Massimo Canella: Il bene culturale. I necessari cambiamenti alla sua normativa

| 4 Luglio 2014 | Comments (0)

 

 

 

Diffondiamo da “Inchiesta” 184 aprile-giugno 2014. Una precedente versione era uscita on line il 17 aprile 2014

 

1. I nomi e le cose

Malgrado il vecchio motto: “nomina sunt consequentia rerum”, mi sembra diffusa l’opinione che ciò che chiamiamo “cose” piuttosto emergano dall’indifferenziato, siano costituite, dai nomi che le società umane istituiscono. Le stesse parole peraltro denominano cose o concetti diversi, all’interno della stessa lingua, secondo le qualificazioni che vi vengono apposte e il contesto in cui vengono pronunciate: relazionale, disciplinare, normativo. Ciò rende particolarmente delicato il loro uso quando si affrontano argomenti che richiedono un approccio multidisciplinare e postulano la costruzione di percorsi interdisciplinari.

Un tema che presenta certamente queste caratteristiche è quello della tutela del patrimonio storico e artistico in vista della sua fruizione pubblica, che l’articolo 9 della nostra savia Costituzione ha indicato fra i compiti primari della Repubblica. Il problema si pone sia sul piano dei linguaggi delle professioni culturali, sia sul piano dell’individuazione univoca dei concetti giuridici.

In un recente intervento Dorit Raines ha sintetizzato in modo molto efficace le vicende che han portato in età moderna alla separazione progressiva di biblioteconomia, museologia e archivistica e alla nascita di svariati terreni liminari di reciproca incomprensione, accentuata dalla frequente presenza di materiali eterogenei all’interno di istituti con una vocazione principale ben definita. (1) La difficoltà e insieme la necessità di trovare linguaggi condivisi ma non confusi, per il rispetto dovuto alla ineliminabile differenziazione delle funzioni, sono state ingigantite dall’irruzione dell’informatica, che ha fatto in un certo senso sembrar facile e facilmente fruibile l’integrazione delle basi di dati e ha indotto pertanto a svilupparne i legami di contenuto; ciò ha anche aperto nuovi fonti di costruttivo confronto con gli informatici, peraltro piuttosto avvezzi all’analisi dell’eterogeneità dei linguaggi (2), e ha portato allo sviluppo di specializzazioni realmente interdisciplinari nei campi del digitale e della multimedialità. Le stesse discipline d’origine, peraltro, tendono a differenziare i linguaggi in funzione delle diverse mission degli istituti: si va da biblioteche che conservano con acribia ogni memoria del nostro passato ad altre che cercano di inseguire gli interessi dei cittadini da convertire o recuperare alla pubblica lettura; si va da musei che continuano a celebrare i fasti passati della città o dello Stato conservandone ed esponendone le creazioni migliori ad altri che perseguono fini di informazione, educazione e diletto anche solamente mediante mezzi virtuali. Ciò comporta la necessità di strategie diverse, obiettivamente complementari ma elaborate entro ordini di idee distinti.

Su un altro piano, tutto ciò dovrebbe essere in qualche modo ricondotto a un numero limitato di concetti giuridici chiari e ben concatenati, tali da consentire l’amministrazione ordinata del patrimonio secondo i principi di sussidiarietà (3) e ad indirizzare e rendere attuabili le scelte della politica. La materia è però tale, per complessità e per dinamicità, da aver reso piuttosto vivace la disputa dottrinale, a monte e a valle del dato normativo, e a rendere rapidamente obsoleti, o per lo meno incompleti, i tentativi di cristallizzarla legislativamente. Data poi la crescente complessità della nostra organizzazione sociale, occorre far convivere norme ugualmente efficaci ma originate da ordinamenti diversi: questo nostro repubblicano; quello comunitario; per certi versi quello canonico (4); ordinamenti di diritto internazionale come quelli dell’UNESCO o dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il cui linguaggio riflette talvolta culture abbastanza diverse dalla nostra. Esiste poi la contiguità, a volte la sovrapposizione operativa, con sistemi normativi con funzioni molto diverse da quelle della tutela del patrimonio culturale, relativi alla proprietà intellettuale piuttosto che all’amministrazione digitale.

 

