Lunghini, Viale: riscoprire Keynes o andare oltre?

| 10 Aprile 2012 | Comments (0)

 

 

 

 

DIBATTITO SU KEYNES

 

Su Il manifesto sono stati pubblicati due articoli, uno di Giorgio Lunghini e l’altro di Guido Viale) che presentano due tesi diverse in relazione a Keynes. Su   Keynes apriamo su Inchiesta un dibattito

 

Riscopriamo Keynes per uscire dalla crisi (Giorgio Lunghini)

Il sistema capitalistico non è capace di autoregolarsi, per questo è necessario un disegno di politica economica. Applicare le ricette keynesiane di equità e crescita farebbero aumentare i consumi e penalizzerebbero i «rentier». In Italia, bisognerebbe agire su produttività, debito pubblico e domanda È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante non abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il che dovrebbe bastare per farla abbandonare; ma è politicamente preoccupante che delle crisi si tenti di medicare le conseguenze ispirandosi alla sua filosofia, che è quella del laissez faire.

Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspetti finanziari, le colpevoli condizioni della finanza pubblica e delle istituzioni finanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi finanziari e gli elementi reali sono strettamente interconnessi, poiché una economia monetaria di produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza. Un sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale – per dirla con Marx – da non generare crisi di realizzazione, di sovrapproduzione (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Ovvero non si darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali – by accident or design – da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico – il mercato – non è capace di autoregolarsi.

Negli ultimi anni si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie alla globalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionale del lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale. Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisi ciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttive della Banca Centrale Europea e, in generale, del «senato virtuale».
Il «senato virtuale», secondo una definizione che Noam Chomsky mutua da B. Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varie forme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa una crisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente – poiché la seconda volta le tragedie si presentano come farsa – in forme di populismo autoritario, con Tolkien al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie. In un mondo fatto di Lumpenproletariat e di piccolo-borghesi.
Sono conseguenze della crisi, e insieme loro cause, che in verità sono i connaturati difetti del capitalismo: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Per rimediare a questi difetti, nell’ultimo capitolo della Teoria generale Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell’economia. È un vero peccato (e peccato mortale nel senso del Catechismo: tale quando ci sono nel contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso) che la keynesiana Filosofia Sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre non sia mai stata presa in considerazione, per via della incapacità dei finanzieri della City e dei rappresentanti dei capitalisti nel Parlamento, di decidere circa le misure da prendere per salvaguardare il capitalismo dal «bolscevismo»; e che il piano Keynes di Bretton Woods sia stato prima temperato poi smantellato. Tuttavia i problemi reali, che Keynes aveva ben chari in mente in tutti e due i sensi della parola, oggi in Italia si riducono a uno: a un problema di crescita, equa e rispettosa dei vincoli di bilancio.

La ricetta keynesiana è di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricetta per l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicata dall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento della propensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva. L’eutanasia del rentier, dunque del «potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale», renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale. Per quanto riguarda l’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, «l’azione più importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno di già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto». Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre, purtroppo tradita.

Tutti riconoscono che il problema principale dell’economia italiana è un problema di crescita; e che però i vincoli finanziari sono stringenti. Come intervenire, sotto questo vincolo? Qui, a integrazione di quanto ho detto sinora, voglio riprendere un ragionamento di Pierluigi Ciocca che a me pare di grande importanza e attualità; anche perché contiene una implicita critica alla politica dei due tempi, una politica per definizione fallimentare. Ricordo che Pierluigi Ciocca è stato il primo a parlare di un «problema di crescita dell’economia italiana», nella riunione scientifica del 2003 della Società Italiana degli Economisti; e che di recente ha suggerito Tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore equità e crescita. È culturalmente e politicamente preoccupante che un così ragionevole e semplice suggerimento, che qui sotto riprendo, non sia stato preso in nessuna considerazione.

