a 42 colleghi, Piketty ha firmato una lettera aperta in sostegno di François Hollande, candidato socialista alle elezioni presidenziali francesi[8], che risultò poi vincente, nel maggio successivo, contro il presidente della Repubblica in carica, Nicolas Sarkozy. In seguito si è però espresso in termini bruscamente critici nei confronti del presidente Hollande, che ha accusato di aver ignorato le sue stesse promesse elettorali circa una profonda riforma fiscale, e le cui politiche fiscali ed economiche ha definito attinte da un grado di improvvisazione sconfortante. Nel gennaio 2015 è stato insignito della Legion d'onore, ma ha rifiutato l'onorificenza affermando che non è nel ruolo di un governo decidere chi debba essere onorato]; I suoi studi si focalizzano sui temi delle disuguaglianze di reddito e ricchezza. Dirige la École des hautes études en sciences sociales (EHESS) ed è professore alla École d'économie de Paris. E' stato tradotto in Italia il suo libro Il capitale nel XXI secolo

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