2. La “coseità” del bene culturale

Cosa vada chiamato “patrimonio culturale” in Italia è attualmente stabilito dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (5): esso è formato dall’insieme dei beni paesaggistici e dei beni culturali (6). Non dobbiamo dimenticare che un codice ha il fine di dettare norme, cioè proposizioni “la cui funzione non è quella di descrivere o di raccontare, ma è quella di prescrivere un comportamento” (7): le definizioni e le descrizioni, pur quando sono esiti magari parzialmente innovativi di discussioni ed elaborazioni proprie di discipline extragiuridiche, vi han titolo per essere presenti in quanto funzionali alla focalizzazione di ciò che è vietato, permesso, imposto o incoraggiato. I “beni culturali” di cui il nostro codice si occupa, e quindi definisce come tali a fini operativi, sono quelli di cui può e intende regolamentare la protezione, la manutenzione, la conservazione, la circolazione interna e internazionale quando si tratta di beni mobili, i modi di fruizione pubblica e le attività di valorizzazione (8). Nella loro definizione pertanto rientrano tutte le realtà che la legge o provvedimenti adottati in base alla legge possono individuare come “testimonianze aventi valore di civiltà”, secondo l’espressione che risale alla commissione Franceschini del 1964 – ma solo a condizione che esse possano essere considerate “cose”. La relazione illustrativa al Codice non lascia dubbi sul fatto che vi si faccia riferimento alla nozione, restrittiva rispetto all’uso corrente e non unanimemente condivisa in dottrina, di “cosa” del nostro diritto civile, cioè di realtà appartenente al mondo della materia – ora non più necessariamente tangibile, qua digito tetigere possumus, ma comunque empiricamente verificabile e quantificabile (9): ed è per tali cose, e non per altre espressioni dello spirito umano, che gli articoli del Codice sono stati pensati. Non sarebbe di conseguenza congruo lamentare la mancata inclusione nella definizione di beni giuridici “immateriali” a forte valenza culturale, che esistono e vanno salvaguardati sì, ma con modalità e strumenti diversi. Piuttosto bisogna vedere se a tutte le “cose” indicate dal Codice sia razionale attribuire la qualifica di bene culturale con tutti gli obblighi che essa comporta. Essa si addice pienamente, ad esempio, ai beni con caratteri di singolarità, come sono tuttora di norma i beni artistici, come gli antichi codici; ai beni parti integranti di collezioni singolari, sopravvissute fisicamente o ricostruite virtualmente; agli esemplari di opere riprodotte rari o forieri di informazioni aggiuntive culturalmente rilevanti; ai beni che testimonino, nella loro unicità o perché fortemente esemplificativi, eventi storici o particolari aspetti della vita sociale, produttiva e culturale; certamente alla documentazione archivistica. Meno razionale appare il riconoscimento ipso iure della culturalità alle raccolte delle biblioteche pubbliche di pubblica lettura, collegata automaticamente alla loro demanialità ai sensi degli articoli 822 e seguenti del Codice Civile : sarebbe più coerente con la realtà del loro funzionamento, basato sul rinnovamento periodico (10), ipotizzare piuttosto un’autorizzazione di soprintendenza allo scarto, specificamente regolamentata – secondo gli stessi principi per cui agli altri beni pubblici o di enti senza fini di lucro con “fumus” di culturalità viene applicata cautelativamente la normativa di tutela nell’attesa dell’effettuazione di un procedimento di “verifica”, che può teoricamente concludersi anche con il riconoscimento della non rilevanza culturale. La mancanza di un indirizzo chiaro in merito induce nella pratica a comportamenti anche opposti: dal feticismo, che la legge sembra in effetti suggerire, rispetto a ogni ennesima copia di qualche romanzo pubblicato negli Oscar della Mondadori, fino a un disattendimento distratto delle previsioni codicistiche che pone a rischio anche prodotti librari che meriterebbero di essere considerati testimonianze aventi valore di civiltà, ad es. per l’inerenza alla cultura locale piuttosto che alla ricchissima produzione scientifica dell’Ottocento e del Novecento, o per la riconducibilità a biblioteche d’autore, archivi di persona o collezioni donati con la condizione modale della loro integrità. Si tratta delle conseguenze di un’incomprensione della diversità delle funzioni di una biblioteca di pubblica lettura rispetto a quelle di una biblioteca di conservazione, spesso esercitate peraltro da uno stesso istituto, che è necessario mettere a fuoco e risolvere normativamente.

Si è detto che i beni culturali nel nostro attuale ordinamento sono cose individuate dalla legge o in base alla legge (cioè mediante procedimenti amministrativi che la legge prevede e regola). Dall’insistenza sugli stessi beni di questa disciplina speciale e delle norme generali sulla proprietà e sul possesso, il cui pieno godimento la prima inevitabilmente limita, sono nate fra i giuristi ipotesi dottrinali divergenti, che presentano un indubbio interesse culturale e politico. Ne ricordo, un po’ liberamente, due. Taluno, attento principalmente ai beni di proprietà non pubblica, li vede, così come ci appaiono nella loro esclusiva accidentalità senza sub stantia, oggetto di interesse pubblico costituzionalmente protetto, per il loro contenuto testuale espresso con segni o mediante il modellamento della materia, e pertanto oggetto di una normativa specifica che interagisce con quella privatistica affievolendo, si sarebbe detto una volta, i diritti dominicali del proprietario ed imponendogli doveri particolari: certo con peculiarità forti, come la persistenza dell’interesse culturale, una volta dichiarato, attraverso i passaggi di proprietà (11). Tale interesse esiste naturalmente anche per i beni di proprietà pubblica, che possono essere utilizzati per altre finalità pubbliche solo se queste sono compatibili col rispetto della normativa di tutela. La principale debolezza pratica di questa lineare interpretazione consiste nel varco che alcuni ritengono potersi aprire a contenziosi risarcitori da parte dei proprietari privati di beni dichiarati. Condivisibili motivi etici hanno pertanto concorso con l’intuizione dell’apertura di nuovi scenari nell’ ispirare chi, rifacendosi alla distinzione dottrinale fra “cose” e “beni in senso giuridico”, ha ravvisato la compresenza nella stessa cosa di due beni giuridici inscindibili: uno consiste nell’essere “elemento materiale di interessi di natura patrimoniale”, e l’altro nell’essere “elemento materiale di interessi di natura immateriale pubblica”, che si identificano col “valore culturale” dato dall’essere il bene “testimonianza avente valore di civiltà” (12) – o comunque ha ritenuto che “la cosa dovrebbe possedere già intrinsecamente un interesse (…) a prescindere dalla declaratoria. Questa e il relativo procedimento non servirebbero, dunque, a costituire in capo al bene l’interesse, bensì a rendere gli altri partecipi dell’esistenza dello stesso” (13). Personalmente mi sembra in ogni caso poco controvertibile che il concetto di importanza culturale e la sua valutazione, sia da parte del legislatore per intere tipologie, sia da parte del soprintendente nei casi in cui la legge gli demanda l’apprezzamento della rilevanza, comportino, sulla base degli accertamenti di fatto, un giudizio non di discrezionalità amministrativa o tecnica, ma di valore o di merito, i cui parametri di riferimento a di là del dato soggettivo varieranno continuamente nel tempo (14). Va anche tenuto presente che molti beni possiedono transitoriamente status intermedi, in quanto hanno i requisiti tipologici di base indicati dalla legge per la dichiarazione, e per questo sono oggetto di stringenti cautele preventive, ma non hanno ancora la “certazione” della loro eventuale apprezzabile importanza per i fini di legge: i beni pubblici o di enti senza fine di lucro da sottoporre a verifica p. es., o quelli privati che devono essere sottoposti ai controlli per la circolazione e l’esportazione. E va anche ricordato che l’accesso alla qualità di bene culturale è per lo più collegata dalla legge ad un elemento estrinseco come il decorso del tempo.