L’economia italiana è minata da scadimento della produttività, vuoto di domanda effettiva, credito internazionale precario. La politica economica dovrebbe agire simultaneamente sui tre fronti, tra loro strettamente connessi:

1.Promuovere la produttività. La produttività risente di incapacità intrinseche alle aziende italiane. Sono limiti – non solo dimensionali – di cui l’impresa porta intera la responsabilità e sulle quali la politica economica non può molto. Ma la produttività trova altresì impedimenti esterni. In primo luogo, la carenza delle infrastrutture materiali e la pressione tributaria. Manutenzione, ampliamento e modernizzazione delle infrastrutture fisiche postulano investimenti pubblici cospicui. La produttività incontra un ulteriore ostacolo esterno nella inadeguatezza del diritto dell’economia. Si richiede una organica riforma del diritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tutela della concorrenza e del diritto amministrativo. Dai primi anni Novanta – paradossalmente, da quando esiste un’autorità antitrust – si è inoltre affievolito l’insieme delle pressioni, di mercato e no, che costringono le imprese a ricercare il profitto attraverso l’efficienza, il progresso tecnico, l’innovazione. Il grado medio di concorrenza è diminuito, il cambio è stato a lungo cedevole, la spesa pubblica larga, i salari reali stagnanti. Per più vie, a cominciare da una vera azione antitrust, la politica pubblica è chiamata a favorire le sollecitazioni produttivistiche nel sistema, confidando che l’impresa privata – quella pubblica essendo stata ridotta dal disfacimento dell’Iri a utilities e a alcuni servizi – riscopra una adeguata attitudine imprenditoriale, risponda alle sollecitazioni, sappia cogliere le opportunità.

2.Sostenere la domanda. Per superare una depressione che altrimenti si protrarrebbe ancora per anni e dovendosi ridurre il disavanzo, è necessario agire sulla composizione del bilancio pubblico. Unitamente a minori imposte, non va ridimensionato – come sinora si è fatto – ma va accresciuto il peso delle voci di spesa più idonee a alimentare la domanda. Al tempo stesso, è il peso delle uscite che in minor misura influenzano la domanda a doversi ridurre, nella misura necessaria a raggiungere il pareggio e a fare spazio nel bilancio alle spese da espandere e alla pressione tributaria da limare. Con una simile, articolata manovra di finanza pubblica, la domanda globale, anziché contrarsi, riceverebbe sostegno. Dal miglioramento delle aspettative e dai minori tassi d’interesse deriverebbero maggiori investimenti e consumi da parte dei privati.