 

3. L’instabilità dei valori discreti

L’elaborazione dell’impianto concettuale del Codice sembra non aver risentito di preoccupazioni eccessive per il contemporaneo passaggio epocale dalle grandezze analogiche ai valori discreti – dalle “cose” alle sequenze numeriche – anche se mantiene e manterrà una validità nel suo ambito, cioè fino a quando ci saranno cose – fino alla fine del mondo. Molti fenomeni culturali di primaria importanza che avvengono oggi non sembrano rientrare agevolmente nelle sue categorie. Finché si è trattato dell’informatizzazione di cataloghi e inventari, l’unica vera preoccupazione dal punto di vista conservativo è consistita nella formazione di chi avrebbe potuto non cogliere il rilevante interesse culturale e pratico della conservazione dei vecchi cataloghi. I prodotti informatici “off line” avevano ancora tutte le caratteristiche teoriche e pratiche della “cosa”, ma han portato per primi alla ribalta il problema della rapidissima obsolescenza di quella loro componente vuoi materiale, vuoi immateriale che sono i programmi (15): abbiamo già nelle nostre raccolte beni culturali illeggibili coi mezzi normalmente disponibili; sarebbe poi grave se questo avvenisse anche per le forme di videoarte, di documentazione di performance etc. in cui risiede gran parte della possibilità di conservazione della memoria dell’arte contemporanea. Problemi simili si porranno per le digitalizzazioni effettuate con procedure simili a quelle fotografiche per finalità informative, sempre meritorie, o di precauzione conservativa, a volte enfatizzata a discapito delle pratiche di conservazione reale in presenza di budget in rapido decremento (16): questione che riguarda comunque la congruità delle scelte di investimento e non il tema della tutela in senso stretto dei beni, perché l’integrità delle riproduzioni per finalità di protezione o fruizione non andrà tutelata a sua volta. I problemi più ardui, anche per la sistematica dei beni culturali che certo non costituisce il primo dei problemi, li pone il digitale archivistico ed editoriale.

Ricordiamo che per il combinato disposto di discipline diverse ogni documento archivistico pubblico, oltre a quelli privati “dichiarati”, va considerato bene culturale fin dalla sua creazione – anche se poi ne viene regolato lo scarto e viene posto l’obbligo di inventariazione solo per gli archivi storici. Chi ne sa è netto nell’asserire che non è ipotizzabile la conservazione a tempo indefinito di un documento informatico nella sua materialità originaria: “la conservazione a lungo termine deve affrontare il nodo critico del mantenimento del flusso di bit originario a fronte del fatto che i prodotti software e hardware non sono in grado di ‘persistere’ e che la loro conversione (sia in forma di copiatura o di migrazione) è inevitabile” (17). Nel momento in cui si autorizza la produzione di documenti nativamente digitali o una conservazione di copie digitali sostitutiva dei documenti cartacei originali, pertanto, si rinuncia al requisito della materialità (da non confondere con una inalterabilità impossibile per i processi fisici spontanei e per gli inevitabili eventi accidentali e interventi conservativi) cui il Codice sembra aver avuto mente: ciò ha conseguenze pratiche che vanno oltre le problematiche della conservazione della memoria culturale (18). Probabilmente esso va sostituito dal criterio archivistico della “autenticità”, garantita dall’identificazione univoca e dall’integrità dei documenti, che presuppongono la conservazione permanente anche delle relazioni contestuali: ciò assicura un grande futuro a un ramo disciplinare intellettualmente stimolante, dagli alti costi e dagli esiti non assicurati, ma che risponde a una necessità sociale primaria. Forse sottovalutata, certo ben ardua da realizzare è la connessa riorganizzazione del sistema archivistico sul territorio, dato che la memoria digitale non può essere gestita al livello dei singoli enti od uffici. Sono stato testimone della fervida ideazione di un Sistema Archivistico Nazionale, ispirato mutatis mutandis all’esperienza di eccellenza del Servizio Bibliotecario Nazionale. Seguiti poi ci son stati, per ora non direi di sistema: ma ci sono segnali di una ripresa di interesse da parte delle istituzioni, che fanno ben sperare.

Per quanto riguarda web e-book o riviste on line poi, risorse comunque accessibili e inseribili nei cataloghi degli istituti, quando non originano dagli stessi istituti ovviamente non fan parte del loro patrimonio: si tratta di beni che risiedono nei server consultati. Per gli “originali” per ora si sperimentano forme di salvaguardia non connesse col Codice, con ottimi risultati p. es. nel campo della sperimentazione del deposito legale ex lege 15/2004 (19). E’ una situazione in rapida evoluzione, che non escludo possa indurre a pensare di riconoscere, fra le componenti del patrimonio culturale, un tertium genus distinto da beni culturali materiali e paesaggio e caratterizzabile come “documenti digitali” (20), nozione cui ai fini conservativi probabilmente potranno essere assimilati i prodotti dell’editoria elettronica, pur nell’ovvia assoluta diversità della loro funzione rispetto a quella dei documenti amministrativi (21).

 

4. L’eredità culturale

L’avvento della stampa a caratteri mobili, e di conseguenza della riproducibilità tecnica dei beni, ha fatto emergere in primo piano fin dal primo Cinquecento il problema della tutela dei diritti degli autori, e per gli aspetti economici anche dei loro editori, sull’utilizzazione e sull’integrità dei testi da essi creati. Il progressivo sviluppo, anche al livello internazionale, di un sistema dottrinale e normativo imponente volto alla salvaguardia di tali diritti – la così detta proprietà intellettuale – ha conferito una crucialità anche giuridica al patrimonio di “beni immateriali” costituito dalle espressioni della creatività umana mediante linguaggi letterari e musicali o immagini: nei beni che le contengono sono stati individuati un corpus mechanicum, soggetto alle regole del diritto comune, e un corpus mysticum assoggettato a una normativa speciale. La problematica della proprietà intellettuale, con cui nella pratica i professionisti della cultura devono sempre più confrontarsi, attiene però all’ambito della regolazione dei rapporti coi privati. Nel campo del patrimonio culturale rileva invece, ove affermato, l’interesse pubblico all’integrità e al tramandamento dei contenuti. Essi comunque non sono “cose” in sè; assumendo la funzione di testi, costituiscono spesso una componente essenziale del bene materiale, decisiva per il riconoscimento della sua culturalità – così come per un altro verso possono essere eseguiti, rappresentati o recitati, naturalmente possono essere studiati, ed essere quindi oggetto di “attività culturali”, che il Codice prende in considerazione quando sono configurabili come attività di valorizzazione dei beni, ma considera per il resto esterne al perimetro entro cui è in grado di esercitare la propria azione (22).

Nel nostro paese vengono rispettate anche norme provenienti in prima istanza da ordinamenti giuridici di diritto internazionale, in cui i termini non hanno sempre lo stesso significato che nel nostro. Le sue fonti di produzione giuridica sono la consuetudine (es. l’immunità per gli ambasciatori e le loro famiglie), gli accordi e i trattati internazionali e anche gli atti delle OIG (Organizzazioni Internazionali Governative) nei casi in cui i loro trattati istitutivi lo prevedano: questi atti delle OIG possono essere vincolanti come nel caso dei regolamenti e delle direttive dell’Unione Europea (hard law), oppure non vincolanti (soft law), anche se non privi di conseguenze, e di sanzioni in caso di inosservanza, nell’ambito dell’ordinamento della OIG. Quest’ultimo è il caso degli atti adottati ai sensi delle più note convenzioni sottoscritte dall’Italia a Parigi nel quadro dell’UNESCO: il 16 novembre 1972 per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale, il 17 ottobre 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e il 20 ottobre 2005 sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali. Ciò che differenzia le nozioni di cultural heritage che esse esprimono da quella di patrimonio storicamente invalsa in Italia è un’attenzione accordata ai significati e ai contesti rispetto a quella riservata alla conservazione filologicamente corretta dei singoli beni rientranti in tipologie prefissate. Tale differenza ha molto pesato sul dibattito italiano sul paesaggio e sui beni culturali, fra l’altro elasticizzando notevolmente la nozione di questi, ora aperta a ogni nuovo sviluppo suggerito dall’evoluzione di ogni scienza; non ha potuto peraltro incidere molto su una normativa tecnica orientata anzi tutto verso la conservation dei beni, che in Italia sono così tanti e così preziosi, e poi verso la loro adeguata e compatibile fruizione pubblica. Così è per il sistema dei siti UNESCO “di eccezionale valore universale”, creato dalla convenzione del 1972 sulla scia dell’eco mondiale di casi come quelli di Abu Simbel e di Venezia: scelti fra “opere dell’uomo o opere coniugate dell’uomo e della natura, come anche le zone, compresi i siti archeologici, di valore universale eccezionale dall’aspetto storico ed estetico, etnologico o antropologico” – quindi spesso con valenze urbanistiche e paesaggistiche – essi vengono garantiti quasi esclusivamente dalle norme di soft law proprie di quella organizzazione internazionale, peraltro molto autorevoli e rispettate e quindi influenti sulle scelte di pianificazione territoriale e di qualificazione culturale dei beni (23). Così è anche per la tutela, individuata dalla convenzione del 2003, del patrimonio immateriale (termine a mio avviso preferibile in italiano all’espressione “intangibile”, perché come abbiamo visto nel nostro ordinamento esistono anche “cose” intangibili come le energie): essa, riflettendo gli interessi dei Paesi non occidentali ma venendo incontro anche a esigenze proprie della nostra cultura, non concerne la tradizione scritta ma “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale: il Codice non può occuparsene se non per quanto riguarda le “cose” espressioni degli elementi indicati nell’apposita lista UNESCO, indice indubbio di rilevanza culturale (24).