3.Ridurre il debito pubblico. Solo il rilancio della crescita di lungo periodo, unito alla riduzione e ristrutturazione della spesa e a una pressione tributaria perequata, ancorché attenuata, può risanare i conti pubblici. Al di là dell’emergenza e dei provvedimenti salvifici, va posto in atto un programma che nel quinquennio 2012-2016 abbassi la spesa corrente in rapporto al Pil di circa 6 punti. Di questi, 2 o 3 punti concorrerebbero all’azzeramento del disavanzo e assicurerebbero in seguito l’equilibrio del bilancio. Tre punti verrebbero devoluti a maggiori investimenti in infrastrutture e alla riduzione del carico fiscale. Per ragioni di equità e per sostenere i consumi la tassazione va redistribuita in senso progressivo, in primo luogo attraverso un contrasto all’evasione che sia senza quartiere e che sul reddito celato incida anche rilevando livello e variazioni del patrimonio. L’azzeramento del disavanzo si concentrerebbe su tre voci di spesa: trasferimenti alle imprese, acquisti di beni e servizi, costo del personale. Nella media del periodo le tre voci dovrebbero scendere, rispetto a un Pil nominale e reale dapprima in ripresa poi in crescita, grosso modo nelle seguenti proporzioni: i) i trasferimenti alle imprese (da ridurre prontamente anche in valore assoluto, perché fonte di inefficienza, se non di illegalità) di almeno di 2 punti percentuali; ii) gli acquisti di beni e servizi dal 9 al 6%, attraverso severe economie e soprattutto una dura ricontrattazione degli esosi prezzi lucrati dai fornitori; iii) la spesa per il personale – con un parziale turnover, salvaguardando i salari unitari – dall’11 al 10%. Su queste basi l’abbattimento dello stock del debito pubblico potrebbe essere accelerato cartolarizzando immobili delle pubbliche amministrazioni non funzionali alla loro operatività. Il peggioramento delle prestazioni offerte ai cittadini dal sistema pensionistico e dal sistema sanitario – conquiste e collanti della società italiana – rappresenta invece una fonte di economie a cui solo eventualmente e solo residualmente far ricorso.
Nell’insieme le tre voci di spesa corrente indicate sopra rappresentano circa un quarto del Pil. In un quinquennio la crescita del Pil potrebbe mediamente risalire al 4,5% l’anno: 2,5% in termini reali, 2% per un’inflazione entro i limiti europei. Se solo venissero bloccate in termini nominali, globalmente le tre voci di spesa scenderebbero alla fine del periodo del 10% in termini reali e quasi del 5% rispetto al prodotto interno lordo. Assumendo, per semplicità, moltiplicatori dell’ordine di 0,5 per le spese che perdono di peso (6 punti) e di 1,5 per i maggiori investimenti e la minore imposizione (3 punti) l’impatto netto del mutamento di composizione del bilancio sulla domanda globale risulterebbe espansivo nella misura dell’1,5 per cento. L’effetto andrebbe distribuito nell’arco del quinquennio alla luce del profilo ciclico dell’economia e nel rispetto dell’equilibrio di bilancio in ciascun esercizio. Il premio al rischio sul debito scenderebbe, perché un piano siffatto è quanto gli investitori, interni e internazionali, chiedono da anni all’Italia.
Scriveva Keynes, nel 1937: «La fase di espansione, non quella di recessione, è il momento giusto per l’austerità di bilancio».

[Il Manifesto 16 febbraio 2012]

 

Keynes non basta più (Guido Viale)

Non è possibile prospettare una via d’uscita in un quadro nazionale o continentale privo dei riferimenti ai vincoli e alle opportunità offerte dalla crisi ambientale. L’orizzonte esistenziale delle nostre vite è dominato dalla crisi ambientale: non solo dai mutamenti climatici, che rappresentano ovviamente la minaccia maggiore; ma anche dalla scarsità di acqua e suolo fertile (non a causa della loro limitatezza naturale, ma dell’inquinamento e della devastazione a cui sono sottoposti); dalla distruzione irreversibile della biodiversità; dall’esaurimento del petrolio e degli altri idrocarburi (che sono anch’essi “risorse naturali”, anche se utilizzate per devastare la natura); dall’esaurimento di molte altre risorse, sia geologiche che alimentari (il nostro “pane quotidiano”); dall’inquinamento degli habitat umani che riduce progressivamente la qualità della vita e delle relazioni interpersonali. A molte di queste minacce c’è chi pensa di poter fare argine con l’innovazione: nuovi materiali; nuovi processi; nuove tecnologie. È in gran parte un’illusione, ma anche se fosse possibile farlo su una o alcune delle grandi questioni ambientali, è la loro interconnessione in un sistema unico e complesso a imporre un approccio globale. Parlare di crescita economica, qualsiasiNon è possibile prospettare una via d’uscita in un quadro nazionale o continentale privo dei riferimenti ai vincoli e alle opportunità offerte dalla crisi ambientale cosa si intenda con questa espressione, senza fare riferimento a questo quadro, è un discorso vuoto.

La crisi ambientale offre all’economia delle opportunità e impone dei vincoli: le opportunità sono note (a chi ha interesse per la questione): sono le potenzialità di una conversione ecologica di produzioni e consumi verso beni e servizi meno dipendenti dai combustibili fossili, meno devastanti per la biodiversità, e verso la qualità e la disponibilità di risorse primarie; le potenzialità di una occupazione maggiore e diversa, caratterizzata a una più estesa valorizzazione delle facoltà personali e della cooperazione; le potenzialità legate alle caratteristiche fisiche, storiche e sociali di ogni territorio; i territori sono diversi uno dall’altro e la loro ricchezza dipende dalla conservazione di questa diversità. Ma i vincoli sono altrettanto rilevanti: il consumo di suolo e di risorse non può procedere al ritmo seguito finora; molte delle produzioni che hanno guidato lo sviluppo industriale dell’ultimo secolo – dall’edilizia all’automobile, dagli armamenti all’utilizzo dei combustibili fossili, dal turismo di massa alle monocolture alimentari – non potranno continuare per molto sulla stessa strada: non solo per mancanza di risorse e per eccesso di rilasci inquinanti, ma anche per saturazione dei mercati: della domanda solvibile.