Entra ora nel nostro ordinamento una nozione forse in grado di fungere da cornice unitaria, condivisa a livello europeo e internazionale, cui poter fare riferimento per le azioni a favore della cultura, senza che per questo diventi necessario, e neppure opportuno come si dirà, modificare la prima parte del Codice. A fianco della sua definizione di “patrimonio culturale”, infatti, disponiamo ora di quella di “eredità culturale” proposta con la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, detta “di Faro”, firmata a Strasburgo dall’Italia il 27 febbraio 2013: “il cultural heritage è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi.” Credo che heritage venga ben tradotto con “eredità”, dato che nel nostro ordinamento “patrimonio” è parola già occupata da un altro significato – e che comunque sembra generale nel mondo culturale il consenso per il passaggio, a livello di summum genus, dalla nozione di “patrimonio”, da conservare come un bene di famiglia o da valorizzare come un cespite, a quella di “eredità” come trasmissione, tramandamento, tradizione e anche tradimento, nel senso di innovazione anche a fini conservativi, delle cose e delle parole che abitiamo e che ci abitano. La convenzione afferma la supremazia delle persone sulle “cose”, articola in modo convincente un discorso di orizzonte sui diritti culturali, supera la distinzione fra memorie del passato e attività del presente e consente anche di favorire il recupero di molti aspetti di cultura anche materiale mantenibili o ravvivabili solo mediante l’azione di una “comunità di eredità”, definita come “insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future” (25). Va detto anche, per completezza, che alcuni hanno osservato che il principio qui affermato, di una forte considerazione dell’opinione o del “sentire” delle popolazioni, se applicato senza la matura consapevolezza che la convenzione presuppone, espone i beni culturali meno alla moda a una serie di pericoli potenziali, del tipo di quelli in cui si incorre quando si sottopongono a scrutinio variabile i valori che fondano una società, più che essere fondati da essa, e che non necessariamente sono popolari hic et nunc. Sono stati segnalati: il rischio, in certi contesti, di una “strumentalizzazione politico-nazionalistica del patrimonio” (ricordiamo peraltro che la convenzione è stata approvata anche sull’onda delle “pulizie” distruttive delle ultime guerre balcaniche, e quindi dell’esigenza obiettiva della tutela di comunità di eredità a base etnico-religiosa); il rischio di incoraggiare “invenzioni della tradizione” attraverso recuperi svisanti di tradizioni storicamente superate, con effetti distorsivi sui piani culturale e politico (26); il rischio che sottolineare la peraltro indiscutibile necessità di una integrazione fra le politiche di sviluppo e quelle di salvaguardia possa creare le condizioni per far cadere la primazia di tipo costituzionale che l’attuale sistema accorda alle seconde; il rischio di una spinta alla relativizzazione o alla dissoluzione dei concetti che consentono l’esercizio delle attuali funzioni pubbliche sui beni tradizionalmente intesi (27). Credo che il modo migliore per evitare questi rischi consista proprio nel mantenimento e in una applicazione adeguatamente creativa, espressiva di leadership, della normativa esistente sul “patrimonio culturale”, sfruttando sia le illimitate potenzialità degli istituti della cultura, sia quelle del coordinamento con la pianificazione paesaggistica, sia le possibilità offerte da norme come quelle sulle espressioni materiali del patrimonio immateriale, sui locali storici, sugli studi d’artista… In questa prospettiva le azioni previste dal Codice potranno essere riconosciute da tutti come un’articolazione sinergica della più ampia e generale attività che siamo chiamati a esercitare per difendere e consentire lo sviluppo della nostra “eredità culturale”: nazionale, europea e a questo punto, per essere realistici, mondiale.