Vincoli e opportunità indotti dalla crisi ambientale dovrebbero essere i criteri informatori di qualsiasi politica industriale: cioè delle scelte che determinano o orientano le decisioni su che cosa, quanto, con che cosa, come e dove produrre. Sono scelte che non possono essere lasciate al mercato, cioè al libero gioco della domanda e dell’offerta; perché nessun mercato è in grado di cogliere tutti i segnali che provengono dalla complessità del contesto ambientale, da cui non si può più prescindere.

In secondo luogo, la globalizzazione ha trasformato alcune aree geografiche del pianeta in manifatture del mondo. A questo è dovuta la contrazione della domanda di lavoro – qualificato e no – che ha colpito i paesi di più antica industrializzazione, imponendo alle relative classi lavoratrici un drammatico deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita: precarizzazione, disoccupazione, contrazione dei redditi, compressione del welfare. Questo processo ha investito tutti i settori e tutta – o quasi – la gamma delle produzioni e, in misura maggiore, i beni consumati dalle classi lavoratrici: i cosiddetti beni-salario. Mentre nelle cittadelle di più antica industrializzazione sono rimaste quasi solo alcune produzioni di beni di investimento di maggiore complessità, molte delle attività di coordinamento e gestione delle attività delocalizzate e alcuni segmenti di produzioni più o meno tradizionali di beni suntuari (ormai riuniti in un’unica categoria merceologica onnicomprensiva, denominata per l’appunto “lusso”).

Tutto ciò ha profondamente alterato l’efficacia delle politiche economiche. Gli Stati ne hanno perso alcune (la determinazione del tasso di sconto, la politica dei cambi, la creazione di moneta, la politica doganale) o per averle cedute a enti sovranazionali (è il caso dell’Unione europea e soprattutto dell’eurozona); o perché esse sono state di fatto requisite dalla finanza internazionale: cioè da organismi di diritto privato detentori – e anche creatori – di una massa monetaria sufficiente a condizionare le decisioni di ogni Stato: anche di quelli più potenti. Ma, soprattutto, le misure economiche adottate in una parte del pianeta possono distribuire i loro effetti (diluendoli o moltiplicandoli) su tutto il resto del mondo (lo si è visto con la crisi dei mutui subprime) e magari non avere alcun effetto, né positivo né negativo, nel paese dove sono state prese. Ciò ha minato molte delle misure di sostegno della domanda di matrice keynesiana con cui di recente si è cercato di stimolare la produzione e, con essa, l’occupazione. Raramente oggi gli incrementi di produzione si traducono in aumenti dell’occupazione – a volte innescano salti tecnologici o organizzativi che addirittura la riducono – ma sempre meno la produzione aggiuntiva messa in moto da una politica di sostegno della domanda riguarda lo stesso paese in cui è stata adottata. Lo si è visto con gli incentivi alla rottamazione con cui quasi tutti i paesi occidentali hanno cercato di fare fronte alla crisi del 2008-2009: in molti casi il sostegno all’occupazione nazionale è stato insignificante. Ma questo è particolarmente vero per la maggioranza dei beni-salario il cui consumo potrebbe essere alimentato da un sostegno ai redditi più bassi. Gli effetti riguarderebbero soprattutto beni di importazione a basso costo; il che si traduce solo in maggiori squilibri della bilancia commerciale da finanziare con l’indebitamento.