 

 

 

 


 

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NOTE

1) D. Raines, “Cultural heritage” o beni culturali – la formazione degli operatori in Italia e all’estero. Esperienze a confronto, in Ricomincio da tre! Costruire la rete dei servizi culturali. Atti della Giornata regionale per i Musei, gli Archivi e le Biblioteche del Veneto. 15 aprile 2013 Fondazione Scientifica Querini Stampalia Onlus, Venezia, Venezia 2014, pp. 49 – 74

2) “A seconda della tipologia delle risorse culturali, di volta in volta di specifico interesse, il processo d’ideazione di un nuovo modello di gestione dell’informazione deve svilupparsi da una collaborazione effettiva che si deve instaurare fra gli esperti dello specifico dominio del patrimonio culturale e gli esperti informatici di sistemi di elaborazione delle informazioni. Infatti (…) solo in un rapporto sinergico di elaborazione di nuove soluzioni metodologiche gli esperti dei due settori possono prendere in considerazione i requisiti funzionali e di gestione dell’informazione degli addetti del dominio e ideare insieme nuovi metodi e nuove soluzioni.” M. Agosti, La comunicazione e la mediazione informatica dell’archivio, in Memoria e innovazione. Nuovi strumenti / Nuove esigenze. Atti della Prima giornata regionale degli Archivi Venezia, Sale monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana 25 novembre 2011, Venezia 2012, pp. 47-48

3) “Il nuovo Titolo V della Costituzione (…) tende a realizzare sia il decentramento degli interventi (“sussidiarietà verticale”) ai poteri locali sia l’affidamento ai privati delle attività di gestione (sussidiarietà orizzontale)”. D. Cosi, Diritto dei beni e delle attività culturali, Roma 2012, p. 244

4) Come è noto ai sensi dell’art. 7 della Costituzione “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Di conseguenza ad esempio la “Intesa relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche”, firmata in data 26 gennaio 2005, è stata promulgata dal Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Camillo Ruini con decreto prot. 88/05 del 31 gennaio, in vista del suo recepimento nell’ordinamento canonico (cioè della Chiesa universale, non dello stato della Città del Vaticano), mentre il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, con DPR n. 78 del 4 febbraio, vi ha dato esecuzione nella forma impiegata per l’attuazione degli impegni internazionali dell’Italia

5) D. Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004: “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, emanato ai sensi dell’articolo 10 della legge n. 137 del 6 luglio 2002 e modificato dai D. Lgs. 24 marzo 2006, n. 156 e D. Lgs. 24 marzo 2006, n. 157 nonché per quanto riguarda il paesaggio dai D. Lgs. 26 marzo 2008, n. 62 e D. Lgs. 26 marzo 2008, n. 63

6) Secondo alcuni la categoria di patrimonio culturale del Codice, “ricollegata all’art. 9, 2 c. della Costituzione (…) ha solo valenza per c. d. sistematica verbale nel nuovo Codice (…) per includere, ad un tempo, in uno stesso testo normativo e in una stessa area funzionale della pubblica amministrazione “beni culturali” e “beni paesaggistici”, e per nomenclare analogamente le funzioni amministrative” (D. Cosi, op. cit., p. 180). Ciò comunque coesiste con la volontà di un adeguamento allo “svilupparsi di una sensibilità nuova, a livello europeo, circa il legame che unisce paesaggio naturale antropizzato e patrimonio culturale” (L. Zagato con M. Giampieretti, Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale. Parte I Protezione e salvaguardia, Venezia 2011, p, 84): sensibilità che ha condotto nel primo decennio del nuovo secolo alla formulazione di categorie ancora più ampie e in effetti più raffinatamente fondate, anche se forse non del tutto sostitutive di quelle ora utilizzate

7) P. Zatti, Diritto privato. Corso istituzionale, Padova 2010, p. 1

8) “Si attagliano solo a cose materiali (…) la dichiarazione, l’immodificabilità non autorizzata, la prelazione, l’espropriazione, i limiti all’esportazione, la tutela penale, ecc. (..) rapporto all’immaterialità dei beni, a interessi diversi da quello di proprietà materiale (..) non va bene per incongruenza la disciplina del Codice” ( G. Severini, Immaterialità dei beni culturali?, nella benemerita Aedon. Rivista di arte e cultura on line, quadrimestrale a cura di Marco Cammelli, 1/2014)

9) “…conferma della necessaria correlazione tra bene culturale e ‘coseità’ (materialità) del medesimo.” (M. Cammelli in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Commento al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche. A cura di Marco Cammelli con il coordinamento di Carla Barbati Girolamo Sciullo, Bologna 2004, p. 36)

10) Vedi in merito le informazioni e le considerazioni di Emanuela Ravaioli, Cecilia Cognigni, Fausto Rosa in Cooperare in biblioteca: esempi e prospettive. Atti della VIII Giornata delle Biblioteche del Veneto. Treviso, Biblioteca del Seminario Vescovile, 24 novembre 2006, Venezia 2007, pp. 113 – 146; vedi anche M. Colpo, L’autorizzazione allo scarto, in Collezioni librarie pubbliche e private, amteriali di lavoro. Atti della XIII Giornata dele Biblioteche del Veneto. Rovigo, Accademia dei Concordi, 20 ottobre 2011, pp. 39-44. Van comunque tenute in considerazione le motivazioni di chi, giustamente preoccupato per la conservazione della memoria contemporanea, ritiene che si debba conservare “proprio tutto, democraticamente tutto, senza gerarchie, senza pulizie etnico-archivistiche” (A. Stella, Colligite fragmenta, in Conservare il Novecento: convegno nazionale. Ferrara 25-26 marzo 2000. Atti a cura di M. Messina e G. Zagra, Roma 2001, pp. 27 – 36)

11) “… i beni (…) hanno (…) la caratteristica di soddisfare direttamente un interesse pubblico (…) mentre i rimanenti beni privati, anche se soddisfano un interesse pubblico – il che avviene normalmente allorché l’utilizzazione di essi venga concepita in funzione sociale – ciò fanno solamente in via indiretta e mediata per il tramite dell’avente diritto” (A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, II, Napoli, 1989, p. 758-59)

12) M. S. Giannini, I beni culturali, in “Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico”, 1976, pp. 26-27

13) W. Cortese, Il patrimonio culturale. Profili normativi, III ed., Padova 2007, p. 175

14) “… il giudizio valutativo ha natura di giustificazione del provvedimento dichiarativo della qualità di bene culturale (…) la dichiarazione di bene culturale non comporta alcuna ponderazione comparativa di interessi (…) non vi sono, in altre parole, motivi per i quali possa essere opportuno più o meno dichiarare una cosa bene culturale (…) presuppone solo un giudizio valutativo, di discrezionalità non amministrativa” (M. S. Giannini, I beni culturali cit., p. 18). I temi della natura del bene, della natura dell’individuazione e della loro storia dottrinale vengono dottamente sintetizzati da Giuseppe Severini nel commento all’articolo 2 del Codice contenuto in: Codice dei beni culturali e del paesaggio a cura di Maria Alessandra Sandulli, II ed., Milano 2012, pp. 6 – 36. L’inerenza del vincolo alla cosa anche quando ceduta ha fatto anche ipotizzare l’esistenza di un diritto reale della Repubblica, del tipo delle ipoteche o delle servitù

15) “… l’ambiente informatico si caratterizza da sempre per la sua rapida obsolescenza. Anzi è proprio questo dato che rende l’informatica un business assai redditizio e tutto lascia pensare che questo rimarrà il suo perenne e fondamentale connotato. L’obsolescenza riguarda (…) anche gli algoritmi di creazione e ripristino delle serie numeriche che rappresentano la base della digitalizzazione (…) Che fare a quel punto se non “rinfrescare” le banche dati digitali adattandole alle tecnologie up-to-date? Ovviamente tale refreshing non sarà gratuito, sempre confidando che i dati immagazzinati in precedenza siano ancora compatibili con i nuovi sistemi.” (C. Federici, Digitale: toccasana o veleno?, in “La Fabbrica del Libro. Bollettino di storia dell’editoria in Italia”, anno XVIII 1/2012, pp. 2-5)

16) Vedi in merito C. Federici, A, B e C. Dialogo sulla conservazione di carte vecchie e nuove, Roma 2005, pp. 18-19. Un rapporto fra la valorizzazione della componente di fruizione del “valore culturale” di gianniniana memoria e la problematica dell’onerosità, per ragioni non autoriali, dell’utilizzo di riproduzioni dei beni viene ravvisato e discusso da L. Casini, “Noli me tangere”: i beni culturali tra materialità e immaterialità, in Aedon cit., 1/2014

17) M. Guercio, Conservare il digitale. Principi, metodi e procedure per la conservazione a lungo termine di documenti digitali, Roma – Bari 2013, p. 60

18) “Nel mondo digitale l’originale perde il suo valore filologico di validatore della tradizione testuale, perché viene a mancare un qualsiasi discriminante tra antigrafo e apografo. Anzi, come spesso accade, la copia sostituisce l’originale da cui era stata tratta” (A. M. Tammaro e A. Salarelli, La biblioteca digitale, nuova edizione interamente riveduta e ampliata, Milano 2006, p. 32)

19) Per la presentazione dell’iniziativa, che ha avuto poi positivi sviluppi, cfr. G. Bergamin e M. Messina, Magazzini digitali: dal prototipo al servizio, in “DigItalia. Rivista del digitale nei beni culturali”, 1 (2010), pp. 115 – 122

20) Dice da ultimo Severini: “sia nel Testo unico dei beni culturali e ambientali del 1999, sia nel Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, sono state poste chiare disposizioni di apertura (…) a un possibile intervento successivo del legislatore per ampliare il novero dei beni culturali.(…) l’art. 2, comma 2, del Codice (…) parla di “altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà” (G. Severini, Immaterialità… cit.). Ricordo indicativamente la definizione di documento digitale proposta in una pur nel frattempo abrogata deliberazione AIPA (Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione), la n. 42 del 13 dicembre 2001: “testi, immagini , dati strutturati, disegni, programmi, filmati formati tramite una grandezza fisica che assume valori binari, ottenuti attraverso un processo di elaborazione elettronica, di cui sia identificabile l’origine”

21) “…quanto sia opportuno che i documenti destinati a produrre effetti nel tempo, ad assicurare stabilità nei contenuti, a garantire affidabilità, a dimostrare la propria accuratezza e a perdurare nell’esercizio della funzione originaria debbano far ricorso a sistemi di record management, anche quando non sono necessariamente o immediatamente riconducibili alla categoria specifica dei documenti archivistici (…) Tale attenzione nella individuazione dei parametri di riferimento dei sistemi di produzione e gestione dei documenti è tanto più necessaria quanto più si affronta la dimensione digitale della memoria documentaria, instabile per definizione, facile da modificare, impegnativa da tracciare” (M. Guercio, op. cit., pp. 14 – 15)

22) “Nulla di più immateriale di un testo. Lo puoi riprodurre, digitalizzare, vale a dire convertirlo in una sequenza numerica, ma soprattutto lo puoi trasformare in un pensiero imparandolo, per esempio, a memoria” (C. Federici, A, B e C… cit., p. 22). “… le Rime del Petrarca sono un bene immateriale, in quanto indiscutibile espressione letteraria, i manoscritti delle Rime, cioè gli originali dell’opera, costituiscono bene culturale (…), una mostra delle edizioni librarie succedutesi nel tempo delle Rime va ritenuta un’attività culturale (…) mentre la recitazione in teatro delle stesse Rime è da considerarsi attività di spettacolo” (Diritto e gestione dei beni culturali. A cura di Carla Barbati Marco Cammelli Girolamo Sciullo, Bologna 2011, pp. 24-25).