Le politiche keynesiane che hanno sorretto lo sviluppo dei cosiddetti “trenta (anni) gloriosi” erano tarate sul contesto di uno Stato nazionale ancora in gran parte in possesso delle principali leve della politica economica (e che non per questo aveva rinunciato a sviluppare anche una robusta politica industriale adatta alle condizioni dell’epoca: per esempio nel campo della siderurgia, degli approvvigionamenti energetici, della navigazione, della infrastrutturazione e, ovviamente, degli armamenti; per sconfinare magari in campi, come l’alimentare o l’automobile, da cui avrebbe forse potuto esentarsi). Ma oggi un ragionamento sulle “vie di uscita” dalla crisi sviluppato in un quadro nazionale (come quello al cui interno hanno funzionato per alcuni decenni le politiche keynesiane), o anche continentale, ma privo di riferimenti ai vincoli e alle opportunità indotti dalla crisi ambientale non è più plausibile. Non ha più molto senso ragionare su meri aggregati economici espressi in termini monetari, senza tener conto che nessuna politica economica è più praticabile senza una contestuale politica industriale che orienti e condizioni l’oggetto delle produzioni e le modalità (individuali o condivise) del consumo di molti beni e servizi. Questo, a mio avviso, è un limite inemendabile delle analisi e delle proposte correnti di stampo keynesiano, come quelle peraltro esemplari di Giorgio Lunghini su Il manifesto del 16 febbraio («Riscopriamo Keynes per uscire dalla crisi»). Non solo; una politica industriale che faccia riferimento alla crisi ambientale, cioè orientata a produzioni e consumi sostenibili – la “conversione ecologica” – non è concepibile se non in un contesto di progressiva riterritorializzazione: con un ridimensionamento e una rilocalizzazione delle produzioni in prossimità (relativa) dei mercati di smercio; o in un rapporto diretto – o comunque meno esposto alle alee di un interscambio non programmato – tra produzione e consumo. Questo indirizzo, che non è protezionismo né abolizione, della competitività (l’idolo del nostro tempo) ma una sua moderazione certamente sì, rimette al centro delle politiche economiche e industriali il governo del territorio. Ed è anche, a mio avviso, l’unica alternativa plausibile al progressivo deterioramento dell’occupazione, dei redditi e delle condizioni di vita delle classi lavoratrici dell’occidente industrializzato, ormai trascinate in una corsa al ribasso per allinearle a quelle dei paesi emergenti; la politica salariale della Grecia (salari minimi quasi al livello di quelli cinesi) ne rappresenta oggi la manifestazione più lampante.

[Il manifesto 23 febbraio 2012]

Category: Dibattiti, Economia

About Giorgio Lunghini: Giorgio Lunghini (Ferrara 1938) si è laureato presso l'Università L. Bocconi, è stato docente all'Università degli studi di Milano e di Pavia. Ha tenuto inoltre, dal 1975 fino al 2010, presso l'Università Commerciale Luigi Bocconi il corso progredito Economia Politica - I modelli economici, poi denominato, dal 2007, Teorie Economiche Alternative; è stato dal 2007 sino al 2010 professore ordinario in Economia Politica presso lo IUSS-Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, dove oggi continua ad insegnare come professore a contratto.Principali libri scritti a partire dai più recenti: Conflitto, crisi, incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative, Bollati Boringhieri, Torino 2012; (a cura di, e con L. Cavallaro), J.M. Keynes, Laissez faire e comunismo, Derive Approdi, Roma 2010; Politiche pubbliche per il lavoro, in collaborazione con F. Silva e R. Targetti Lenti, il Mulino, Bologna 2001; Sul capitalismo contemporaneo, con Michel Aglietta, Bollati Boringhieri, Torino 2001; Riproduzione, distribuzione e crisi, Unicopli, Milano 1996; L'età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali, Bollati Boringhieri, Torino 1995. (premio Walter Tobagi); Scelte politiche e teorie economiche in Italia (1945-1978), a cura di Giorgio Lunghini, Einaudi, Torino 1981; La crisi dell'economia politica e la teoria del valore, Feltrinelli, Milano 1977.

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