23) Cfr.gli interventi di Lorenzo Casini, Antonella Albanesi e Marco Macchia in La globalizzazione dei beni culturali. A cura di Lorenzo Casini, Bologna 2010, pp. 11 – 85. L’espressione “quasi esclusivamente” è dovuta al recepimento nell’ordinamento italiano del principio per cui ogni sito UNESCO viene dotato di un proprio “piano di gestione” (legge 20 febbraio 2006, n. 77), il cui eventuale disattendimento da parte degli enti di pianificazione territoriale non sembra però essere opponibile come motivo di illegittimità (vedi in merito A. Cassatella, Tutela e conservazione dei beni culturali nei Piani di gestione Unesco: i casi di Vicenza e Verona, in Aedon cit., n. 1/2011). In remota ipotesi, la legittimità dell’atto difforme non impedirebbe un’eventuale procedimento per inadempimento della convenzione a carico dello Stato, che come unico soggetto di diritto internazionale diverrebbe responsabile per fatto altrui, cioè dell’ente regionale o locale

24) Vedi in merito la sintesi di L. Zagato con M. Giampieretti, Lezioni di diritto internazionale… cit., pp. 87 – 126, e l’art. 7 bis del Codice. Non irrilevanti comunque le criticità da gestire: la compatibilità fra conservazione di talune tradizioni e i principi fondamentali della tradizione nostra, egemone ma pur sempre particolare (cfr. L. Zagato, Intangible cultural heritage and human rights, in Il patrimonio culturale intangibile nelle sue diverse dimensioni a cura di Tullio Scovazzi, Benedetta Ubertazzi e Lauso Zagato, Milano 2012, pp. 29 – 50); il conflitto di interessi fra specificità culturali indigene e politiche tendenti alla formazione di stati unitari; le necessarie delicatezze interculturali, che hanno indotto per esempio a sospendere la candidatura della Giostra del Saracino di Arezzo

25) Naturalmente la nozione di comunità di eredità, o comunità patrimoniale come più spesso si dice, necessita di approfondimenti e specificazioni, che si presume si verificheranno in itinere: infatti “… la stessa nozione di partecipazione viene spesso associata a osservazione partecipante. In questo caso (…) si avvale del coinvolgimento degli etnologi, i quali diventano mediatori fra le comunità e le istituzioni, in altri casi, partecipazione viene intesa come democrazia partecipata e così la comunità diventa primariamente comunità patrimoniale (…) ma la questione non è assolutamente definita” (L. Mariotti, Valutazione d’insieme del patrimonio intangibile italiano, in Il patrimonio culturale intangibile… cit., p. 207); ma se si opta, cone nel caso di Faro, per la seconda opzione “di… competenze trasversali deve essere dotata non solo la comunità originariamente depositaria dell’elemento culturale intangibile, ma anche la cosidetta “comunità patrimoniale”, ovvero quella comunità che assume su di sè la salvaguardia dell’elemento” (G. Puglisi, Prefazione. La dimensione interdisciplinare del patrimonio culturale intangibile, in Il patrimonio culturale intangibile cit., pp. XVII – XVIII)

26) “Possono gli stati fornire incentivi per spingere persone che non vogliono partecipare a una pratica in via di sparizione o devono essi limitarsi a documentare per gli annali e per gli archivi le ultime manifestazioni di tale pratica? (…) Si può ‘rivitalizzare’ un torneo medievale con una parata di majorettes?” (T. Scovazzi, Il patrimonio culturale intangibile… cit., pp. 16-17)

27) cfr. C. Carmosino, La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, in Aedon… cit., 1/2013


Category: Ambiente, Economia

About Massimo Canella: Massimo Canella, laureato in Scienze politiche all'Università di Padova, è stato docente a contratto presso l'Università Ca' Foscari di Venezia: "Strumenti giuridici e ruolo delle istituzioni per i beni culturali" al corso di laurea specialistica interateneo fra Padova e Venezia su "Storia e gestione del patrimonio archivistico e bibliografico". Ha coordinato il Servizio Beni librari e archivistici e Musei della Regione del Veneto con particolare riferimento allo sviluppo di reti informatiche e relazionali, e alla Soprintendenza ai beni librari. Ha realizzato progetti pluriennali sulla valorizzazione del patrimonio culturale e sull'arte contemporanea. Ha partecipato ai Comitati nazionali del Servizio Bibliotecario Nazionale e del Sistema Archivistico Nazionale e al comitato di redazione del Notiziario bibliografico del Veneto. E' autore di numerose pubblicazioni su i beni culturali (vedi elenco nella rete Linkedin a suo nome)

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